Cerca

Il terremoto di scrivere nella guerra di vivere

Rosella Postorino e Nadia Terranova si raccontano il tempo della Storia, che muove le vite dei romanzi e delle persone. Il coraggio che ci vuole per la libertà, la potenza del desiderio, il buio e la luce di una strada che non è mai dritta. Quindi è reale

La capacità di adattamento è la maggiore risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana”.

 

Cara Rosella,

io parto da qui. Da questa frase che mi ha folgorata mentre leggevo Le assaggiatrici, ormai quattro anni fa, che ho sottolineato e citato in molti luoghi, dall’esergo di un testo teatrale sulla pandemia a un’intervista recentissima sul mio ultimo romanzo, Trema la notte. Negli ultimi quattro anni quella frase è stata una lanterna, ha retroilluminato ciò che avevo scritto e ha proiettato la sua luce allagando il futuro, le parole che stavo scrivendo. Per essere uno scrittore coraggioso servono parole semplici in una combinazione inedita; i giri di parole sono pavidi, le elucubrazioni smorte. Tu sei una scrittrice coraggiosa, lo so dai tempi del tuo primo romanzo fatto di frasi dirette, sorde – eravamo così giovani, neppure ci conoscevamo, ti leggevo e pensavo: questa perché scrive così, mi toglie il respiro. Oggi La stanza di sopra è nell’Universale Economica Feltrinelli, la stessa in cui da ragazzina leggevi i romanzi di Marguerite Duras, come tu stessa hai ricordato. Quel romanzo, così pieno di lei, è la tua preistoria e un po’ anche la mia. Avevo – avevamo – poco più di vent’anni, una laurea presa in una città che non era Roma, dove entrambe ci eravamo trasferite, lavoravamo nell’editoria con le parole degli altri ma eravamo vive quando covavamo le nostre. Ci adattavamo facendo i conti con la possibilità di disumanizzarci, e per questo ci aggrappavamo alla scrittura. Eravamo nate sullo Stretto, io su una costa e tu sull’altra, divise da una striscia di mare, tutte e due bambine che immaginavano che dall’altra parte esistesse un simile o una simile (ho giocato con questo specchio presentando i due personaggi di Trema la notte, dove le due sponde hanno la stessa forza). In realtà siamo rimaste sconosciute a lungo, ci siamo conosciute dieci anni dopo quel giorno in cui tutto d’un fiato avevo letto La stanza di sopra. O meglio: tu non mi conoscevi ma io conoscevo te, con la voracità e la presunzione di chi crede di sapere tutto di una scrittrice perché ne ha letto i romanzi, così quando ci parlavamo, le prime volte, sentivo tutto sbilanciato, mi sembrava di vedere più di quanto tu mostrassi e quella proiezione arrogante di nudità mi impediva di rilassarmi, mi faceva stare sempre sulle spine. Ci ho messo un po’ a sentirmi a mio agio con te, forse quando tu hai cominciato a entrare nei miei romanzi lavorandoci su con i tuoi superpoteri di editor e hai pareggiato i conti (o li hai sbilanciati dall’altro lato), forse a poco a poco che la tua voce si sovrapponeva a quella dei tuoi libri. In realtà io di te non sapevo niente, quindi te lo chiedo ora, dopo averne visto da vicino solo l’ultimo tratto: me la racconti, quella strada che hai fatto dal primo romanzo all’ultimo?

 

Cara Nadia,

ricordo bene il giorno in cui ci siamo incontrate per la prima volta. Io correvo per i corridoi di non so quale fiera editoriale e tu mi hai fermata. Avevi una felpa colorata da adolescente e la dolcezza di quell’accento messinese che avrei imparato a riconoscere. Mi hai chiamata per nome, anche se nessuno ci aveva mai presentate. Leggendo il manoscritto che sarebbe diventato Gli anni al contrario avevo creduto che fossi più grande di me, che gli anni Settanta li avessi vissuti, e mi ero stupita di ritrovarti invece coetanea, con quella felpa piena di colori. Non sapevo mi avessi letta, ma oggi capisco perché ti colpì quel libro su un padre “assente”, il cui corpo infermo è l’unica presenza che la figlia riesca a sentire, una presenza muta e incapace di salvare – come Dio. Lo so perché ho lavorato con te su Addio fantasmi, sulle assenze troppo presenti, ingombranti, sui padri che non ci sono più ma dei quali il lutto non si può elaborare. Ho scritto la storia de La stanza di sopra pensando a una compagna di classe, io che avevo un padre autoritario, forte, decisionista, un padre che impediva ogni orizzonte, e che mi ha insegnato la lotta, innanzitutto contro di lui, per ottenere ciò che davvero si desidera. Mi ha insegnato, suo malgrado, la potenza del desiderio. Ho scritto quella storia che apparteneva a un’altra, almeno nella mia immaginazione, perché mai lei me l’ha raccontata, e mi sono sentita un’impostora, come sempre. Capita anche a te? Pian piano sono scomparsi, i padri, dai miei romanzi. Se ne andavano e non si sapeva se sarebbero tornati (come tutti gli uomini dei miei libri, a pensarci bene), rischiavano di essere uccisi, dalla mafia o dalle mogli, e infine, ne Le assaggiatrici, erano già morti, ma continuavano a rappresentare la legge morale: è davanti al ricordo di suo padre antinazista che Rosa si vergogna di lavorare per Hitler. La madre, dal suo canto, ha il ruolo di pronunciare le parole della profezia, mentre Rosa è ancora una bambina: “Quando si mangia si combatte con la morte”. Cioè quando si vive: ogni istante, si combatte con la morte. Mi pare che in Trema la notte e in tutti in tuoi romanzi ci sia il sentimento fortissimo della sopravvivenza. Ne Le assaggiatrici è una colpa, è in fondo l’origine stessa della compromissione con il male: l’essere programmati per sopravvivere ed essere nello stesso tempo destinati alla morte, questa contraddizione, questo imperdonabile peccato divino. Invece mi pare che in Trema la notte tu sia più ottimista di me. La vita pulsa al di là della fragilità umana, al di là della violenza, la vita pulsa in senso biologico e simbolico insieme. Hai lasciato andare Ida e le liti furiose che in Addio fantasmi scoppiavano con la madre, nel mezzo delle quali lei le chiedeva: “Perché non hai figli?” – ed era così feroce, quella domanda. In Trema la notte hai guardato la maternità da madre e non più solo da figlia. Così, da narratrice, hai dovuto uccidere una madre (e un’altra, nella storia, la ammazza il terremoto), e la tua protagonista ha dovuto rinnegare un padre perché si potesse far spazio a una figlia, alla vita dentro eppure oltre sé.

Sai che ho sognato di cucinarti delle uova, e mi pare fin troppo banale questa simbologia per non chiederti che cosa significhi adesso scrivere da (quasi) madre. Hai già detto che d’ora in poi non potrai più scrivere da sola. Io, che ti sogno così spesso, mi chiedo se ti sognerò anche con tua figlia, la prossima volta.

 

Cara Rosella,

non so se anche dopo che mia figlia sarà nata manterrò questa sensazione. Ogni pagina che ho scritto in questi mesi viene da una matrioska: c’è un cuore che batte poco sotto al mio, uno stomaco che digerisce vicino al mio, ciglia che sbattono, palpebre che si aprono e si chiudono dentro di me. Scriviamo con il corpo e adesso io di corpi ne ho due, ma presto ci sarà la separazione del parto e forse non sarà più così, le parole torneranno a essere uno spazio di solitudine e forse mia figlia ne sarà il confine. Altrimenti dovrò appoggiarle una mano sugli occhi per coprirglieli mentre scrivo, quando sarò troppo crudele sulla pagina. Vedremo. Quel futuro è un territorio ignoto, esotico, in cui ho poche certezze, ma quando penso che potrò sempre ritagliarmi un’ora per scrivere mi sento viva e non ho paura.

Non sapevo che sarei diventata madre quando ho cominciato Trema la notte e mi chiedevo come avrei affrontato la maternità della mia personaggia, ma sentivo che ero arrivata a quell’altezza, potevo usare il metro di una donna che, nella finzione, si avventura in un’esperienza che non per forza deve vivere davvero. Scrivere è anche un’incognita, un’esplorazione: la maternità mi lanciava una sfida ed ero pronta a raccoglierla. Non so cosa avrebbe fatto Barbara della sua gravidanza se non fossi rimasta incinta anch’io, non so come l’avrebbe vissuta, dove l’avrebbe portata, Trema la notte sarebbe stato un altro libro e mi rimane un po’ di curiosità per quel cadavere lasciato sul campo. All’improvviso ho avuto la possibilità di saccheggiare dalla mia vita e non mi sono tirata indietro, del resto perché mai avrei dovuto? Avevo già fatto un lavoro di ricostruzione storica e uno di immaginazione, e anche quelli vengono da noi, ci appartengono; al contrario, anche ciò che viviamo, mentre lo trasfiguriamo sulla pagina, smette di essere legato alle nostre giornate e può essere piegato, storpiato. Però ho anche un’altra ipotesi: la scrittura è sempre un po’ profetica, anticipa, annusa l’aria. È più avanti rispetto alla vita. Forse ho mandato avanti Barbara e poi, semplicemente, l’ho seguita. Tu sei stata coraggiosa (te l’ho detto che è uno degli aggettivi che più lego alla tua letteratura): ne Il corpo docile hai creato una figura complessa di figlia-madre, quella Milena nata in carcere che crea con Marlon, un bambino biologicamente non suo, un legame forte e controverso. Mi è rimasta impressa quella ragazza così giovane, accudente in modo anomalo. Le donne dei tuoi libri sono spesso prigioniere di pareti soffocanti ma invisibili mentre con lei hai tirato su le mura di una cella, hai reso plastica la tua ossessione. Un’ossessione che condividiamo: raccontare l’asfissia, le gabbie invisibili. Per creare uno spazio di libertà a Barbara e Nicola io ho dovuto distruggere il mondo intero, far venire giù tutto con un terremoto, con l’apocalisse. La libertà è spaventosa, ha sempre un prezzo e in questo caso volevo che fosse più alto possibile, perché alta e profonda era la parola “salvezza” che vi si nascondeva in fondo, una parola che mi spaventava e mi sfidava anch’essa: se ne può scrivere senza finire intrappolati in un’escatologia religiosa? Non volevo linearità. Volevo la vita con buio e luce, cadute e risalite, come nel viaggio, ogni volta diverso, creato da un mazzo di Arcani sparpagliato nella notte. Se guardo alla grande Storia è così che la vedo, non come una freccia di progresso. Tu e altre autrici mi avete dato coraggio di entrare in un grande scenario senza snaturare i miei temi. A questo proposito, sono curiosa di sapere cosa ne pensi della definizione di “romanzo storico”: ti ci senti a tuo agio? Ricordo che una volta a proposito de Le assaggiatrici mi hai detto: quando l’ho iniziato non pensavo di scrivere un romanzo storico, pensavo di scrivere una storia vera.

 

Cara Nadia,

sì, pensavo di scrivere una storia ispirata alla realtà. Mi interessa la realtà, mi interessava anche quando ero piccola. Alle favole con gli animali antropomorfi preferivo le storie che avevano per protagonisti gli esseri umani. Ai cartoni animati in cui l’eroina si trasformava pronunciando una formula magica o agitando una bacchetta, preferivo quelli ambientati durante la Rivoluzione francese, o nei quali i personaggi si arruolavano in guerra, o in cui i bambini erano sfruttati come forza lavoro in una Londra grigia e struggente. Scrivendo Le assaggiatrici pensavo di indagare lo stesso tema di tutti i miei romanzi, la complicità con il male senza averlo scelto, la colpa che nasce dalla condizione di vittima. Studiavo tantissimo, prendevo appunti su quaderni, compilavo schede, la mia cartellina “margotwölk”, dal nome dell’assaggiatrice di Hitler la cui testimonianza mi ha ispirata, si riempiva di file di ogni tipo, anche video e audio, e in diverse lingue (italiano, inglese, tedesco, francese, spagnolo), ma non mi rendevo conto di scrivere un romanzo storico.

Tu con il romanzo storico hai esordito, di fatto Gli anni al contrario lo è, ma né tu né io lo abbiamo mai chiamato così.

In questi giorni sconvolti dall’invasione russa dell’Ucraina ripenso a che cosa significhi la guerra nel cuore dell’Europa. Durante una presentazione online in un liceo, l’altro ieri, una professoressa mi ha detto: non pensavamo potesse più accadere in questa zona del mondo. Ho risposto: ma è già accaduto, è durato dieci anni, era dall’altra parte della costa adriatica, e accadeva mentre io davo i miei primi baci e guardavo Beverly Hills 90210 e d’estate tagliavo con le forbici i jeans sempre più corti sul sedere per farmi guardare dai maschi; la chiamavano guerra civile, ma era una guerra d’aggressione. La scusa paventata era la stessa di sempre: un’etnia, una cultura, che si sente minacciata. C’erano i campi di concentramento, a pochi chilometri dal negozio dei miei, dalla sala giochi, dal salone dell’asilo del paese, dove organizzavamo feste senza alcol in cui flirtavamo goffi senza concludere quasi mai. Nella capitale bosniaca, i nostri coetanei pedalavano su una bici attaccata a una dinamo per ottenere l’elettricità sufficiente ad ascoltare un po’ di musica nelle cantine, improvvisare una festa anche loro. Questo mi colpisce, dei racconti di guerra. Più della morte, dell’orrore, delle mutilazioni, delle violenze, della crudeltà, dell’istinto inarrestabile di sopraffazione che appartiene agli esseri umani, mi colpisce la volontà ostinata di esistere, di resistere. Penso sempre: al loro posto, io avrei voluto morire. Uccidermi. E alcuni l’hanno fatto. A Sarajevo si fermavano sui ponti offrendo il petto ai cecchini. A Berlino, per non essere stuprate dai russi, le ragazze chiedevano di essere ammazzate, e i soldati rispondevano che loro non sparavano alle donne, non erano mica tedeschi.

Eppure, la maggioranza resiste. Combatte. Cerca cibo. Difende i figli. Offre solidarietà agli altri. Mi hanno commosso le storie degli uomini ucraini partiti dall’Italia per andare a difendere il loro Paese. Le interviste alle mogli che sono partite a piedi e con i figli verso la frontiera polacca. Una – l’ho ascoltata su France Inter, ascolto questa radio tutto il giorno con le cuffie camminando per le strade di Parigi, è da qui che ti scrivo – diceva: “Mio marito mi ha promesso che ci rivedremo, e io gli credo”. Mi sono dovuta fermare: ero attorniata dalla bellezza e dai turisti che si scattavano foto contro il cielo sterminato sopra la Senna, e mi sentivo privilegiata e colpevole. Ho pensato alla fede di quella donna, a come la Storia intervenga nell’intimità di una coppia, allo sradicamento imposto. Nei miei romanzi la gente se ne va perché è costretta. Sono pieni di treni, i miei romanzi, forse perché c’è stato quel treno da emigrata che ha diviso in due la mia vita di novenne. E ci sono stati i treni che mi hanno allontanata di nuovo, perché per me crescere ha sempre voluto dire andarsene: lo sai anche tu, lo hai fatto anche tu.

Insomma, ho scritto un romanzo storico pensando di parlare di relazioni spezzate, tradite dalla Storia quando ancora non puoi chiamarla così, quando ancora è il tuo presente. Non capita forse questo, a Giovanni e Aurora, ne Gli anni al contrario? Il loro amore sarebbe sopravvissuto se non si fosse imbattuto negli anni di piombo?

Nel senso di inadeguatezza di un uomo che non sa fare la lotta armata e quindi non sa fare più niente, se non essere trascinato giù dalla propria epoca? Vogliamo parlare di questi personaggi maschili inetti o che tali si percepiscono? Del padre di Ida? Dei maschi che in Trema la notte, man mano che Barbara si radica in sé stessa e in quel nuovo mondo partorito dal terremoto, scompaiono dallo scenario? Nicola sembra chiedere scusa per tutti loro, alla fine. Per la loro violenza e per la loro inerzia. Non credo sia premeditato. Sento in te la stessa tenerezza che per i maschi provo io. Ma forse la letteratura ti ha sovrastata, come spesso capita, e nel tuo libro c’è anche questo?

 

Cara Rosella,

è la parola esatta, tenerezza, quando si parla di maschi. Ho pietà di Giovanni e del suo autolesionismo ne Gli anni al contrario, di Sebastiano e della sua depressione in Addio fantasmi, di Nicola e delle vessazioni che subisce in Trema la notte. Vorrei abbracciarli tutti. Con le donne ci combatto a fianco, con gli uomini mi viene una spietatezza che poi si converte in compassione, ma solo con Nicola sono riuscita a dare uno sbocco, una luce a questo sentimento, e forse non è un caso che le storie dei padri per me siano state di morte o sparizione e invece quando ho raccontato la storia di un figlio gli ho dato una possibilità di rinascita, una seconda vita. Nicola riesce a essere più grande del suo destino, prende la vita in mano e ha il coraggio di cambiarla, gli adulti invece li vedo sempre schiacciati, sconfitti, dalla propria debolezza o dal proprio male.

In questi giorni guardo gli uomini che vanno alla guerra e fatico a distinguerli. È una deformazione del mio sguardo e cerco di superarla, mi costringo a sostare sui dettagli del viso, a chiedermi quanto scelgono e quanto invece subiscono, provo a umanizzarli. Lo ammetto, non è facile. Ci provo, ma quando arriva la foto che mostra una famiglia che corre in ospedale con un neonato sanguinante in braccio voglio solo urlare come Andromaca. È per quello che ho voluto che Nicola alla fine si scusasse, anche se lui non è un colpevole, anche se non avrebbe potuto fare niente contro la violenza cui ha assistito, anzi: quella violenza è stata agita anche contro di lui. Ma un maschio che chiede perdono per qualcosa che solo i maschi fanno – stuprare – diventa una creatura superiore, per me. È qualcuno che non reitera le violenze subite e viste. Ci

sarà pure qualche guerra ideata da una donna, ma vogliamo negare che le guerre le hanno fatte gli uomini? Governano,  spadroneggiano, fanno a gara tra loro per chi esibisce più potere. C’è una carta dei Tarocchi, l’Imperatore, che non riesce proprio a starmi simpatica. Mostra un signore seduto su un trono con uno scettro, l’aria paternalista dell’uomo di potere che dice di pensare al bene della nazione. Lo detesto, detesto quel senso di governo e di dominio. C’è stato solo un mazzo che me lo ha umanizzato: lo mostra come un queer in una discoteca, con la sigaretta a mezza bocca e l’aria lasciva, una femmina travestita da maschio. Riesco a tollerare il potere solo facendolo a pezzi, perlomeno quello legato alla forza fisica e ai suoi simboli. La forza fisica non è autorevolezza. La carta della Forza, nei Tarocchi, è un’immagine meravigliosa: una donna doma un leone senza frusta e senza paura, con una mano gli tiene la bocca aperta e dentro infila l’altra. Le pulsioni le obbediscono. Lei ci guarda dritto negli occhi, a differenza dell’imperatore e del suo sguardo obliquo.

 

Cara Nadia,

all’inizio della pandemia, durante il primo lockdown, ho comprato una scatola di candele, quelle bianche, da chiesa, una cinquantina. La catastrofe che ci aveva appena investito, non sapevo inquadrarla nel nostro tempo, non pensavo alla peste del Manzoni, pensavo al coprifuoco, come nei libri di guerra che avevo letto, nel romanzo di guerra che avevo scritto, e coprifuoco per me significava buio. Io ho paura del buio, così ho comprato delle candele.

Me n’ero dimenticata, in questi due anni, poi, quando è scoppiata la guerra, sono andata a cercarle. Le avevo conservate nell’armadietto del mio studio, dove tengo gli attrezzi per lo yoga e il pilates, e i miei disegni (quelli di viaggio, contro la claustrofobia dei finestrini sigillati, del volo; quelli che facevo nel lockdown, ogni sera, contro una paura così nuova e diffusa che non sapevo darle nome). Fino al dicembre del 2020 amavo accendere candele in chiesa, era un rito pagano e un po’ estetico, poi ho smesso, del tutto. Non mi sento più forte, anzi. Mi sento più nuda, e perciò più sincera. Se morissi adesso, la sola cosa che mi importerebbe è che ho nel computer un romanzo non finito – mi dispiacerebbe fosse pubblicato incompiuto. È l’unico controllo che posso esercitare nella vita: scrivere. E se per qualche ragione fossi costretta a farlo solo nella testa, come il protagonista di Ieri di Agota Kristof, la buona notizia, amica mia, è che si può fare anche al buio.

Nadia Terranova (Messina, 1978), scrittrice. Ha pubblicato i romanzi “Gli anni al contrario” (Einaudi 2015, vincitore del premio Bagutta Opera Prima e del The Bridge Book Award), “Addio fantasmi” (Einaudi 2018, finalista al Premio Strega 2019), “Trema la notte” (Einaudi 2022), la raccolta di racconti “Come una storia d’amore” (Giulio Perrone Editore, 2020), e diversi libri per ragazzi tra cui “Aladino” (Orecchio Acerbo 2020, illustrazioni di Lorenzo Mattotti) e “Il Segreto” (Mondadori 2021, illustrazioni di Mara Cerri). È appena nata sua figlia Luna.

Rosella Postorino (Reggio Calabria, 1978), scrittrice e editor. Ha pubblicato i romanzi “La stanza di sopra” (Neri Pozza, 2007, Premio Rapallo Opera Prima), “L’estate che perdemmo Dio” (Einaudi, 2009, Premio Benedetto Croce), “Il corpo docile” (Einaudi, 2013, Premio Penne), e il reportage “Il mare in salita” (Laterza, 2011). Il suo romanzo “Le assaggiatrici” (Feltrinelli, 2018), tradotto in 33 lingue, ha vinto il Premio Campiello. Ha scritto il libro per bambini “Tutti giù per aria” (Salani, 2019).