Cerca

Il mio nome è mai più

Madeleine Albright, nata a Praga, era grata all’America e alla libertà che ha trovato fuggendo dai nazisti e dai sovietici. Si è battuta con le armi e con la persuasione perché l’orrore totalitario e persecutorio non tornasse più. È morta quando la Russia le ha sussurrato: sei un’illusa

Vladimir Putin aveva invaso l’Ucraina da un mese, bombardava le città, gli ospedali, le case, i cortili, mentre i suoi carri armati si impantanavano nel fango e gli ordini ai soldati si facevano più brutali e sbrigativi: assediate, fate morire di fame, torturate, uccidete.

Vladimir Putin aveva invaso l’Ucraina da un mese e noi ammiravamo il coraggio e la forza degli ucraini e dicevamo a Kiev: siamo qui, siamo con voi.

Vladimir Putin aveva invaso l’Ucraina da un mese e Madeleine Albright è morta.

Poiché lei doveva apparire ai lettori di oggi nei color seppia di un passato remoto, i giornali hanno titolato: la prima donna a diventare segretario di stato in America. Era un primato che la Albright rivendicava e promuoveva, si appuntava alla giacca una delle sue famose spille, quella che rappresenta il soffitto di cristallo frantumato, e andava a parlare alle ragazze: tirate fuori la vostra voce, usatela, branditela, sbattetela sui tavoli. Al funerale le sue tre figlie, ridendo e piangendo insieme, hanno ricordato che “mom” difendeva il diritto delle donne di interrompere le conversazioni e i dibattiti degli altri, di alzare la voce anche, ma soltanto se “i pensieri e le parole erano in ordine”. Non interrompi perché sei donna, interrompi perché hai qualcosa da dire: il femminismo della Albright era così, battagliero e naturale, con i pensieri e le parole in ordine.

Anche la sua visione del mondo era così, in ordine: era una rifugiata dell’allora Cecoslovacchia arrivata negli Stati Uniti a undici anni, dopo essere scappata prima dai nazisti poi dai sovietici. Voleva che la libertà di cui aveva goduto lei fosse di tutti non soltanto perché considerava l’aspirazione a essere liberi la più umana possibile, ma anche perché lei era grata. La gratitudine, nella diplomazia internazionale, è un’arma potente, ti fa tenere lo sguardo alto, concilia la forza con l’allegria, perché se sei grato hai voglia di convincere gli altri, di festeggiare gli accordi raggiunti dopo averci perso il sonno, di avvicinarti e comprendere, e di ballare. E quanto ballava, la Albright: ha insegnato la macarena all’ambasciatore del Botwsana al Palazzo di vetro, ha ballato il tango nei ritagli di tempo di un viaggio in Argentina, ha ballato al matrimonio di Chelsea Clinton con un uomo molto più giovane di lei e Ballando sotto le stelle le chiese di partecipare alla trasmissione. Ballava piena di gratitudine, la Albright, con i pensieri in ordine e la convinzione che gli orrori di metà Novecento non dovessero accadere mai più. Se c’è una donna, una diplomatica, una politica che più si è spesa negli ultimi decenni in nome del “mai più”, inteso come dovere e come realtà, questa è Madeleine Albright. Soltanto che “mai più” è un’illusione.

La Albright è morta a 84 anni il 23 marzo scorso. Nel suo ultimo articolo, pubblicato il giorno prima dell’invasione russa in Ucraina, ricordava di aver incontrato Putin nel 2000, quando lei ancora era segretario di stato nell’Amministrazione Clinton: il primo alto funzionario americano fotografato assieme al nuovo presidente russo. “È piccolo e pallido – aveva scritto nei suoi appunti – Potrebbe quasi essere un rettile”. La Albright continuava: se Putin invade l’Ucraina, commette un errore storico, rafforzerà gli alleati atlantici e la Nato contro di lui, si ritroverà isolato economicamente e nemmeno i suoi vicini potenti, come la Cina, riusciranno a salvarlo. Quando Putin si ritroverà in un angolo, ed è lì che inevitabilmente è destinato, concludeva la Albright, potrà prendersela soltanto con sé stesso, perché ci si è infilato da solo, in quel pertugio, pensando di poter giocare senza regole in un mondo che è fiero delle proprie regole.

Questa signora ottantenne ormai malata aveva previsto gran parte delle cose che sono accadute. Tranne che il “mai più” non era vero e che l’orrore sarebbe accaduto ancora. Fu la Albright nel 1995 a denunciare davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu i crimini commessi a Srebrenica – ottomila morti in dieci giorni buttati nelle fosse comuni coperte dai bulldozer: gran parte delle vittime ancora oggi non ha un nome né una sepoltura – fu lei a insistere per l’intervento della Nato nei Balcani prima e in Kosovo poi, fu lei ad arrivare in un villaggio croato distrutto dai serbi e a dover risalire in auto in fretta, senza guardarsi attorno, mentre le urlavano dietro – e soltanto lei capiva, perché durante la sua fuga di bambina si era fermata a Belgrado, che quel “kucko kucko” che le urlavano addosso significava “cagna”. Per i serbi gli interventi della Nato contro Slobodan Milosevic erano “le guerre della Albright” e chiamarono “Madeleine” un pitone dello zoo di Belgrado.

La Albright sapeva che l’orrore era accaduto e riaccadeva. Che il “never again” con cui era cresciuta e che aveva insegnato a legioni di diplomatici era al massimo un’aspirazione, troppo spesso un’illusione. Nel 2008, quando Barack Obama divenne presidente riportando un democratico alla Casa Bianca (la Albright faceva il tifo per Hillary, sua amica carissima, e a un suo comizio ripeté una frase che in realtà diceva spesso: c’è un posto speciale all’inferno per le donne che non aiutano le altre donne. Se ne sarebbe poi scusata personalmente con Obama), la Albright scrisse un articolo dal titolo: “Mai più, ma per davvero”.

In quel “per davvero” c’era un invito al presidente entrante, certo, ma in realtà c’era la sintesi di un fallimento: gli orrori accadono e riaccadono.

Volodymir Zelensky, presidente ucraino, è andato al Parlamento tedesco, il posto in cui il “mai più” suona come il rintocco lugubre della colpa storica della Germania nella Shoah, a dire: proprio voi che avete detto “mai più” ora lasciate che accada un genocidio in Ucraina? Celebrando la vittoria sul nazismo, Zelensky lo ha ridetto: avevate detto “mai più”, guardate in che stato sono il mio paese e il mio popolo.

Vladimir Putin aveva invaso l’Ucraina da un mese e l’illusione consolatoria con cui ci stringiamo e ci ripetiamo “mai più” era già stata cancellata nei capannoni ucraini trasformati in camere di tortura dai russi, nei parcogiochi disseminati di mine dai russi, nelle esecuzioni sommarie, nei cadaveri abbandonati per strada con le mani legate dai russi. L’illusione consolatoria del “mai più” era stata cancellata nell’aver costretto a una guerra di sopravvivenza un popolo che voleva sognare, viaggiare e ballare. Proprio come noi, popoli liberi, ma con in più la gratitudine.

Paola Peduzzi (Milano, 1976), vicedirettrice del Foglio.