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Il femminista di testa e di cuore

Conversazione sulla resa dei conti tra uomini e donne con il filosofo Raphaël Enthoven. Le sue grandi liti pubbliche, l’inaspettata modernità di Molière, l’opportunismo delle cause giuste e il rischio di una rivoluzione sconfitta dalla sua stessa vittoria

Mi fa una domanda indiscreta”, dice Raphaël Enthoven quando gli chiedo se il suo rapporto con le donne è diverso in pubblico e in privato. L’improvviso pudore mi colpisce, perché ci sembra di sapere sempre tutto delle persone che scrivono, parlano, twittano, bisticciano sotto gli occhi di noi tutti, ancor più se si tratta di Enthoven, filosofo francese prolifico, mondano e battagliero, così apparentemente sicuro della sua strada. Il pudore mi colpisce anche perché ci ricorda quanto è complicato e a volte distorto il confronto tra uomini e donne nel dibattito culturale e nella vita quotidiana. Enthoven tiene una lezione di filosofia ogni domenica alle 13 sul canale culturale Arte, interviene alla radio, fa podcast, registra audiolibri, scrive sui giornali, pubblica molti libri, twitta tantissimo e non lascia mai cadere una provocazione: con alcune femministe che nella nostra conversazione definirà “imbecilli”, litiga spesso. Ma Enthoven è anche l’amante di Francia, marito di Justine Lévy, figlia di Bernard-Henri Lévy, lasciata (lei ha scritto un libro su quel trauma, Niente di grave) per amore di Carla Bruni che nel momento del loro innamoramento era fidanzata con suo padre, l’editore Jean-Paul Enthoven. Anche con Carla Bruni è finita, dopo una canzone che porta il suo nome scritta da Carlà e un figlio insieme, ma è finita bene, si proteggono ancora oggi da lontano, e poi ci sono state altre donne, altri figli, molti pettegolezzi di cui Enthoven si è preso carico nel libro uscito lo scorso anno Le temps gagné, citazione proustiana sul tempo riconquistato, vinto, risparmiato.

A casa tutto bene?, gli avevo chiesto allora, e lui: “Perché dovrebbe andare male? Ho solo preso gli scheletri nascosti negli armadi e li ho disposti davanti a tutti”. Enthoven decide quando mostrare e quando tacere, colpire e sottrarsi. Lo fa anche parlando di femminismo, del suo ultimo libro L’école des dames, rivisitazione della Scuola delle mogli di Molière nella stagione del MeToo, del silenzio attorno a Mila, la ragazza che è stata perseguitata e denunciata per blasfemia per aver scritto che l’islam è una “religione d’odio”. Lo fa soprattutto discutendo della sua rivendicazione intellettuale, personale e ideologica, che è il cuore della resa dei conti tra uomini e donne: io sono un femminista.

Lei ha scelto di riscrivere La scuola delle mogli, un’opera teatrale di Molière, un letterato che secondo la sua definizione è misogino di testa e femminista di cuore. Come spiega questa contraddizione?

Non è così contraddittorio. Molière è un uomo del suo tempo, un borghese del XVII secolo che, come molti, tende a pensare che gli altri gli manchino di rispetto, che le donne si comportino male e che i figli non siano più sufficientemente devoti nei confronti dei padri. Ma Molière è anche un uomo gentile che costruisce delle invettive liberatorie a favore delle donne. Le risposte di Angelique a Georges Dandin ne Il marito confuso: “Perché per quel che mi riguarda, vi dichiaro che non ho nessuna intenzione di rinunciare al mondo e di seppellirmi viva in un marito. Ma come! A un uomo salta in testa di sposarci, e immediatamente per noi finisce tutto, e dobbiamo troncare ogni rapporto con tutti gli esseri viventi”; l’ira di Agnese contro Arnolfo nella Scuola delle mogli: “Si crede che io mi senta lusingata, e che alla fine, nella mia testa, non mi renda più conto di essere una bestia?”; il contrattacco di Selimene contro Arsinoé nel Misantropo: “La galanteria ha la sua stagione, e ve n’è una anche per la pruderie” – sono tutti momenti di coraggio e di colpi di genio in cui le donne si fanno sentire e battono i loro avversari. Molière è il portavoce delle prime donne liberate, e se a volte le prende in giro è perché la libertà è difficile, complessa. L’approccio di Molière non è contraddittorio, anzi, potremmo pure applicare – distorcendola un po’ – la teoria di genere: se gli individui non hanno un destino conforme al loro sesso, se è possibile essere un uomo essendo una donna, perché dovrebbe essere impossibile essere un femminista essendo un uomo? L’essere un uomo del suo tempo – cioè un buon borghese ingannato dalla moglie e deluso – non impedisce a Molière di essere il miglior portavoce di un progressismo emergente. Puoi avere il cuore di un marito e l’anima di un amante.

Lei però ha un rapporto complicato con le femministe. Il suo intervento al forum del ministro Schiappa nel 2018 suscitò molte polemiche. Di cosa la incolpano anche adesso?

In quell’occasione volevo dire una cosa sola: puoi essere femminista pur essendo un uomo. Ma per averla detta, per aver detto che una definizione di femminismo tanto sessuata mi fa dubitare della sua forza reale; per aver detto che trattare il femminismo come un problema delle donne è un errore: è una questione che riguarda l’umanità intera; e per aver celebrato l’universalismo, sono stato accusato di fallocentrismo. Hanno detto che sono un “guardiano del patriarcato”, sono stato trattato come un ‘porc’, un maiale, da migliaia di persone, sono finito nella classifica dei dieci macho dell’anno, in mezzo a Donald Trump, Eric Zemmour e Bolsonaro. E poi Alice Coffin (la “nuova guerrigliera” del femminismo francese, secondo l’Obs, nda) ha chiesto scuse pubbliche al ministro Marlène Schiappa per avere invitato al forum un mostro come me. Non le ha ricevute. Così ha minacciato di mandarmi una risposta feroce. Che però non è mai arrivata. Queste signore da allora mi odiano. Ma non mi interessa. Anzi, rido di loro. Mi sono sempre ribellato in pubblico a ogni violenza contro le donne, ho dedicato diversi programmi al “mito della virilità”, ho difeso l’imprescrittibilità dello stupro, il diritto di togliere il velo o di indossare il burkini… Non penso di dover ricevere nessuna lezione di femminismo da queste imbecilli che prendono il loro sesso come un valore in sé.

È un giudizio al limite della brutalità. Ma quali sarebbero gli errori di queste femministe?

Alcune femministe si sbagliano. E si perdono. Ma non tutte hanno rinunciato all’idea che la lotta femminista sia una lotta per l’uguaglianza e non una lotta per la differenza. Non tutte hanno sacrificato il desiderio di uguaglianza in nome della difesa antirepubblicana di diritti specifici. Non tutte le femministe trattano le donne come il sesso debole, anche se alcune lo fanno e credono così di lottare mentre invece finiscono per sottomettersi. Il mio stesso femminismo non avrà più una ragion d’essere il giorno, direi improbabile, in cui essere donna non sarà né un handicap né un vantaggio specifico. Quando, perseguitate dall’intersezionalità (teoria creata nel 1989 dalla giurista americana Kimberlé Crenshaw per definire la sovrapposizione di diverse identità sociali e le conseguenti possibili discriminazioni o oppressioni, nda) che mette la difesa delle donne dopo l’antirazzismo, le femministe si rifiutano di difendere la giovane Mila che ha ricevuto centinaia di minacce di morte per una blasfemia innocente o addirittura di sostenere le donne afghane, ecco qui l’errore diventa un grave errore. È qui che la follia diventa pericolosa: nello spettacolo patetico di queste signore ansiose di trovare tracce del patriarcato, e decise a confondere la seduzione con l’aggressività, ma al contempo del tutto indifferenti al destino delle donne che si tolgono il velo e finiscono in galera, o che vivono recluse – in Francia! – per aver osato parlare in modo libero. È a causa di questa cecità, che porta a invertire le cause e a confondere il nemico, che il femminismo rischia di soccombere.

A proposito delle donne afghane e del rischio di soccombere. La salvezza di Kabul non è ovviamente un compito delle sole femministe, sarebbe ridicolo pensarla così, ma mi chiedo come si possa difendere ogni tipo di lotta delle donne, arrivando perfino a “cancellare” donne e uomini che la pensano diversamente, e lasciare però le ragazze afghane senza speranza per il futuro, come se non fossero nostre sorelle.

Attenzione: alcune femministe, che sono relativiste in modo opportunistico, hanno paragonato in termini di “sessismo” i talebani e i consigli di amministrazione delle grandi aziende, ma non tutte sono cadute in questa trappola. I talebani incarnano un islam sufficientemente caricaturale perché una femminista, pure se intersezionale, si arrischi a criticarli. Quel che è patetico, tuttavia, è il modo in cui si convincono di aver “difeso” le donne afghane con una petizione che chiedeva niente di più e niente di meno dell’accoglienza “incondizionata di tutte le donne afghane”. Il che è assurdo: immaginiamo forse di accogliere gli individui secondo il loro genere? L’assurdo diventa ignobile se si pensa che nessuno dei firmatari immaginava che qualcuno li avrebbe seguiti. Nessuno di loro, tra l’altro, secondo me, è così sciocco da pensare di voler davvero accogliere le donne in quanto donne. Ma si accontentano di chiedere, così si sentono la coscienza pulita e credono di potersi rilanciare. Se il processo è inefficace o inutile a loro non interessa, perché l’importante non è cambiare il mondo, ma continuare a trovare motivi per lamentarsene.

Ma ci sono anche femministe che lei stima molto, penso a Elisabeth Badinter, l’intellettuale, scrittrice e filosofa che ha costruito una nuova declinazione del femminismo francese moderno.

Ho imparato a pensare leggendo Elisabeth Badinter. I suoi libri mi hanno accompagnato e illuminato almeno quanto quelli di Simone de Beauvoir. Trovo ammirevole la capacità di combinare l’altezza di un registro classico con le preoccupazioni contemporanee. Lei combatte ogni giorno utilizzando le armi del XVIII secolo. Per questo per me è un simbolo e un punto di riferimento, una bussola che punta al nord, la più coraggiosa delle donne. L’ho invitata qualche volta nella mia trasmissione, un po’ ci conosciamo ma mi vanterei se dicessi che sono suo amico.

Qual è il suo rapporto privato con le donne? Il discorso pubblico esaspera ciò che accade nel privato, nella vita quotidiana oppure no?

La sua domanda è così indiscreta. Posso dirle che sono cresciuto con l’urgenza di combattere per la liberazione delle donne. Al bambino che ero veniva ordinato di trattare le ragazze come mie pari e di difenderle, rischiando la vita, se necessario: forse un po’ contraddittoria come cosa. Sono femminista di cuore e femminista di testa. La mia esistenza non contraddice le mie convinzioni. È vero che non è raro vedere vere femministe in pubblico diventare sessiste perfette in privato, come spesso capita al contrario che uomini machisti si comportino da gentiluomini. La vita è molto più interessante delle nostre opinioni. Le persone sono più complesse di quanto pensiamo.

Come pensa che sarà il dibattito nel prossimo futuro visto che questo confronto così visibile tra uomini e donne è iniziato cinque anni fa?

Il dibattito non è davvero cambiato. La guerra dei sessi è una faccenda antica, che i social stanno resuscitando a oltranza. Al di là dei termini del dibattito, che saranno sempre gli stessi, oggi la domanda è: se ne potrà ancora discutere? O avranno la meglio i processi alle intenzioni e la neutralizzazione dell’avversario accusato semplicemente di “essere uomo”? Un mondo in pace è un mondo in cui si ha la libertà di discutere senza accapigliarsi. L’altra preoccupazione, che riguarda più direttamente il femminismo, è il futuro del MeToo. Come può una rivoluzione evitare di rivoltarsi contro se stessa? Nulla ci è sembrato più sano e salutare della liberazione della parola. Ma se la presunzione di innocenza viene trascurata, se si accusa chiunque senza prove, o se non si distingue tra molestie e flirt, la rivoluzione corre il rischio di essere sconfitta dalla sua stessa vittoria.

Paola Peduzzi (Milano, 1976), vicedirettrice del Foglio.