Sono mesi, ormai, che il mio comodino è invaso da letture su guerre, massacri, eccidi. Mi ha costretto l’esplosione di violenza in cui ci dibattiamo. Che non è una novità, certo. E tuttavia il nostro impegno sui fronti aperti sempre più vicini è una novità evidente. Così come è una novità la propensione occidentale a superare certe linee di demarcazione, come gli spazi sacri definiti dall’età (l’innocenza dei bambini) o dalla salute (l’inviolabilità degli ospedali). E insomma, fatto sta che, perso nell’orrore del Male, passo il tempo cercando risposte.
Ovviamente, non si viene mai a capo di nulla, in questi casi. Epperò certi sforzi in qualche misura pagano. Me ne sono accorto poco tempo fa, in uno dei licei in cui vengo invitato a parlare di miti antichi, eroi, filosofia. Non c’è luogo migliore della scuola per confrontarsi con i grandi temi. C’è una freschezza nell’aria che non permette furberie. Alle domande devi dare risposte. Ora, io non mi nascondo. E tuttavia è evidente che sulle risposte offerte dalla letteratura all’orrore di guerre e massacri domina sempre l’impressione che, riplasmando la realtà, gli scrittori la sfuggano, finendo per immaginare scene relegate nell’ambito del fantastico. «Magari accadesse», diciamo chiudendo il libro. Pieni di quella frustrazione che si vive indagando il mistero degli esseri umani così veloci nel perdere il senso della propria umanità.
Ogni mattina, in questi mesi, dopo un’infornata di orrore dai video che circolano in rete e dopo qualche lettura geopolitica, tornavo sugli antichi. E ogni volta mi sentivo perduto. Inutile illudersi. Lisistrata che ferma la guerra con il famoso sciopero del sesso è una fantasia. Glauco e Diomede che si scambiano le armi e si scoprono amici sono invenzione pura. Achille e Priamo che si abbracciano e piangono assieme sono bellezza inarrivabile, ma inarrivabile appunto. Poi però in una scuola ho capito che dovevo insistere e che la letteratura riplasma la realtà, certo, ma per raccontarla. E così ho estratto dai chili di volumi del mio comodino quel capolavoro che è Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern.
È uno degli episodi più celebri del libro. Culmine di una giornata molto analizzata dagli storici, il 26 gennaio 1943 a Nikolajewka, quando gli italiani, ritirandosi, sono costretti all’ultimo scontro. Rigoni Stern racconta quel che ha vissuto. Mentre la battaglia impazza, stravolto, bussa alla porta di un’isba. Dentro, è pieno di soldati russi. Stanno mangiando da una zuppiera comune. Lui li guarda. Loro ricambiano con il cucchiaio sospeso a mezz’aria. Rigoni chiede di mangiare. Una donna gli riempie la scodella. «Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. – Spaziba –, dico quando ho finito. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi».
Il commento dello scrittore è veloce, privo di retorica. E ci dice tutto quello di cui abbiamo bisogno oggi. «Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini».