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Il diavolo in corpo e sotto la casa di mia zia

Stare zitta è più semplice, se il mondo non entra e non esce e se una madre non parla. Il desiderio di evaporare e la sponda della scuola: nei libri si incontra la realtà e quindi la meraviglia del male. Non è la salvezza, ma quasi

La casa di questa zia era in centro a Monte Sant’Angelo. Per andarci si saliva una scalinata con la ringhiera e da lì ogni tanto mi sporgevo. Non era chissà che altezza. Un metro e mezzo, forse due. Non so quanti anni avevo. La zia disse che se mi fossi sporta troppo mi avrebbe afferrata il diavolo. E siccome lo disse con enfasi, con gli occhi sbarrati e le mani ad artiglio, e siccome c’era una porta chiusa sotto la ringhiera, le credetti. Il diavolo sarebbe potuto uscire da un momento all’altro e sorprendere chiunque si fosse attardato sul pianerottolo.

Ricordo che ne parlai a mia madre e che la sua risposta mi lasciò delusa. “La zia ha detto così per non farti sporgere”. Usò un tono piatto, indifferente all’emozione che provavo. Fatto sta che ho continuato a credere alla zia. Ai miei occhi era lei ad avermi detto le cose come stavano, non mia madre. La zia non era spaventata dagli accidenti, sapeva che potevano capitare, e a suo modo me l’aveva detto.

Molti anni dopo – avevo circa 17 anni – ero con un’amica al passeggio a vuoto della domenica. Mentre chiacchieravamo, delle persone si sono messe a correre. Se qualcuno ha gridato hanno sparato, io non l’ho sentito. Io sarei rimasta dov’ero se la mia amica non mi avesse costretta a imitare gli altri e ad affrettare il passo.

Non ricordo i commenti quando tornai a casa. Non ricordo nemmeno se ci furono. Ricordo solo un’accoglienza tiepida del mio tentativo di descrivere la scena, di dare una minima idea del fatto di sangue che mi aveva sfiorata.

Non so se di quella sparatoria si è parlato in classe. Magari sì, magari no. Di sicuro non c’era, in quei primi anni Novanta, in provincia di Foggia, una discussione sulla legalità, le faide e quant’altro. Per quel che ricordo, non c’era molto di cui si discutesse.

Più vado indietro con la memoria, più mi pare che l’attualità, le crisi, i problemi contingenti non contaminassero le lezioni e non oltrepassassero la porta dell’aula se non in modo accidentale.

Il nesso tra questi episodi sta nella mia difficoltà di esprimere i sentimenti che provavo. Meraviglia, paura, eccitazione. Non solo non riuscivo a esprimerli, ma neppure a descrivere il frammento di realtà da cui quei sentimenti scaturivano.

In pratica il diavolo sotto la casa della zia non era niente. Una sparatoria alla luce del sole, un cadavere steso a terra non erano niente.

I miei tentativi di prendere la parola, di circoscrivere un fatto, qualcosa che stava fuori di me, che percepivo come reale e pericoloso, erano goffi. Anziché piacere, ne ricavavo frustrazione e confusione, tutte sensazioni impossibili da verbalizzare.

Stare zitta era più semplice, è sempre stato più semplice per me. Lasciar perdere, rinunciare. Guardare e non commentare, ascoltare e non replicare.

Le mie parole non erano giuste né efficaci. Neppure l’intonazione lo era. Dovevo avere l’aria di dubitare io stessa di ciò che dicevo nel momento in cui mi arrischiavo a dirlo. Come tutte le persone timide, avevo in odio la mia voce.

Oggi credo che gli adulti intorno a me, gli adulti di quando ero adolescente, non disponessero neanche loro di molte parole. Non è questione di essere colti o incolti, forbiti o no, non è un valore numerico a cui mi riferisco. Il fatto che i miei genitori fossero insegnanti, che avessero letto dei libri, non hanno reso la nostra casa meno fredda e inospitale. L’intimità per me era fatta di muri, porte chiuse, serrande abbassate. Di stizziti silenzi o del chiasso grottesco della televisione. I pericoli non sfioravano quest’intimità così come la leggerezza, l’aria, la gioia di vivere. La follia che cresceva all’interno come un tubero, i fantasmi, il dolore di ciascuno, non avevano sbocchi.

Il mondo non entrava e non usciva, la vita stessa non entrava e non usciva.

Così la scuola mi ha offerto una sponda. Alle elementari mi sono venute incontro tante parole. Quelle delle poesie che la maestra ci faceva disegnare: Foscolo, Leopardi, Ungaretti. La parola poetessa che amo ancora e che lei pronunciava come una specie di titolo aristocratico che un giorno avrei potuto acquisire. Quelle dei libri che leggevamo in classe.

Davanti a lei, che aveva un’intelligenza viva e aperta e fiducia nel cambiamento, era importante essere informati, ascoltare il telegiornale, sapere il nome del presidente della repubblica: Pertini. Era importante che ci sentissimo protagonisti del nostro tempo, che lei vedesse in noi gli uomini e le donne che saremmo stati. Sarete voi, gli uomini del 2000, ci disse una volta.

Poi sono venute le medie dove sono stata come su una zattera in balia della corrente, ansiosa e angosciata, incapace di parlare, se non in forma scritta.

Mi vergognavo se intervenivo, se non intervenivo, se ero impreparata alle interrogazioni, se arrossivo, se impallidivo, se sudavo. Apriti, mi dicevano talvolta gli insegnanti, invito davanti al quale rimanevo rigida come un manico di scopa. Wake-up, mi urlava quella d’inglese, e come darle torto.

L’inglese comunque mi piaceva e anche l’insegnante con tutta la sua foga.

Mi piacevano l’analisi logica e l’analisi del periodo. Mi piaceva la pagina che apriva un capitolo dell’antologia d’italiano e che s’intitolava: diventare grandi. Mostrava una foto in bianco e nero di ragazzini che saltavano con le ginocchia al petto, a me sembrava che volassero.

Alle superiori non ci sono state rivoluzioni. C’erano la campanella a scandire le ore, un insegnante che usciva, l’altro che entrava. Chi entrava non era interessato a sapere cosa avesse fatto il suo collega poco prima e cosa avrebbe fatto quello dopo.

Non ricordo chi fosse il preside, non ricordo un primo giorno di benvenuto, un addio, un arrivederci, un augurio.

Per conto mio continuavo a stare zitta. Ero un’adolescente che oggi, in un ambiente scolastico più strutturato, forse descriverebbero dai comportamenti evitanti e dalla personalità compromessa. Ero a pezzi, ma stavo in piedi. Apparivo calma, se non letargica, ma ero fuori di me, alienata, così alienata che nemmeno provavo dolore, nemmeno sapevo di poterlo provare. Ero presente all’appello e sul registro, ma l’unica mia preoccupazione era nascondermi, scomparire, evaporare nella speranza di non essere giudicata troppo difettosa, inadeguata, scema.

Quando una volta un insegnante, male impressionato dalla mia grafia, dagli svolazzi, dalle lettere addossate l’una sull’altra, mi ha chiesto se ero felice, io non sono stata in grado di rispondergli. La domanda era insensata per me che vivevo senza consapevolezza, alla maniera di una pianta. Le piante sono fatte per stare dove le metti e io stavo dove mi mettevano.

Le parole che avrebbero potuto descrivere la mia interiorità, i miei desideri o bisogni, non le conoscevo. Le parole del mondo fuori, la realtà più grande, le opinioni, i significati, il vero e il falso, continuavano a sfuggirmi. Le notizie mi arrivavano perlopiù dalla televisione. L’epidemia di aids, la caduta del muro, la guerra del Golfo sembravano fatti importanti che nel contesto culturale di quegli anni, a Monte Sant’Angelo, suscitavano chiacchiere occasionali più che dibattiti e approfondimenti. Ho ricordi vaghi delle assemblee d’istituto come di quelle di classe. Di cosa si parlava, perché, se i temi prendevano spunto dalla realtà, da vissuti, da episodi specifici, dalla cronaca. Ascoltare mi piaceva e gli studenti desiderosi di dibattere non mancavano, eppure non si dava granché valore a questi incontri, né una struttura solida che durasse nel tempo. Comunque è stato quello il periodo in cui molte altre parole mi sono arrivate dai libri. Mio padre che insegnava in una media di Manfredonia, passava ogni tanto da una libreria di lì e ne comprava un po’. Classici latini e greci per sé. Per me e mia sorella romanzi francesi, inglesi, russi. Ogni tanto leggevo i libri di narrativa che lui sceglieva per le sue classi e di cui poi mi facevo un giudizio: questo è bello, questo è brutto.

Non direi mai che quei libri mi hanno salvata perché non mi riconosco in questo genere di affermazioni. Credo che mi abbiano aiutata senza che me ne rendessi conto, che mi abbiano impedito di scivolare nell’afasia completa e nella psicosi. Per vie segrete, quei libri hanno suscitato in me un sentimento di meraviglia che mi spingeva a leggerne un altro e poi un altro e così via. Questo sentimento potente mi ha tenuta in parte al riparo dalla vergogna e dalla solitudine che mi accompagnavano ogni giorno. Mi dava l’impressione che tutto fosse possibile, che prima o poi la mia vita potesse sconfinare dal corpo, espandersi, toccare l’universo.

Se il parroco a messa diceva che i morti risorgono, io non provavo niente, non ci credevo. Ma se leggevo di Heathcliff che corre a casa come un pazzo perché è convinto che lì ci sia la sua Catherine e dopo essere arrivato a casa, lei non c’è; e lui si convince allora che lei sta nella brughiera e di nuovo, come un pazzo, corre verso la brughiera, ebbene, io lo seguivo col cuore in gola e speravo che lui trovasse davvero la sua Catherine, anche se sapevo benissimo che era morta.

Quei libri mi hanno aiutata a diffidare delle semplificazioni, a non minimizzare niente, a mantenere vivo il mio interesse per la realtà in generale che include il male, l’abiezione, il brutto, il tragico, l’ignoto.

L’indifferenza di mia madre davanti alla notizia che sotto la casa della zia stava rintanato il diavolo, non la capivo. La calma con cui reagiva al racconto, sia pure confuso, di un omicidio avvenuto mentre passeggiavo, non la capivo. Ero curiosa e capace di provare meraviglia, perciò il diavolo m’interessava e mi affascinava. Il sangue era ciò che mi scorreva nelle vene e non l’acqua, perciò anche quello m’interessava. Non pensavo che lei volesse proteggermi da uno spavento. Pensavo piuttosto che volesse tenermi all’oscuro di qualcosa. Il diavolo a lei non piaceva e in qualche modo voleva impedirgli di esistere. C’era tutta una realtà, un mondo, un vocabolario a cui mia madre avrebbe volentieri impedito di esistere solo perché ne aveva paura. La mia paura invece, il mio terrore, era che se avessi pensato alla sua maniera, se mi fossi comportata come lei, se avessi fatto mie le sue parole, sempre le stesse, avrei finito anch’io col perdermi, col non esistere affatto.

Carmen Totaro (San Giovanni Rotondo, 1974), scrittrice. Vive a Milano. Ha pubblicato i romanzi “Le piene di grazia” (Rizzoli, 2015), finalista al premio Calvino, e “Un bacio dietro al ginocchio” (Einaudi, 2021).