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Il poster del mio salvatore

La mia famiglia, la mia ex fidanzata, i cineasti riflessivi: odiavano Woody Allen anche prima dello sdegno puritano collettivo. È disincantato, bulimico e frettoloso. Un lenitivo alla tristezza della vita

Lo sdegno puritano che ha investito Woody Allen relegandolo ai margini dello show business, più o meno allo status di paria, è ben poca cosa se paragonato all’ostracismo che gli venne inflitto dalla mia famiglia una certa mattina di tanti anni fa: una messa al bando talmente radicale da sfociare in un gesto iconoclasta e omicida.

Tutto ebbe inizio il giorno in cui mia nonna si trasferì in casa nostra. Vedova da pochi giorni, aveva accettato con riluttanza l’offerta dei miei di venire a stare per qualche tempo da noi. Per giustificare il suo invito, mio padre ci disse che non riteneva la madre abbastanza in sé da gestire la solitudine senza dare di matto.

Comunque, la nuova pensionante, insoddisfatta dalla stanza degli ospiti, non trovò di meglio che appropriarsi della mia: un sopruso reso ancor più molesto dalla sua bisbetica schifiltosità. Il primo a farne le spese fu il mega-poster di Woody Allen che, preziosamente incorniciato, campeggiava da quasi un anno di fronte al mio letto come un’icona russa.

Era una bella foto in bianco e nero: a giudicare dall’abbigliamento e dai capelli scompigliati, doveva risalire ai tempi di Manhattan. Woody vi appariva al suo meglio: più trafelato che mai, in un cappotto di cover coat chiuso fin sopra allo sterno che lasciava intravedere la camicia a scacchi di ordinanza, rigorosamente button-down.

“No ecco”, protestò mia nonna, “io qui, con quello che mi guarda, non ci dormo”.

“E dove lo metto, scusa?”.

“Ovunque ma non qui, ti prego. Se no me ne torno a casa mia e siamo tutti più contenti. Ah, tuo padre e le sue idee del cavolo!”. L’odio da lei professato per Woody Allen, come stavo per appurare, non era inferiore a quello che un giorno avrebbe esacerbato i cuori di Mia e Ronan Farrow e dei loro tanti sostenitori. Diversi semmai erano i moventi che glielo ispiravano: non certo di marca morale, ma di stampo estetico. Trovava il mio caro vecchio Woody di una bruttezza ripugnante.

Ebbe buon gioco a chiamare in causa il cadavere caldo del marito: “Tuo nonno lo diceva sempre: a uno così brutto non dovrebbe essere permesso di recitare”.

Era strano che tirasse in ballo proprio l’uomo con cui l’avevo vista inscenare siparietti dal piglio irresistibilmente woodyalleniano. Come quella volta in cui, durante le vacanze natalizie, avevano beccato il rabbino al supermercato vicino al Tempio con il carrello pieno di panettoni. Ne nacque una disputa degna di una yeshiva askenazita: alle ragioni di lei – era indecente che un rabbino si facesse vedere in giro ad acquistare un tipico dolce cristiano –, lui controbatteva che non c’era alcuna interdizione alimentare che glielo vietasse.

Per spezzare una lancia a favore di Woody, ebbi la tentazione di ribattere con un argomento cui la sapevo sensibile: la solidarietà etnica. Era tipico dei miei nonni, infatti, enumerare la caterva di ebrei che si erano distinti nel cinema. Immagino che questi cataloghi fossero un modo come un altro per riscattare la discriminazione razziale subita in gioventù, e, visto che c’erano, per esorcizzare i fallimenti accumulati in vecchiaia. Avevo notato, tuttavia, che gli elenchi in questione tendevano a privilegiare individui di bella presenza: requisito talmente indispensabile da indurli ad attribuire quarti di nobiltà ebraica ad avvenenti star che, almeno secondo la legge mosaica, non avrebbero potuto vantarli: per esempio, Liz Taylor e Cary Grant. Insomma, per farla breve, meglio un finto ebreo bello che un vero ebreo brutto.

Naturalmente rimossi il poster senza batter ciglio, non trovando nemmeno il coraggio di dire a mia nonna come la pensavo: per me Woody Allen era bellissimo.

Se mi guardo indietro, ho la sgradevole sensazione di aver trascorso buona parte della vita adulta a difendere Woody Allen dai suoi odiatori.

Ai tempi dell’università mi ero messo con una ragazza molto intellettuale e politicamente impegnata. Tra le debolezze dei giovani innamorati la più patetica è quella che li spinge a condividere con l’amata i propri idoli. Fu così che iniziai a infliggerle la visione serale dei miei film preferiti, a cominciare, ça va sans dire, da quelli di Woody Allen. Una dieta a base di Amore e guerra, Un’altra donna, Zelig, Broadway Danny Rose, per me il meglio che lo spirito umano avesse prodotto nell’ultimo mezzo secolo.

Ogni volta che non rideva a una battuta imperdibile, ogni volta che non si emozionava al cospetto di tanta poesia metropolitana, ogni volta che sentendomi sghignazzare mi guardava con aria perplessa e un po’ schifata, mi sentivo come Alvy Singer quando, per dimenticare Annie Hall, esce con altre ragazze; salvo poi rendersi conto che nessuna tra le sue nuove conquiste è all’altezza della precedente: un accesso di delusione che mi faceva sentire stupido, solo e incompreso.

Prima di arrendermi e gettare definitivamente la spugna (fui io a lasciarla), dovetti anche sorbirmi le sue rimostranze.

“Non sei stanco di questa sbobba?”, mi chiese una volta uscendo dal cinema. Avevamo appena finito di vedere Mariti e mogli. Io ero lì, felice, che non la smettevo di ridacchiare, pregustando la solita pizza nel solito posto a chiusura del solito venerdì sera.

“Come scusa? Quale sbobba?”, mi rabbuiai come se avesse messo in discussione le mie arti amatorie.

“A parte le nevrosi, sempre le stesse, a parte il narcisismo mascherato da autodenigrazione, a parte che in questo cazzo di mondo di cartapesta nessuno lavora e vanno sempre a cena fuori, come puoi non essere disgustato da tanto fetido nichilismo borghese?”.

Anche questa di accusa non mi giungeva nuova. Lo sa il cielo se non mi ero già trovato a difendere Woody Allen da chi si sentiva oltraggiato dal suo materialismo. Certo, se si valuta a freddo la visione del mondo desumibile da film, racconti e interviste, è facile sovrapporre il suo disincanto pessimista a quello professato da Schopenhauer, Leopardi e Cioran. La vita è priva di senso e di scopo. Il mondo è un ricettacolo di malvagità e ingiustizie che solo l’ipocrisia delle religioni rivelate può riscattare a cuor leggero. Il male trionfa, e comunque non è mica facile distinguerlo dal bene, così come è impossibile liberarsi dalle catene dell’egotismo. Tutti invecchiamo atrocemente: né l’amore né l’arte possono rendere sopportabile questo irrimediabile disfacimento.

Quando di recente gli hanno chiesto: “Come vive all’idea di restare nella storia?” lui ha risposto serafico: “Preferirei restare nel mio appartamento nell’Upper East Side”. A una domanda più specifica sulla morte ha replicato: “Sono ancora contrario”. Per non dire della battuta che il protagonista di Harry a pezzi dice alla sorella fondamentalista religiosa. “Non sono i sei milioni di ebrei che mi preoccupano, è che i record sono fatti per essere battuti”. Facezie, ok, spiritose quanto si vuole, figlie di una lunga tradizione che va dalle freddure da shtetl ai geniali calembour di Groucho Marx, ma che non dicono tutto quel che c’è da sapere su Woody Allen.

Da bravo cinico, infatti, lui sa essere di un romanticismo che nei casi peggiori degenera in melensaggine. Checché se ne dica, avere una visione tragica dell’esistenza non significa rinunciare alla felicità, tutt’altro. Quando il piccolo Alvy Singer (siamo sempre in Io e Annie) si rifiuta di studiare perché “l’universo si sta dilatando”, a rincuorarlo ci pensa un vecchio medico ebreo di Brooklyn che con ilare spirito epicureo lo esorta a stare tranquillo: l’universo non si dilaterà per milioni di anni, fino ad allora non resta che spassarsela. Un invito analogo ci arriva direttamente dall’aldilà in Tutti dicono I love you. Si tratta del solo musical girato da Allen. Un omaggio dei suoi al cinema e alla musica che ama. È un vero spasso vedere il cadavere del nonno sollevarsi dal sudario per esibirsi nell’ultimo ballo insieme a un’altra nidiata di arzilli fantasmini. Che bello sentirli cantare a squarciagola per le vie di New York una vecchia hit di Louis Prima che inneggia alla giovinezza e alla felicità terrena come neanche Lorenzo il Magnifico: “Enjoy yourself, it’s later than you think / Enjoy yourself, while you’re still in the pink/ The years go by, as quickly as you wink”.

A proposito di crisi esistenziali, la più lugubre e spassosa è quella che coglie Mickey Sachs in Hannah e le sue sorelle. Dopo una lunga invalidante parentesi ipocondriaca, il povero Mickey si trova nella spiacevole condizione d’interrogarsi sul senso della vita. È arrivato al punto in cui l’idea di vivere in un universo senza Dio gli è intollerabile. Ciò lo porta a un rocambolesco, quanto mai goffo e inefficace, tentativo di suicidio. Finché turbato non si ritrova a camminare per le vie di New York e quasi senza volerlo a rifugiarsi in un cinema d’essai dove proiettano un vecchio film dei fratelli Marx. È lì che Mickey ritrova la pace: vedendo tutti quegli attori morti da anni che si divertono come pazzi, si coglie a pensare: “Gesù, dovrei smetterla di avvelenarmi la vita cercando risposte che non avrò mai e godermela finché dura”.

Il dato davvero buffo, mi pare, è che tante volte mi è capitato di usare i film di Woody Allen allo stesso modo: come lenitivo alla tristezza della vita. Non ho mai provato a suicidarmi (non ancora almeno) ma non riesco nemmeno a contare le volte in cui ho considerato il suicidio come un’opzione plausibile per liberarmi da questo senso di tedio. Ebbene, eccomi ancora qui. Finché dura ho tante cose belle da vivere, da vedere, da amare.

Ricordo che ai tempi dell’università provavo un certo complesso d’inferiorità nei confronti di chi studiava materie come Filologia classica o Epigrafia bizantina. Per contro, disprezzavo chi si laureava in Storia del cinema. Lo so, era una forma di snobismo intollerabile, frutto di una grottesca generalizzazione. Temo che il mio pregiudizio derivasse dall’assidua frequentazione di un cinefilo che si prendeva schifosamente sul serio. Si chiamava Walter e passava i pomeriggi al cinema a vedere interminabili lungometraggi terzomondisti rigorosamente sottotitolati.

Fu lui, durante una cena altrettanto interminabile, a dirmi che non considerava Woody Allen un cineasta. Di fronte alle mie rimostranze, mi disse: “È un ottimo battutista, tutto qui”.

Tutto qui? Davvero?

Ora, la mia ignoranza in fatto di cinema è proverbiale. Uso i film come alcuni usano i libri: come un diversivo per svagare la mente. Sono uno spettatore onnivoro, insofferente, poco avvertito. Ciò detto, mi chiedo: come si può liquidare la filmografia di Woody Allen in modo così rozzo e detrattivo? Non credo occorra questa gran cultura cinematografica per affermare che Woody Allen è uno dei pochi registi del Novecento ad aver creato un immaginario così straordinariamente riconoscibile ed evocativo. E le battute c’entrano, certo che c’entrano, caro il mio Walter, ma sono solo il pepe sparso su pietanze assai più gustose. Woody Allen ha inventato un genere che potremmo chiamare: commedia esistenziale. Sono parecchi i talenti che lo hanno emulato: da Peter Bogdanovich a Nora Ephron. Nessuno dei quali, tuttavia, ha saputo stargli dietro. Nessuno è riuscito a comporre un’elegia di Manhattan altrettanto iconica. Per non parlare dei bianco e nero, e di certi struggenti pastello. Poi ci sono le musiche, i vestiti, gli interni, i dialoghi sincopati e l’inquieta gestualità degli attori. Ah, le cravatte di Diane Keaton, i blazer di Martin Landau, i cardigan di Alan Alda, i twin-set di Cate Blanchett… In quanto a eleganza, è secondo solo a Hitchcock. Passando alle strutture narrative, ce ne sono alcune che non stento a definire surrealiste. La mise en abyme operata da film come Zelig, La Rosa purpurea del Cairo, Un’altra donna, Harry a pezzi non hanno nulla da invidiare a certe geniali invenzioni pirandelliane. Non mi sorprende che tante star di Hollywood (prima di ripudiarlo impunemente) abbiano accettato ruoli al minimo salariale, tutto pur di poter interpretare uno dei suoi personaggi complessi e sfaccettati (molto spesso, da Oscar). E allora perché ripagarlo con tanti pregiudizi? Perché, tra gli studenti del Dams, il suo nome non viene mai affiancato a quello dei più grandi registi del Dopoguerra?

Temo che tutto si spieghi ancora una volta con l’understatement venato di nichilismo. Woody Allen è un dissipatore: in questo senso almeno, la perfetta alterità dialettica rispetto al genio di Kubrick. È bulimico e frettoloso, non crede abbastanza in se stesso, o forse non gli importa di crederci. Stando ai suoi collaboratori, per lui va sempre bene la prima. Come tutti i veri artisti, non si considera tale. La sua prolificità è indecente. Ammettiamolo: un film ogni anno non si perdona a nessuno, così come è difficile accettare risultati così artisticamente discontinui. Ma il punto è proprio questo: non c’è modo più efficace del lavoro di fare fronte all’abisso. Il resto conta poco.

Il film che meglio esemplifica l’arte di sperperare il suo talento è Harry a pezzi. Da molti colpevolmente liquidato come opera minore, è uno scrigno pieno di divagazioni narrative geniali su cui qualsiasi altro regista avrebbe costruito un’intera carriera: dal vecchio commerciante ebreo che non sapendo come sbarazzarsi del cadavere della moglie decide di mangiarlo, all’attore di pubblicità la cui immagine è sempre fuori fuoco, roba degna di Gogol’.

Ebbene, lasciatemelo dire: io amo Woody Allen anche per questo, per il suo orrore di sé, per la sua incapacità di restare serio fino in fondo. Ed ecco perché tra tutte le scene meravigliose che ci ha regalato, la mia preferita resta quella che chiude Crimini e misfatti. Cliff Stern è un regista di documentari idealista e fallito disperatamente innamorato di Halley Reed (interpretata da una strepitosa Mia Farrow). Le cose tra loro non sono andate, dato che lei gli ha preferito Lester, un ricchissimo produttore televisivo la cui tracotanza è pari alla sua imbecillità. Insomma, Halley e Cliff si rincontrano a un ricevimento nuziale al Waldorf, lei raggiante nel suo abitino costoso, lui disperato nel suo smoking a nolo. A lei non resta che restituirgli la lettera d’amore che lui ha avuto l’impudenza di spedirle. Insomma, ce n’è abbastanza per spingere il piede sull’acceleratore e straziarti il cuore. Chi non lo farebbe, date le circostanze? Tutti, certo, ma non Woody Allen. Il solo commento che scappa al proverò Cliff, questo esperto di fallimenti, è il seguente: “La mia unica lettera d’amore. L’avevo copiata quasi tutta da James Joyce. Ti avranno stupito tutti quei riferimenti a Dublino”. Ecco, non so voi, ma per me è così che dovrebbero finire le storie d’amore.

Alessandro Piperno (Roma, 1972), scrittore e professore di Letteratura francese. Ha esordito nel 2005 con “Con le peggiori intenzioni”. Ha vinto il Premio Strega nel 2012 con “Inseparabili, il fuoco amico dei ricordi”. Il suo ultimo romanzo è “Di chi è la colpa”. Dirige dal 2020 i Meridiani e tutti i suoi libri sono pubblicati da Mondadori.