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Il posto nel mondo e la tribù nel cuore

Passeggiata esistenziale per la Rebibbia di Zerocalcare, fumettista autoironico che esercita il dubbio, rifiuta il ruolo di “ultimo degli intellettuali” e racconta la marginalità: reale e dell’anima. Il conflitto fra suscettibilità e individualità e il tormento del successo

Sembra sia rimasto ancora qualcuno in Italia, a Roma, per giunta nel suo quartiere, a Rebibbia, che quando sente il suo nome dice: “Zero chi?”. Chiedo a un drappello di persone che si ripara dal caldo bevendo birra Peroni da sessantasei se sa dove abita, e pare che nessuno sappia nemmeno chi sia, tranne uno. “Ma chi, er fumettista? E certo che ’o conosco, Zerocalcare. Ce l’ho pure amico su feisbuk”. Si viene in questo posto che un tempo è stato borgata e oggi chiamano “periferia” per vedere con i propri occhi il centro dell’universo letterario ed esistenziale di Michele Rech, il disegnatore più popolare d’Italia, l’artista che ha esteso il fumetto al pubblico di massa, prima con il blog, poi con i libri, infine con Netflix. Non c’è storia da lui scritta che non parta da questo quartiere o che alla fine qui non lo riporti. Dove abita me lo dicono tre ragazzetti che incontro per strada. Lo leggete? “No, nun so’ proprio tipo che legge, io”, risponde uno dei tre. Ma hai visto la serie? “E te pare che naa vedo ’a serie de uno che me abita sotto casa?”. E cosa ti è piaciuto? “Che parla d’a realtà. Nun so storie de fantasia ’e sue. Infatti sto aspetta’ che esce ’a seconda”. Dopo la prima serie animata, Strappare lungo i bordi, Netflix ha annunciato che Zerocalcare sta lavorando a una serie tutta nuova, non proprio un seguito. “Avrà un formato un po’ più lungo – ha anticipato lui stesso –, ed è tutto quello che sono autorizzato a dire senza che giustizino la mia famiglia”. Per merito di editori meno feroci, si sa qualcosa in più del suo nuovo libro. Il titolo: No sleep till Shengal. La data d’uscita: ottobre. Di cosa parla: è un nuovo viaggio in Kurdistan, dopo Kobane Calling, stavolta per raccontare la storia degli Ezidi.

Andare a cercare l’indirizzo di casa di Michele Rech – questo il nome che ha sulla carta d’identità – serve soltanto a perdersi nelle strade di Rebibbia avendo in mente un centro da cui muoversi per valutare cosa sia la realtà per un fumetto, e per il fumetto di Zerocalcare in particolare. Non certo la stessa realtà della fotografia, del cinema, del documentario, della televisione, del reportage.

Infatti la fermata della metro B, il perimetro angosciante del carcere di Rebibbia, il Museo di Casal dÈ Pazzi che conserva i resti di un elefante del Pleistocene che lui ha eletto a simbolo del quartiere (ma disegnandolo come un mammut), non dicono poi molto del suo lavoro. Perché quella di Zerocalcare è una realtà emotiva, soprattutto, non realista.

“Il fumetto”, ha detto una volta, “ha un aspetto di fedeltà alle emozioni. Evoca immagini che non esistono. Immagini dell’anima”.

Ben prima della Pixar, che lo ha fatto con il film Inside Out, Zerocalcare ha trasformato ogni moto interiore in un personaggio. Gli ha dato un corpo, una voce, una ragione, spesso animalesca, come sono animalesche le pulsioni più tenaci. Le sue storie sono avventure nel teatro della psiche e per questo, pur se scritte dal margine della città, escono immediatamente da quei confini, come da tutti gli altri recinti – politici, antropologici – dentro i quali Zerocalcare a volte ha la tentazione di rinchiudersi, per esempio quando dichiara di provare nostalgia per la “piccola riserva indiana” da cui proviene.

Indagare su Zerocalcare significa entrare in contatto con questa tribù, personaggi e storie di una Roma sommersa, politicamente irriducibile, seppur a tratti in via d’estinzione. Il negozio di dischi su via Nomentana 113, Hellnation Store, che trovo ormai chiuso e diroccato, dopo esser stato punto di riferimento della scena skinhead, punk e hardcore romana, meta di pellegrinaggio di Zerocalcare. Poi c’è Valerio Marchi, strano sociologo morto appena cinquantenne, fondatore della Libreria internazionale di via dei Volsci, a San Lorenzo, studioso delle sottoculture giovanili, dal quale Zerocalcare ha appreso anche un certo culto della teppa e quindi la considerazione del teppismo.

Per anni Zerocalcare – che ha lavorato anche a Radio Onda Rossa – ha disegnato per i centri sociali di Roma. Qualsiasi cosa, e gratuitamente: manifesti, volantini, locandine. Nella mostra che il Maxxi gli ha dedicato, raccolta nel volume Scavare fossati nutrire coccodrilli, un’intera sezione è dedicata a questi lavori, anch’essi passati dalla rivolta di strada all’istituzione culturale, non senza gran tormento dell’autore. Testimoniano una dedizione alla causa commovente e un’attenzione totale a non urtare alcuna suscettibilità (c’è sempre un nero, una rom, un padre, diverse donne, con diversi ruoli, anche se poi alla fine in piazza magari andavano solo gli studenti), ma lì c’è già chiaro il segno del grande artista che poi sarà.

Prima di Zerocalcare, a Roma, il ruolo di disegnatore dei centri sociali era stato inventato e interpretato da Cristiano Rea. “Uno che su di me – ha detto Zerocalcare – ha avuto un impatto gigantesco”. La storia di Rea riporta alla nascita del punk, alla rivolta contro il dominio della violenza politica degli anni Settanta, ai manifesti di un locale leggendario, il Uonna club. Oggi Rea ha sessant’anni e mi racconta di aver ricevuto una telefonata di Zerocalcare quando era al lavoro sul film tratto da La profezia dell’Armadillo, diretto da Emanuele Scaringi. La telefonata era per chiedergli l’autorizzazione di appendere alcuni suoi manifesti nella cameretta del protagonista del film, che poi era Zerocalcare stesso, per rendere omaggio all’importanza che avevano avuto nella sua formazione. E basta guardare i disegni di Rea di cui è rimasta traccia online per intuire che il segno di Zerocalcare è il risultato anche dell’iconografia di un mondo che lo precede, immediato nella composizione, nella crudezza, nel bianco e nero (disegna ancora così, a mano).

Da grande voleva fare il paleontologo, poi il traduttore, ma, mentre i suoi piani si disfacevano, ha letto tutti i fumetti che ha potuto, tranne i Bonelli. “Io non vengo da una conoscenza del fumetto underground – dice nel libro intervista di Laura Scarpa, Zerocalcare (ComicOut) – ma dal fumetto mainstream”. Ha letto tutto Topolino, poi Minnie, Cattivik, Lupo Alberto, L’uomo ragno, Dragon Ball, tutto quello che partoriva la Marvel. Poi sono venuti Tank Girl, Gipi, Larcenet, i fumetti francesi. Secondo Valerio Bindi, fondatore del festival di fumetto Crack! e curatore del libro – La rabbia (Einaudi) – che raduna il meglio degli autori che di lì sono passati, in testa Zerocalcare, “è nella capacità di sintetizzare elementi tra loro diversissimi, il talento di Michele”. Nel suo tratto, possono riconoscersi le persone più diverse: dagli amanti dei Cavalieri dello Zodiaco a Toni Negri. Ecco i mezzi che ne hanno fatto un autore naturalmente di massa, nonostante la sua adesione ideologica alla tribù.

Quando Makkox ebbe il grande fiuto di autopubblicare il suo primo libro, La profezia dell’Armadillo, costrinse Zerocalcare anche ad aprire un blog e a pubblicare una volta alla settimana. Lui scelse il lunedì. E lì, dice, “ho fatto meschinamente leva sulla nostalgia canaglia degli anni ’90”. Sono gli anni che culminano con la rivolta di Seattle negli Stati Uniti e il G8 di Genova in Italia. La generazione di cui Zerocalcare è stato eletto cantore. Sebbene ogni volta che gli chiedano se si senta tale, lui risponda di no, infastidito. La postura che assume nei suoi libri – autoironica, piena di dubbi su di sé – è un rifiuto del ruolo dell’autore al quale ci si dovrebbe aggrappare per farsi guidare nel mondo. Eppure, dopo aver scritto Kobane Calling, reportage dal Kurdistan turco-siriano, Zero è diventato sempre di più un interprete delle sorti collettive, finanche della sinistra italiana, al punto che l’Espresso lo ha innalzato a “ultimo intellettuale”.

Il decoro, l’avanzata del fascismo, il romanzo della pandemia, la cancel culture: Zerocalcare un po’ si presta, un po’ si ritrae dalla missione di cui è stato investito. Un po’ si sente lusingato, ma un po’ anche schiacciato. Scrive: “Sia che si tratti di un ragazzino su twitter” sia di “un elaboratissimo paper accademico”, prima di intervenire su una tema delicato “uno si dovrebbe fare questa domanda: ’sta cosa che sto facendo aiuta le lotte?”. Se non le aiuta, meglio lasciar stare.

In Zerocalcare l’artista convive con il militante, e non è una convivenza serena, ci sono tormenti e contraddizioni. Intanto, perché egli stesso è la prova che il capitalismo non esclude chi ambisce a sovvertirlo, anzi è ben lieto di accoglierlo se è in grado di fargli guadagnare abbastanza soldi. E poi perché l’artista-militante è posto continuamente di fronte a una richiesta lacerante, la fedeltà al collettivo oppure a se stesso, il tradimento di sé o degli altri.

Quando partecipò al Premio Strega con Dimentica il mio nome disse che, se lo avesse vinto, avrebbe avuto più guai che vantaggi: “Io appartengo a una tribù di talebani, che guarda con diffidenza ogni rapporto con i media, figuriamoci un premio letterario. Non sopporterebbero uno sconfinamento così esagerato”. Si definì un “ostaggio volontario” della propria tribù e disse che di fronte alla scelta tra il proprio lavoro e la propria comunità non avrebbe dubbi: sceglierebbe la comunità.

E chissà quanto sarà stato complicato lavorare per Netflix, quante cautele da prendere per non risultare improvvisamente estraneo, per non essere rifiutato, o, per usare un linguaggio moralistico, non alieno all’estremismo, “un venduto”. Forse Zerocalcare continua a vivere qui, a Rebibbia, anche per offrire la prova di essere rimasto autenticamente fedele, nonostante il successo gli abbia cambiato la vita, di certo dal punto di vista materiale. E questo sebbene Zerocalcare non sia mai stato un autore del genere di Sergio Citti, uno che arriva dalla borgata degli anni Cinquanta a testimoniare la vita che ha condotto ai margini del mondo per bene.

Ha studiato al liceo francese Chateaubriand, una delle scuole più esclusive di Roma. Quasi se ne vergognasse, ha spiegato di esserci andato perché sua madre è francese, che “non ha pagato niente” e che comunque “mi sono sempre tenuto alla larga dagli studenti italiani che vengono messi lì da famiglie un po’ stronze, solo perché fa chic”.

Osservando il numero di immigrati che vivono qui a Rebibbia, alcuni in case troppo piccole per la quantità di inquilini, ci si accorge che la marginalità da Zerocalcare veramente raccontata non è questa: è invece la marginalità esistenziale di chi non trova un posto nel mondo e si sente fragile, a repentaglio, esposto. “Tutto quello che disegno”, dice, “potrebbe ricondursi all’insicurezza”. È così che il demone dell’individualità s’insinua negli imperativi categorici del collettivo, fino a diventare il groviglio che tiene la sua opera così viva e in tensione, anche sotto la forma più estrema, quella del suicidio.

Si uccide Camille nel suo primo fumetto e altrettanto farà Alice nella serie tv. Entrambi i personaggi ispirati al suicidio reale di una ragazza con cui Zerocalcare ha avuto una storia mancata in giovane età. Si uccidono due squatter torinesi, Soledad e Balena, quando Zerocalcare ha 14 anni, avvicinandolo ai centri sociali.

Quanto possono confliggere nella mente di un artista gli enigmi del singolo e le regole del gruppo? L’appartenenza e l’estraneità? Possono trovare il modo di non deflagrare? E quanto la verità artistica può sopportare di piegarsi alla necessità politica?

Camminando per circa ottocento metri dalla casa di Zerocalcare si arriva all’appartamento in cui ha abitato Pier Paolo Pasolini, via Giovanni Tagliere 5. Artista definito da Zerocalcare, in A babbo morto, “poeta aziendale”, il poeta dei padroni. E che pure ha detto ad alta voce lo scandalo del contraddirsi, dell’essere con Gramsci nel cuore e contro Gramsci nelle buie viscere. Zerocalcare piuttosto la esorcizza, la contraddizione: a volte la soffoca correndo al riparo sotto il tetto del “noi”. Parla al plurale nel murales che ha disegnato all’ingresso della fermata metro di Rebibbia. Lo guardo prima di scendere per prendere il treno e andarmene. Dice: “Qui ci manca tutto. Non ci serve niente”.

Nicola Mirenzi (Catanzaro, 1982), autore tv e giornalista. Il suo ultimo libro è “Nuove mappe del paradiso” (People, 2020), con Marco “Makkox” Dambrosio.