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Il ballo del mattone

Ne parliamo, le spiamo, le desideriamo. Le case sono la nostra ossessione. La preferita della Regina e i loft irraggiungibili che ci ha propinato il Grande Cinema Italiano. Gli orrendi arredi da esterno e le librerie alte cinque metri nella vita bugiarda degli adulti col mutuo

Case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale. In quel verso bellissimo lì, è un caso che la prima parola sia proprio quella?

Forse, chissà, era una profezia: tutto il resto sarebbe stato spazzato via; loro, le case, sarebbero invece rimaste. Di più: sarebbero diventate, pandemia o no, l’ossessione del tempo futuro. In ordine: si legge sempre meno, e non è nemmeno più una notizia; ci sono le Aree C, e le B, e allora fuori i diesel, prendete il monopattino, passate all’elettrico, e ma poi le colonnine per la ricarica?!; i viaggi, sì, va bene, ricominciamo, ma il caroprezzi degli aerei?, e com’è che andare a Catania è più caro di Bali?, e se poi ti perdono i bagagli?; i fogli di giornale, uno si sforza pure, ma va’ a trovare un’edicola ancora aperta, ma che dico: ancora viva. Le case, dicevo, sono diventate un’ossessione, ma lo starci chiusi dentro anche una  sindrome, una necessità, un alibi, una  calamità.  E allora di case, solo di case, ci troviamo a parlare. E le case, quelle degli altri, quelle vere,   quelle   immaginarie,   ci   troviamo  a spiarle da tutti i buchi di tutte le serrature. Nella prima scena dell’ultima (ingiustamente bistrattatissima) stagione di The Crown, un dottorino ricevuto a Palazzo chiede incautamente alla Regina quale sia, delle sue tante dimore, la sua preferita. Sarà mica il castello scozzese di Balmoral?, butta lì lo sventurato. È una domanda molto personale, lo zittisce Elisabetta. Perché in effetti la casa, una volta, era questione di intimità, si chiudeva la porta e ognun per sé. (Scopriremo – nell’episodio stesso e pure in quello finale, che chiude circolarmente ed emblematicamente la stagione – che la casa favorita di Lilibet era galleggiante, e cioè il glorioso yacht Britannia costretto alla dismissione nell’epoca del rottamatore, lui sì per davvero,Tony Blair).

Adesso le porte non restano più chiuse. Le case son sempre aperte, spalancate, si va a frugare nei fatti e fatterelli degli altri – e a mettere il naso nei loro orpelli, la moquette (orrore), le isole cottura (invidia), le librerie alte cinque metri (ma i libri esistono, dicevo prima, solo nei film o negli sfondi  Zoom degli opinionisti da talk-show) – per raffrontarli coi nostri, e giustificarci un po’, e sognare anche. Le case reali (nella doppia accezione dell’aggettivo) oggi diventano true, anche nel senso oggi modaiolissimo di true crime. Il crimine del piccolo principe Harry di fuggire dalla Corona, quella vera appunto, passa anche dalle case che vediamo nel format Una storia italiana (vabbè: angloamericana) più berlusconiano del Berlusconi passato, cioè la serie Harry & Meghan, su Netflix: il piccolo cottage londinese lasciato sprezzantemente alle spalle, la dimora canadese vista lago presa in affitto a prova (seh) di paparazzi, la villozza losangelina prestata dall’amico hollywoodiano, quella nuova (affitto?  mutuo?)  a  Santa  Barbara, gli appartamenti vertiginosi degli amici a Manhattan… e noi lì, a sbirciare gli (orrendi) arredi da esterno, e tutto il resto.

Non so quand’è partita  questa  fregola delle case, nell’audiovisivo corrente. Parimenti profetica è stata, senza dubbio, Nicole Kidman, che di fatto ha  inaugurato  la  nuova era del real estate porn. Prima, senza ancora sapere del virus, con le magioni californiantech (soprattutto la sua) nella baia di Monterey in Big Little Lies; poi, quando al divano eravamo tutti costretti, con The Undoing, stavolta penthouse con vista  su  Central Park, o in alternativa villoni Upstate con cucine da stellato.

So però benissimo quando è iniziata la mia privatissima ossessione per le case degli altri, su schermi grandi e piccoli, soprattutto i secondi: ai film ormai son rimaste solo le storie di periferia, che fanno tanto auteur ma esibiscono case sempre orrende. So benissimo quando è iniziata l’ossessione per me che detesto aprire qualsivoglia annuncio immobiliare, che cambio discorso quando gli amici (ricchi) mi parlano delle loro ristrutturazioni, che ogni volta che dico “ma io sto in affitto” sono guardato come una piccola fiammiferaia, nella Repubblica del (ballo del) Mattone. La mia ossessione (e quella di molti) si chiama Selling Sunset, ovvero l’unica serie – non liquidatela, vi prego, come reality – degna di questo nome, l’unica coi personaggi veri, e la trama, e tutte quelle cose che ti fanno attendere la stagione successiva (la numero 6 non arriva mai, maledetti) dopo essersi abbuffati in due serate della precedente.

L’estate scorsa, la mia terza volta a Los Angeles e la prima di mio marito, è iniziata non trascinandolo a ordinare il miglior brunch di Venice Beach, o a contare i cactus fuori dai bungalow di Highland Park, o al Getty a esaminare, più dei Rembrandt, i giardinieri che regolano la dymondia davanti alla vista più bella del mondo. Il consorte (però correo) l’ho portato di fronte all’8606 di Sunset Boulevard, sede dell’Oppenheim Group, vale a dire l’agenzia immobiliare (vera) epicentro del Grande Romanzo che  è  Selling  Sunset. Le vetrine dell’agenzia erano oscurate, c’era scritto “Please stay away from the glass”, dentro stavano evidentemente girando questa nuova stagione che non arriva mai, e noi speravamo uscisse, in una pausa caffè, una un’impetuosa deriva soap. Per dire, nella prossima stagione che ancora non sganciano, gran parte del racconto verterà sempre attorno alla citata Chrishell, di fatto la protagonista, l’amorosa da commedia classica; che però era entrata anni fa come giovane agente sposata con un divetto di This Is Us, mentre ora è accompagnata a una musicista australiana non binaria. Ma attorno alla ricerca-case si muove tutto lo storytelling (pardon), che, appunto come in un Beautiful qualsiasi, vede le diverse protagoniste incontrarsi per parlare dei fatti loro – mio marito ha chiesto il divorzio, ora come farò; la nostra collega è una stronza, col cazzo che vado al suo baby shower; ho capito che devo ripartire da me, quindi comprerò una casa a me stessa (ma non nella Valley!) – nelle case che in teoria dovrebbero vendere, stese su divani altrui a mo’ di Grande Fratello, oppure a bordo piscina Chrishell, o una Davina, o una Amanza (non solo è la serie coi personaggi migliori, hanno anche i nomi più belli su piazza). E invece niente, siamo rimasti lì davanti col nostro sogno fitzgeraldiano infranto, la luce verde in fondo alla baia solo vagheggiata e mai raggiunta.

Certo, da format immobiliare quale dovrebbe essere, Selling Sunset ha preso presto (subito) mentre sul viale del tramonto si saluta l’ennesima giornata di business e baruffe.

Ci sono state varie imitazioni (Selling Tampa, già cancellata), spin-off ufficiali (Selling the OC, sempre a marchio Oppenheim Group), persino la versione fighetta europea, e cioè L’Agence parigina, pure quella su Netflix. Ma niente trash da quelle parti, lì c’è la famiglia borghesotta, papà, mamma, figli bellocci tutti agenti e tutti che si vogliono bene, case ovviamente più pettinate e anche fauna snobbissima a trattare su prezzi sempre da vertigine. Nulla a che vedere con le adorabili manovre di Christine (la supervillain di Selling Sunset), ma l’ossessione case – qui naturalmente con vista Tour Eiffel, oppure nascoste sulla Senna, o ancora interi palazzetti dietro il Bois de Boulogne – resta notevole. (Restando in terra francese. La mia ossessione per le case sullo schermo è ripartita grazie a Selling Sunset. E però, in pieno lockdown, pure con i film di Rohmer tutti rivisti, o alcuni prima introvabili finalmente recuperati – grazie Mubi. La sterminata filmografia di Rohmer è probabilmente il miglior catalogo immobiliare della storia del cinema, anche solo relativamente a Parigi: gli appartamenti scassati del centro e i nuovi quartieri residenziali anni Ottanta delle Notti della luna piena e L’amico della mia amica. E poi, fuori città, i ruderi di campagna, e i castelletti medievali in mezzo alle vigne, e il Boom architettonico della montagna Sixties ne La mia notte con Maud.

Il vero spin-off di Selling Sunset l’ha fatto, l’altr’anno, quest’anno, Ryan Murphy, il Teodosio Losito d’America (copyright presso me stesso), che appunto ha capito che la casa è e deve restare una telenovela. La  miniserie The Watcher, molto vista nei mesi scorsi sempre su Netflix, prende spunto da un fatto vero: una coppia (nella versione fittizia sono Naomi Watts e Bobby Cannavale) si trasferisce coi figli nella casona East Coast dei  suoi sogni (in realtà orrenda come tutte le casone d’America che ci spacciano per elegantissime) e comincia a sentirsi minacciata da oscure presenze. Anche nel loro caso, il luogo di residenza è fissazione, posizionamento, avidità economica e sociale, bisogno di rivalsa. Il protagonista farebbe di tutto pur di tenersi stretta la nuova residenza per cui s’è indebitato, per avere in cambio l’approvazione della moglie, del capo, degli amici, “lui che vive in quella suburbia d’élite, lui sì che è arrivato”. Finalmente le case diventano, da oggetti di scena, soggetti reali, si parla  schiettamente di mutui e di soldi, dopo decenni di film e di serie (soprattutto italiani) che davano per scontato che i protagonisti vivessero in case che non si potevano permettere. L’affitto bloccato di Carrie Bradshaw è il grande benchmark, e poi, da noi, tutti i loft simil-Tribeca abitati da pubblicitari romani falliti  che  ci ha propinato il Grande  Cinema  Italiano. Il cui vizio per il metro quadro inverosimile è durissimo a morire: si vedano, tra i casi più recenti, i setting delle nuove Fate ignoranti by Özpetek, dove ragazzotti che pittano scenografie per il teatro (Eduardo  Scarpetta, nel ruolo che fu di Stefano Accorsi) dimorano in attici da trecento mq (e cento di terrazzo). Saranno tutti ricchi di famiglia, come del resto normalmente accade in questo paese. Adesso, pare invece arrivata una felicissima inversione di tendenza (o quantomeno residenza), persino i romanzi dei nostri scrittori di punta sono ambientati in luoghi, diciamo così, normali: Marco Missiroli che in Avere tutto torna nella modesta casa romagnola, Paolo Giordano che in Tasmania addirittura molla l’ordinarissimo tetto coniugale per ancor più anonime stanze d’albergo – per poi confessare, correttamente, che quella vita vagabonda non se la può più permettere, costa troppo.

La casa di lusso, per paradosso, è diventata il centro di molti racconti dove i ricchi sono ricchi per davvero; e, al contempo, quasi un personaggio da trattare come tale. Una Grande Metafora, probabilmente la più precisa del nostro tempo. In Fleishman is in trouble (ancora inedita da noi, produce Hulu dal romanzo Fleishman a pezzi di Taffy Brodesser-Akner) il protagonista Toby (Jesse Eisenberg) divorzia e si trova dunque costretto a mollare sì la moglie (Claire Danes), ma soprattutto l’appartamento comprato come status  symbol da sfoggiare presso gli amici parimenti ben accasati, in (s)favore di un bilocalino squallidissimo che schifano pure i figli. Nella Vita bugiarda degli adulti di Elena Ferrante, su Netflix, è attorno a due Napoli, ma ancor più simbolicamente attorno a due case (quella borghesissima al Vomero dei genitori e quella bassa, in tutti i sensi, della zia), che si trova all’improvviso incardinata la vita della giovane Giovanna. Non sappiamo come sono le case dei ricconi di The White Lotus, ma abbiamo capito che i resort che scelgono come mete di villeggiatura (prima alle Hawaii, poi in Sicilia) sono mere estensioni delle loro residenze patrie: albergoni che potrebbero stare ovunque e dove mostrare semplicemente la rispettiva grana (o ville decadentissime fuori Palermo in cui la ricca di turno – splendida Jennifer Coolidge – viene ospitata da altri  ricchi  e tira dunque un sospiro di sollievo: “È bello stare coi ricchi, almeno non devi preoccuparti dei soldi tuoi”).

Ma la metafora delle metafore sta sempre nell’ultima stagione di The Crown, dove il divorzio di Carlo e Diana è parafrasato, più ancora che attraverso le telefonate sconce di lui con Camilla o l’afflitta intervista di lei alla Bbc, dalla scena falsa/vera in cui gli ex principi si rivedono nel palazzo di Kensington, a separazione quasi finalizzata. Il confronto che Peter Morgan immagina inizialmente tenero, prima di esplodere nel solito risentimento che ancora ci piace attribuire alla coppia più tribolata degli anni Novanta, ha almeno un momento memorabile. Diana che mette due uova sul gas, l’omelette che si disfa e diventa scrambled eggs, e Carlo che, mentre sono seduti a tavola, sospira: “Ma perché non abbiamo mai mangiato in cucina? È così bello”. Forse ci voleva così poco, forse bastava stare a casa un po’ di più.

Mattia Carzaniga (Vimercate, 1983), giornalista. Ha scritto “L’amore ai tempi di Facebook” (Zelig, 2009, con Giuseppe Civati) e “Facce da schiaffi” (ADD editore, 2011).