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Il secolo breve delle lolite italiane

«Dolci inganni», «Voglia matta» e gli altri: le ninfette proliferano nel cinema del 900. Da una parte le minorenni, dall’altra uomini incestuosi e cacciatori imbozzolati, ma quantomeno consapevoli. Poi arrivano gli anni 80: la miserevole estinzione del maschio adulto italiano

Vivi la vita di donna importante perché a sedici anni ti senti già grande». Questa però è la versione espurgata dalla censura della Rai, quella che Nicola Di Bari poté cantare impunemente sul palco di Sanremo del 1972 vincendo, con I giorni dell’arcobaleno, la sua seconda edizione consecutiva del Festival. Se avesse cantato, come prevedeva il testo originario di Dalmazio Masini, «perché a tredici anni hai già avuto un amante», c’è da dubitare che le cose sarebbero filate altrettanto lisce. Qualche mese dopo Claudio Baglioni lancerà il 45 giri di Piccolo grande amore, lei con quell’aria da bambina che lui ci andava matto, ma non abbiamo informazioni anagrafiche più precise, non sappiamo cioè se gli anni fossero tredici o sedici; sappiamo in compenso che in quella prima incisione la voglia di essere nudi dovette addolcirsi nella voglia di essere soli. Passano dieci anni, e Nino D’Angelo canta ’Nu jeans e ’na maglietta: «Tu, quindici anni, ma sei già donna». Però, nonostante lei sia una teenager, lui se ne innamora per «quell’aria da bambina», piccolo grande omaggio a Baglioni, insomma la immagina perfino più giovane del dovuto. L’anno dopo la canzone ispirerà un intero film, uno degli ultimi fuochi del musicarello al tramonto, Un jeans e una maglietta di Mariano Laurenti. La quindicenne cantata da Nino D’Angelo ha per giunta ’na faccia acqua e sapone, come l’omonima canzone degli Stadio su un testo di Vasco Rossi: «E’ strepitosa, donna-bambina, donna vedrai, bambina se lo sai; meravigliosa, stramaliziosa, vieni e vedrai che cosa sentirai…». La canzone nasce per la colonna sonora di un film su una babymodella che perde la verginità con il suo precettore trentenne travestito da prete – sto parlando, ovviamente, di Acqua e sapone di Carlo Verdone. E siamo fermi al 1983. Altri due anni e arriva nelle sale un film che ha un’importanza speciale, un turning point in questa storia (ne parleremo quando sarà il momento); e sempre nel 1985, quasi a chiudere il cerchio, Piccolo grande amore è proclamata a Sanremo “Canzone del secolo”. Ma il secolo, a rigore, era cominciato molto prima.

Il secolo breve delle lolite italiane, diciamo pure il nostro secolo minorenne, comincia per l’esattezza nel 1959, quando Mondadori pubblica, nella collana della Medusa, il capolavoro di Vladimir Nabokov. La pianta attecchisce subito.

Dino Buzzati comincia in quei mesi a scrivere Un amore, ma le incubazioni letterarie sono lente, e il romanzo vedrà la luce solo quattro anni dopo (per la Graziella di Ercole Patti bisognerà aspettare addirittura il 1970). Il cinema, in compenso, se la sbriga molto prima, tanto più che c’è una quindicenne perfetta per il casting, è appena arrivata in Italia dalla Francia e si chiama Catherine Spaak. Ma Catherine non sarà Lolita, sarà Francesca; prima nei Dolci inganni di Alberto Lattuada – una primizia di Nouvelle Vague all’italiana –, poi nella Voglia matta di Luciano Salce, poi sotto altri nomi in altri film (il più famoso è Il sorpasso di Dino Risi), quasi sempre nel ruolo dell’amante ragazzina di uomini che hanno come minimo vent’anni più di lei. La moltiplicazione mitologica delle ninfette è a quel punto inarrestabile, spuntano dai boschi, dai monti, dalle sorgenti e gremiscono diverse regioni del cinema italiano. Arrivano così La bambolona e Appassionata, Romanzo popolare e Così come sei, Primo amore e Le farò da padre. La fascia di Miss Lolitaly passa nel frattempo da Catherine Spaak, ormai donna, a Gloria Guida, che ha già più di vent’anni ma esordisce con una tris che non lo dà proprio a intendere: La ragazzina, La minorenne, Quella età maliziosa. La nostra storia a questo punto si fa intricata, ed è tutto da capire se il punto di arrivo simbolico sia la Martina Stella dell’Ultimo bacio o la Ruby Rubacuori del processo omonimo. Certo è che la rivista Nocturno, che alle lolite del cinema italiano dedicò un eccellente dossier negli stessi mesi dello scandalo di Noemi Letizia, non trovò affatto inopportuno intitolarlo Le farò da papi.

Guai a puntare la lente d’ingrandimento nel posto sbagliato, però. Se infatti ci dedichiamo solo alle crisalidi-lolite, come l’entomologo quasi professionista Nabokov, vedremo sì sfilare una magnifica varietà di farfalle, ma lo spettacolo avrà l’intemporale monotonia delle rassegne di archetipi; potremo farne la tassonomia, non la storia. È sui cacciatori attempati con il retino in mano che dobbiamo mirare la nostra attenzione, se vogliamo osservare la metà declinante di questo processo naturale: al battito delle ali variopinte delle giovanissime prede fa da contrappunto il graduale imbozzolarsi dei cacciatori e il loro regresso a uno stato larvale alquanto miserevole. Insomma, una lente un po’ più adatta è quella di Thomas Mann e della sua Morte a Venezia. Sostituendo l’immagine mentale di Catherine Spaak sgambettante sulle spiagge dell’Italia del miracolo economico con quella di Dirk Bogarde negli stabilimenti lagunari con la tintura nera che gli cola sul viso nel finale del film di Luchino Visconti, si riesce forse a tracciare una rudimentale parabola del maschio adulto italiano dagli anni Sessanta alla sua attuale estinzione (estinzione come adulto, non come maschio: citofonare Guia Soncini per ragguagli, o procurarsi il suo ultimo Questi sono i 50).

Quando la brigata delle fanciulle in fiore sbarcò sui nostri lidi, nei primi anni Sessanta, a perderci la testa erano adulti che sapevano di essere tali. La passione per le minorenni traboccava di tutte le perversioni immaginabili, ma non di quella di disfare il tempo: non si accompagnava, insomma, né al tentativo di tornare ragazzini né all’illusione psicopatologica di essere tuttora tali. L’ingegnere della Voglia matta, Ugo Tognazzi, poteva accarezzare per una domenica la chimera malinconica del ringiovanimento, ma alla fine dell’avventura tornava in buon ordine alla sua vita rattrappita di adulto infelice. La grande ossessione di questi primi cacciatori è l’incesto, luce incandescente intorno a cui fanno svolazzare le loro piccole falene. «Faresti l’amore con tua figlia?», domanda a bruciapelo la giovanissima autostoppista francese a un ingegnere idraulico che ha una figlia sua coetanea, in Togli le gambe dal parabrezza (1969) con Carole André e Alberto Lionello. I film di quegli anni, dando fondo all’arte del girarci intorno, sono popolati di ragazzine innamorate di un amico del padre e di uomini intrigati dalle figlie delle loro amanti. Due film di Lattuada, negli anni Settanta, prendono il tabù per le corna: il bellissimo Le farò da padre – e basterebbe il titolo – inscena la folie à deux tra un avvocato in caccia di dote, che poi è Gigi Proietti, e la figlia adolescente di una contessa; in Così come sei, con Nastassja Kinski e Marcello Mastroianni, un architetto di mezza età è roso dal sospetto che la giovanissima amante sia la sua figlia biologica, già che era stato amante pure della madre. Ma in questi e in molti altri casi, tra la lolita e il nonnetto, o diciamo pure il nonito (l’ho rubata a Umberto Eco), si apre un fossato incolmabile. Un fossato che comincia ad assottigliarsi solo negli anni Ottanta.

La seconda tappa della nostra storia naturale è inaugurata nel 1985 da un film quasi dimenticato, e tuttavia unico nel cinema italiano: Colpo di fulmine di Marco Risi, con Jerry Calà e la piccola esordiente Vanessa Gravina. Se la Sandy di Acqua e sapone era una donna-bambina, la Giulia di Colpo di fulmine è una bambina e basta: ha undici anni. E se il prete precettore di Verdone era solo un uomo un po’ infantile, il Carlo di Jerry Calà è lampantemente un bambino in un corpo di adulto, che gioca ancora con i soldatini a dispetto dei suoi quasi trent’anni. Lasciato dalla moglie per un uomo più maturo e licenziato dal suo impiego, Carlo accetta l’invito di un amico che lavora in un albergo a Venezia; e se vi fischiano le orecchie fate bene, perché l’amico, Ricky Tognazzi, lo alloggia in una stanza dove ha dormito, guarda caso, Thomas Mann. E infatti Carlo si innamora, ricambiato, della figlia del suo amico. Ma non c’è nulla di decadente qui, niente corpi acerbi in costumi da bagno a righe orizzontali e uomini che si struggono in una febbre erotica inseguendo efebi pagani. I due non avvertono la differenza di età, o non la avvertono come un vero problema. Non solo Carlo ignora le inquietudini incestuose dei predecessori, ma anzi – eterno figlio – va dal padre della bambina a dichiararsi. Colpo di fulmine è un film che oggi chiunque avrebbe il terrore anche solo di immaginare, figuriamoci di proporre a un produttore o di girare, eppure bisognerebbe rivederlo, come bisognerebbe rivedere gli altri film sull’antropologia dell’uomo-bambino che Marco Risi cucì intorno a Jerry Calà, e che – fatte le debite proporzioni – stanno al disordine amoroso degli anni Ottanta un po’ come i capolavori di Pasquale Festa Campanile stavano ai grandi sommovimenti erotici del decennio precedente. A uno a uno, gli adulti anagrafici perdono ogni traccia di adultitudine interiore, qualità che serbavano perfino i più immaturi tra i loro antenati. Il Conte Mascetti di Amici miei sarà stato pure un cialtrone, ma per tentare (invano) di lasciare la Titti, lui cinquantaduenne lei diciottenne, si faceva prestare un abito blu come la solennità delle circostanze imponeva: Tognazzi sembrava quasi ritrasformarsi, per l’occasione, nel compunto professionista della Voglia matta. Alla fine degli anni Ottanta di tutto questo non c’è più memoria: il Patata di Compagni di scuola – forse il personaggio umanamente più meschino di Verdone, ma una delle sue creature cinematograficamente più felici – è un professore di liceo che coltiva con un’allieva maturanda (di nuovo la Natasha Hovey di Acqua e sapone) un rapporto bamboleggiante e vigliacco che lui definisce poetico, senza un’ombra della responsabilità di chi dovrebbe appartenere alla generazione dei padri. Semmai, si potrà dire, il Patata avverte nevroticamente il suo fallimento nell’approdare alla vita adulta, dispiegando un ricco repertorio di sintomi, rituali ossessivo-compulsivi, lapsus e atti mancati.

Siamo così arrivati al 2001. Superata la soglia simbolica del passaggio di millennio, con L’ultimo bacio di Gabriele Muccino i residui del maschio adulto si sono ormai disciolti nelle acque di un liceo permanente. Le carte in tavola, in teoria, sono le stesse: l’uomo in crisi, la donna incinta, il tempo che stringe, gli impegni che incombono, una stagione della vita che si chiude, la ninfetta che promette un’ultima evasione magica. Lei si chiama Francesca, come le lolite dei primi film con Catherine Spaak. Se non fosse che i trentenni del film di Muccino sono diventati perfettamente indistinguibili dai sedicenni. Perfino le loro voci e le loro cadenze – spia infallibile dell’età mentale di una civiltà – faticano a uscire dalla bambagia acustica adolescenziale. E così, riguardando oggi il film a occhi chiusi, mi trovo a pensare che poteva essere Stefano Accorsi a regalare Siddharta a Martina Stella, o a mostrarle la casetta sull’albero, e la cosa non avrebbe fatto la minima differenza, perché non c’erano fattori da invertire. Il protagonista, per uno scherzo dell’anagrafe cinematografica, si chiamava Carlo ed era alla fine del ventinovesimo anno: proprio come il bebè cresciuto che il presago Risi volle incarnare nelle guanciotte di Jerry Calà, e che Muccino acquattò invece con cura sotto la faccia di gomma di Accorsi, refrattaria all’azione corrosiva del tempo.

Guido Vitiello (Napoli, 1975), scrittore, ricercatore e docente universitario. Insegna Cinema alla Sapienza di Roma. I suoi ultimi libri sono «Una visita al Bates Motel» (Adelphi, 2019) e «Il lettore sul lettino» (Einaudi, 2021).