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Gruppo di famiglia in un inferno

È finito Succession e tutti sono alla disperata ricerca d’amore. Ma i momenti di empatia sono in realtà l’epica dell’umiliazione: non esistono i buoni, solo carnefici che in quel momento non sono di turno. Ricordo struggente di un pomeriggio dentro un cassonetto
di Guia Soncini
illustrazioni di Giorgio Carpinteri

La cosa più strana che è accaduta di fronte a Succession è stata la ricerca disperata d’amore. Un mondo che ripete con abbandono liturgico quella frase di Maya Angelou sul fatto che, quando qualcuno ti mostra com’è fatto, devi credergli; un mondo che affolla i social per dire il proprio scandalo ogni volta che un figlio non viene invitato a una festa d’un compagno delle elementari o non viene riconosciuto genio da un professore; un mondo che ha un’idea dell’amore vicina a quella di quella canzone orrenda e stucchevole, ti proteggerò dalle paure e dalle ipocondrie – quel mondo lì, improvvisamente dissociato, ha ripetuto per cinque anni che Logan Roy voleva bene ai figli. (In realtà veniva ripetuto che li “amava”, giacché il doppiaggese è ormai non arginabile, e Chiara Ferragni chiede alla figlia di dire “ti amo, papà”, e una delle poche occasioni di non miseria dell’italiano, la sfumatura di differenza tra “volere bene” e “amare”, è perduta nel grande indifferenziato dell’amore: Logan ama quei quattro piscialetto, come no).

Vedo arrivare l’obiezione: l’ha detto lui. Siamo diventati così: ci facciamo dire come interpretare le opere non solo dagli autori (che già sarebbe grave: quando mai un autore capisce la propria opera), ma addirittura dagli attori. A gente che una volta sarebbe stata sepolta in terra sconsacrata deleghiamo la nostra decodifica dei prodotti culturali. Se Logan non volesse bene ai figli sarebbe tutto più semplice, ha ripetuto Brian Cox in molte interviste, e nessuno mai gli ha detto scusi ma questo bene dov’è, non c’è nel testo, non c’è nell’interpretazione, se volevate mettere in scena un padre la cui ferocia di uomo d’affari è arginata dall’affetto per la prole avete sbagliato qualcosa.

Adesso che Succession è finito senza che mai per un attimo smettessero tutti d’essere orrendi e meschini e crudeli; adesso che Logan Roy è morto e abbiamo appreso che era arrivato in America durante la Seconda guerra mondiale, in età prescolare, clandestino nella pancia d’una nave nella quale doveva stare immobile e muto altrimenti i sottomarini l’avrebbero intercettato, e insomma vuoi mai che uno cresciuto così abbia pazienza col nipote cui non si può imporre di stare a tavola perché ha il deficit d’attenzione; adesso che è tutto finito (forse), adesso possiamo fare un elenco parziale dei momenti in cui, come no, avremmo dovuto comprendere che Logan Roy voleva bene a quei quattro piscialetto che aveva generato.

La volta in cui Roman stava come sempre facendo una battuta, ma Logan era irritato, e si è voltato dicendogli di piantarla e dandogli una manata, abbastanza forte da staccargli un dente. Poi ha bofonchiato che non l’aveva fatto apposta, non l’aveva visto, ma la squisitezza di quell’umiliazione era sancita dall’umiliato che si affrettava a dire che non era niente di che, «è un dente, me ne procuro un altro», un uomo adulto che cerca di convincere gli interlocutori che tuo padre che ti stacca un dente non sia mica un fatto rilevante, una roba per cui agitarsi. Non s’interrompe un elenco alla prima voce, obietteranno i lettori più attenti, ma io devo parlarvi di quella volta che sono stata Roman Roy col dente staccato, ovvero del cassonetto. Avrò avuto quindici o sedici anni. Nella piazza di fronte a casa mia c’era un cassonetto, mio padre andava la sera a buttarci la spazzatura perché mia madre riteneva che per una signora non fosse elegante uscire col sacchetto del rusco in mano (a Bologna la spazzatura si chiama rusco). Ma, soprattutto, nella piazza di fronte a casa mia c’era una compagnia di ragazzi di periferia, che si ritrovavano lì perché quella piazza era in centro, e quella che io davo per scontata come residenza era per loro approdo dopo la traversata in Vespa dalle banlieue (in realtà non ho idea di dove abitassero, ma oltre i cinquecento metri che erano il mio mondo, oltre il centro di Bologna in cui non si perde neanche un bambino, oltre Berlino).

Non so ricostruire come fu che io e le mie compagne di classe iniziammo a dare confidenza a quei periferici: ormoni, o un aggiornamento sociale degli amori ancillari, o il tentativo di dimostrarci inclusive delle classi sociali inferiori. So solo questo: che una sera – un tardo pomeriggio, ma di buio invernale – mi presero e mi buttarono nel cassonetto. E so che, da dentro il cassonetto, feci tutt’un ragionamento romanroyano su come conservare la dignità nel mezzo dell’umiliazione. Non mi precipitai a uscire da quel contesto disgustoso, io che al minimo odore sgradevole ho i conati, io che allora ero persino più schifiltosa di ora; indugiai silente e immobile – come Logan Roy nella pancia della nave – per qualche interminabile decina di secondi. Ero convinta, ricordo il ragionamento come l’avessi fatto un attimo fa, che l’affrettarmi a uscire avrebbe sancito l’umiliazione. Se pensano che non mi dia nessun fastidio stare nel cassonetto, gli darà meno soddisfazione avermici buttata. Se non do a vedere che non vedo l’ora di uscire, non capiranno di avermi umiliata. Torniamo all’elenco. La volta in cui Kendall Roy fa Ted Kennedy, che a Chappaquiddick lascia morire una ragazza dopo che l’auto finisce in acqua. Kendall, in Inghilterra per il matrimonio della sorella, lascia morire un cameriere, già umiliato durante la cena da Logan, già pagato per andarsene e tacere. Kendall gli chiede d’accompagnarlo a prendere della coca, finiscono fuori strada, Kendall si salva e quell’altro no. Ma, poiché è un piscialetto nato ricco e non abituato a cavarsela, lascia in macchina la chiave della stanza d’albergo, che quindi viene ritrovata dagli uomini di Logan. Di Logan del quale in quel momento Kendall si accinge a scalare ostilmente l’azienda. Si accingeva, perché adesso è ricattabile. Adesso tu dici a questi tuoi compari che non se ne fa più niente, e io non consegno la chiave della tua stanza d’albergo alla polizia. Kendall dagli occhi sempre all’ingiù ubbidisce, perché persino uno che non ha mai dovuto guadagnarsi niente sa quand’è il caso di non fare il figliol prodigo. Se Logan non volesse bene ai suoi figli sarebbe tutto più semplice, ripeteva Brian Cox, e nessun intervistatore gli chiedeva conto dell’affetto con cui aveva devastato la psiche del figlio implicando che poteva scegliere se scalare l’azienda ed essere processato per omicidio, o cavarsela come al solito restando sotto l’ala di papà.

In una serie fatta come le vogliono di solito i produttori, in cui ci siano dei buoni per cui il pubblico possa tifare, con cui possa identificarsi, mica possono essere tutti stronzi, allora non sai come si fa la drammaturgia, in una serie fatta con le regolette dei racconti banali, la madre di Kendall sarebbe stata la chioccia dalla quale farsi consolare. E invece Kendall, devastato dal senso di colpa e dall’umiliazione e forse persino dalla questione morale, andava dalla madre per raccontarle la verità, ho ammazzato uno, papà mi ricatta, e la madre forse non sapeva i dettagli ma di sicuro intuiva il melodramma di cui non voleva farsi carico, e gli diceva sì, però questi gravi problemi me li racconti domani perché adesso è tardi e io voglio andare a dormire. Per fortuna nessuno intervista mai Harriet Walter, l’attrice inglese che interpreta la madrefrigorifero di tre dei quattro piscialetto, altrimenti ci toccherebbe sentire anche da lei che peso sia volere bene ai figli. Poi c’è la volta in cui Logan illude Shiv che il posto di amministratore delegato sarà suo, la fa andare in ufficio a impratichirsi, ma poi diventa chiaro che non sarà lei, e al funerale l’unica figlia femmina dirà che è perché Logan proprio non riusciva a rapportarsi alla pari con le donne, ma sappiamo tutti che è una scusa: Logan proprio non riusciva a rapportarsi alla pari con quattro cretini nati ricchi, Logan proprio non riusciva a perdonare ai suoi figli il fatto di averli fatti nascere ricchi, Logan proprio non riusciva a stimare quei quattro scemi, uno che non ha mai lavorato e vuol fare il presidente degli Stati Uniti, uno che si fa le seghe in ufficio, uno che vuole fare la scalata ostile e si spaventa della propria ombra, una che non ha mai amministrato niente e se non le danno la cosa più grossa che ci sia da amministrare dice che è perché è donna.

A questo punto chiunque abbia visto Succession sta pensando da decine di righe a boar on the floor, secondo il Guardian «un atto di totale umiliazione di livello Guantanamo». Per chi non si ricordasse Succession (ma si ostinasse a leggere uno sterminato numero di pagine in cui viene data per scontata una familiarità dettagliata con le vicende della famiglia Roy), riassumiamo il contesto di boar on the floor. Quasi tutti sono in Ungheria (Shiv è rimasta a New York, Connor anche ma Connor è il primogenito che nessuno considera tale, il fratello estraneo, il figlio che a un certo punto viene addirittura mandato su un volo di linea, che per gente così ricca è un po’ come essere quello che si dimenticano d’invitare al pranzo di Natale). Sono in Ungheria, Logan sta tentando un’acquisizione, c’è una fuga di notizie, e in più una tizia vuole scrivere una biografia del patriarca e si sa che qualcuno le ha parlato, ma non si sa chi (è Greg, il cugino povero con ambizioni da ricco: il peggiore). Di giorno sono andati a caccia, ma siccome sono tutti, appunto, gente non abituata a guadagnarsi le cose, la battuta di caccia è stata organizzata così: loro issati su delle torrette, armati di fucile, e i cinghiali che vengono liberati e corrono proprio davanti a loro che così possono ucciderli senza sforzo. La sera, Logan è irritato dal non sapere chi sia di loro che chiacchiera troppo, e quindi urla: cinghiali sul pavimento. È un gioco che sta inventando in quel momento? Forse: cosa sei ricco a fare, se non per inventare giochi crudeli contando sul fatto che tutti fingeranno di trovarli abituali. Coloro che vengono precettati a fare il cinghiale sul pavimento dovranno grufolare a quattro zampe e litigarsi una salsiccia che viene lanciata ai cinghiali. Chi non si aggiudica la salsiccia è la spia. Lo so: le streghe che galleggiano in confronto erano un criterio razionale, ma boar on the floor, come tutto in Succession, mica serve alla comprensione delle cose. Serve a ostentare i rapporti di forza, serve a temprarti con l’umiliazione sociale come non ti hanno temprato le mancate umiliazioni economiche, serve a far dire a noialtri su divani Ikea che questi ricchi sono proprio gente orribile e vuoi mettere come sono appagato e sereno nella mia vita a rate, serve a farci sentire individui dalla forte personalità che, se il più ricco nella stanza s’inventa un giochino umiliante, non si presteranno a fare i cori “boar on the floor” come il pubblico del Colosseo che incita i leoni a sbranare una vittima che non siamo noi, il pubblico sovreccitato che per oggi non tocchi a lui.

Grufolante a quattro zampe c’è Karl (uno qualunque dei dirigenti d’azienda che non sono parenti e quindi non sono interessanti in quel gruppo di famiglia in un inferno che è Succession); c’è Greg, il peggiore; e c’è Tom, il marito servile di Shiv, l’arricchito di provincia, quello disposto a tutto per compiacere Logan ma anche qualsivoglia altro interlocutore percepisca in una posizione di potere. Forse è questo che intendeva Cox, in cinque anni di interviste su Logan Roy e il suo amore paterno: ai figli viene risparmiato boar on the floor. A Kendall e a Roman nessuno urla di grufolare più forte, Kendall e Roman non devono litigarsi una salsiccia sul pavimento, uomini adulti svuotati d’ogni dignità per il diletto del patriarca. Anzi, Roman abbastanza divertito filma col telefono i tre cinghialotti che costituiscono l’intrattenimento della serata ungherese. A quel punto il padre non gli ha ancora fatto saltare il dente, ma sarebbe sciocco pensare che in quel momento Roman sia crudele perché non ancora redento dall’aver lui stesso subìto la crudeltà, che sia un aguzzino che poi diverrà vittima: in Succession, come un po’ ovunque, non ci sono buoni, ci sono solo carnefici che in quel momento non sono di turno.

Gli unici momenti apparentemente di empatia sono sottolineature della crudeltà. Quando Logan muore, Marcia – la terza moglie, da cui si era separato – riprende, come nella miglior tradizione vedovile, possesso del cadavere. È come se non si fossero mai separati, e il suo primo ovvio gesto è far bandire da casa Roy la giovane assistente con cui Logan s’intratteneva, Kerry. Kerry goffamente insiste per andare a prendere delle cose in camera, e in quel momento di strazio e imbarazzo le cade la borsa per terra, aprendosi e facendo rotolare sul pavimento tutte le sue cose. Roman la aiuta a raccoglierle e le dice che se ha bisogno ha il suo numero. Come tutti i prodotti (e le persone) scevri di logiche razionali, Succession era pieno d’esegeti che invece una logica volevano a tutti i costi attribuirgliela. Di sicuro c’è una ragione per cui le cade la borsa: forse tra le cose rotolate fuori ci sono le pastiglie con cui ha avvelenato Logan e dobbiamo aspettarci venga fuori che l’ha ucciso lei? Di sicuro c’è un motivo per cui Roman le dice che ha il suo numero, dobbiamo aspettarci un’alleanza tra i due per scalare l’azienda? A volte sembra che i critici culturali non siano mai stati buttati in un cassonetto, e non sappiano che per completare ed enfatizzare l’umiliazione serve una persona gentile che ti dica poverina, che brutto momento, fatti una doccia, tieni dei vestiti puliti, vuoi un tè caldo? (A volte, anche, sogno un reality che filmi gli autori di Succession che leggono la rassegna stampa: come sarebbe Kerry ha ucciso Logan, ma questa gente ha molta più fantasia di noi).

Il peggiore è lì dall’inizio. Alla prima puntata si vomita nel costume, mentre lavora travestito da personaggio di fantasia nel parco a tema di proprietà dei Roy. Il peggiore, Greg, è il nipote del fratello di Logan, quello che gli fa la morale e vive in Canada, quello che minaccia Greg di diseredarlo se lavora per il fratello plutocrate. Il peggiore non ha affetti, esattamente come gli altri, e ha ambizioni persino più goffe di quelle degli altri. Arriva a New York e chiede un lavoro in azienda, arriva a New York e ha venti dollari in tutto e Shiv se li fa dare per prendere qualcosa da un distributore automatico dell’ospedale, e neppure gli ridà il resto. Il peggiore è determinato a far la vita da ricco anche mentre sottrae al buffet aziendale biscotti che porterà a casa in sacchetti per gli escrementi dei cani, anche mentre non trova lo spacciatore di lusso di Kendall e quindi gli porta della coca comprata ai giardinetti, anche mentre si sente male per aver cenato due volte, una col nonno che vuole ingiungergli di prendere le distanze da quei plutocrati, e una con Tom che vuole fargli capire come vivano i ricchi, con tredici portate di menu degustazione.

Il peggiore è tale perché fa ridere. Di lui, non con lui. Nessuno è esente dall’umiliazione, in Succession: la prima puntata inizia con Logan Roy ottantenne che, confuso, si alza di notte e si ritrova a pisciare nell’armadio. È angosciante, è straziante, è tutto quel che il peggiore non sarà mai. Quando dicono al peggiore che tra gli appunti di Logan defunto hanno trovato scritto Greg, lui non esita a mitomaneggiare: voleva farmi erede. O forse se l’è annotato perché non si ricordava come ti chiamavi, rimarcano i figli. Il peggiore non fa un plissé. Nell’epica dell’umiliazione che per quattro stagioni abbiamo guardato ringraziando il cielo di non essere gli eredi d’un miliardario con una certa qual scorza, il personaggio più insopportabile è quello che nella tradizione produttiva sarebbe dovuto essere immedesimabile, il povero che sta lì per fare da specchio al pubblico medio, quello non a suo agio con la ricchezza, la nostra proiezione di estraneo nei quartieri alti. Solo che, se avesse pisciato per sbaglio nell’armadio, Greg non sarebbe stato angosciante ma ridicolo. Solo che Greg è Ercolino sempre in piedi: esce dal cassonetto, si spolvera la giacca, e fa come niente fosse. Non facendoti intuire, come Roman, abissi di disperazione in quel fingere che un dente sia solo un dente. Non ripensando al cassonetto o al dente o ai biscotti nei sacchetti dei cani per i successivi quarant’anni, giacché egli non ha secondi strati, non ha inconscio, non ha niente. Greg non puoi umiliarlo perché, in mezzo alla tragedia shakespeariana e ai drammi stratificati, Greg è un cartamodello. Puoi cambiargli vestiti, ma mica dargli profondità. Serve come sollievo comico, forse. Sicuramente, serve perché, in un mondo così cupo che dobbiamo fingere sia un mondo di affetti per sopportarne la visione, serve qualcuno così insopportabile che nessuno si sente in dovere di dare interviste dicendo quanto lo ama, e quanto quest’amore sia una complicazione.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).