Cerca

In morte della civiltà della conversazione

Benedetta Craveri ha codificato quest’arte al suo crepuscolo, “Borotalco” ne ha vaticinato la fine. Critici autocertificati, bambini, chat di WhatsApp e mitomania dei non interessanti: la colpa è nostra che cerchiamo l’alta società parigina nel tinello di Nocera Inferiore
di Guia Soncini
illustrazioni di Makkox

La conversazione non era solo una fuga dal mondo: era un’educazione al mondo. (Benedetta Craveri, “La civiltà della conversazione”, Adelphi, 2001)

Siamo stati gli ultimi. Gli ultimi a chiamare e a chiedere signora, per piacere, posso parlare con sua figlia. Gli ultimi a sentirci dire non si chiama all’ora di cena. Gli ultimi a sentirci chiedere si può sapere cos’avete da dirvi che vi siete viste stamattina a scuola. Gli ultimi a fare allenamento. Poi, a un certo punto, abbiamo mollato anche noi. Arresi alla messaggistica, ai social sui quali raccontare un aneddoto non interessante della tua vita sotto il link d’un articolo che non hai letto, alla mancanza di curiosità, all’estinzione di quella brutta fatica che era capire gli interlocutori e non farli morire di noia. Tutta roba scomparsa con una definitività che neanche i salassi.

Com’è potuto succedere? Com’è che ora, se squilla il telefono e tocca, santo cielo, parlare con qualcuno, ci spaventiamo anche noialtre, cresciute trovando il coraggio di chiedere al padre di quello che ci piaceva se per favore ce lo passava, sì lo so che deve ripassare latino è una cosa veloce promesso? Com’è che diciamo “ma ti rendi conto, ha chiamato senza prima chiedere su WhatsApp se poteva telefonarmi” e tutti annuiscono serissimi invece di chiamare il reparto di neuropsichiatria? Se non sappiamo più far conversazione noialtre, che speranza può mai esserci per i nostri figli, cresciuti con un cellulare che taglia fuori gli intermediari, cresciuti senza mai aver dovuto avere una conversazione che non volessero avere, cioè una conversazione non fatta di emoji e monosillabi e grugniti e gif?

Fino al termine della sua vita, con una disciplina inflessibile, senza mai lasciarsi piegare dai lutti familiari, dalle disfatte militari, dalle carestie, dall’isolamento della Francia nella scacchiera della politica europea, Luigi XIV avrebbe mantenuto, quasi invariato, il calendario dei divertimenti di corte, limitandosi, negli anni della vecchiaia, a non prendervi parte di persona. Ma non vi era volontà reale capace di impedire che, sotto il peso di un conformismo crescente, monotonia e noia s’installassero a Versailles.

Quest’anno Borotalco ha compiuto quarant’anni. Ve lo ricordate perché è il film in cui Carlo Verdone ci svelò ciò che eravamo: mitomani; ma forse non vi ricordate una scena marginale in cui ci svelò ciò che saremmo diventati: incapaci d’avere una conversazione interessante. Ciò che sto per raccontarvi costituisce, per i più inattrezzati conversatori, “spoiler”: il momento in cui qualche fellone vi svela che Ulisse torna vivo da Penelope, rovinandovi la sorpresa proprio ora che meditavate di mettervi in pari con la lettura.

Nel sottofinale di Borotalco, Verdone ha smesso di mitomaneggiare in giro e s’è accasato con la figlia del salumiere, Roberta Manfredi: si sono sposati, hanno un figlio, una ordinaria vita di piccolissima borghesia. È mattina, lei si sta mettendo lo smalto ai piedi ed è al telefono con la madre. “Ma che ne so, ma’: me sento ’na shtanchezza. Sarà ’sto tempo”. Non sono i convenevoli prima d’una conversazione interessante, non è l’amuse-bouche: è la pietanza. È ciò che saremo quando ci apriranno i social e ne faremo posti in cui, se il marito della Ferragni si riprende dal proprio riconoscibilissimo terrazzo con dietro i riconoscibilissimi grattacieli milanesi, noi lasciamo nei commenti la domanda “Sei al mare?”: gente che non ha intenzione di sforzarsi di risultare interessante, e tuttavia pretende quell’attenzione che si rifiuta di prestare.

Poco dopo (in Borotalco, non sul terrazzo di casa Ferragni) Verdone entra reggendo il neonato che gli ha fatto la pipì addosso, “io con ’sto vestito ci devo lavorare”, e la moglie fa una cosa che faceva ridere nel 1982 ed è documentaristica adesso: conversazione con un neonato. “Gli hai fatto la piscia addosso?”. Non a caso siamo l’epoca che ha deciso di dare rilievo sociale ad animali e bambini non avendo perlopiù bisogno di nessuna delle due categorie per mandare avanti i campi e per la sussistenza: facciamo conversazione con animali e bambini perché sono due categorie non esigenti verso il livello della conversazione. I cani e i treenni non sono in grado di contestare la nostra disinformata opinione su quel romanzo, le nostre frasi fatte sul mondo, la nostra incapacità di notare i dettagli. Eravamo bambini che dovevano per forza imparare a parlare coi grandi, se volevano avere accesso ai coetanei; siamo diventati adulti che parlano con gli adulti solo se sono genitori di bambini che frequentano i nostri, e che comunque non si vergognano di dire che preferiscono la compagnia dei piccoli: “Mio figlio ogni giorno mi insegna qualcosa”, scrivono con assoluta serietà adulti che su Instagram festeggiano il compleanno della prole cinquenne, e nessuno ha la maleducazione di chiedersi quanto possa essere interessante un adulto cui un cinquenne abbia cose da insegnare.

Ogni volta che un adulto dichiara che la sua persona preferita con cui trascorrere il tempo e parlare di tutto (di tutto) è un figlio cinquenne o quindicenne o venticinquenne, io penso alla stupendezza di quella scena raccontata da Emanuele Salce, in cui il patrigno Vittorio Gassman diceva all’Emanuele seienne che non aveva una conversazione interessante. E il fatto che io questa cosa ve l’abbia già citata mesi fa è la miglior prova che conversazione l’è morta: ormai anche i più pretenziosi di noi hanno una panchina cortissima di repertorio, e non sentono di doversi sforzare come si sforzavano di essere all’altezza dei convenevoli coi genitori degli amichetti. C’è stato un bislacco contagio al contrario: dopo un’infanzia normale, in cui dovevamo adeguarci agli adulti, un’adultescenza in cui, invece di influenzare i ragazzini, ne siamo stati influenzati. Siamo diventati i nostri figli, a forza di fare le vocette e dir loro che erano interlocutori interessantissimi. Ci siamo trasformati in quel che saranno loro da grandi: gente cui, da piccola, nessuno ha mai detto che non era interessante; gente cui è stato sempre detto che era bravissima e bellissima e poteva ottenere qualunque cosa desiderasse; gente noiosissima che, appena non viene trattata come il piccolo imperatore, mitomaneggia d’avere la sindrome dell’impostore.

Tornando a Borotalco. Quando Verdone esce di casa, la moglie gli urla “Ricòrdati il sale: quello grosso, no fino”: si ha la sensazione che sia il picco di scambio intellettuale che avranno nel corso della settimana, e la rappresentazione plastica di quel che intendeva Thoreau quando diceva che le masse vivono vite di silenziosa disperazione.

Questa apparente naturalezza andava di pari passo con una consapevolezza senza uguali e un costante esercizio di autoanalisi.

Molti anni fa m’invitarono a cena in una casa di ricchi. In me dorme un sonno leggerissimo il leghista di 1992. Il leghista di 1992, interpretato dal sommo Guido Caprino, è quel personaggio che a un certo punto viene invitato a una festa che un’aristocratica romana dà in casa, e porta una vaschetta di gelato; giacché (nessuno ce lo dice, ma i momenti mirabili non hanno bisogno di spiegazioni: il pubblico se le dà da solo) nella piccolissima borghesia di provincia in cui è cresciuto gli hanno detto che non ci si presenta a mani vuote. L’aristocratica guarda la vaschetta di gelato come fosse un topo morto, e guarda il leghista come fosse quello che le ha portato il topo morto in casa. Insomma, il mio accompagnatore sapeva della leghista di 1992 in me, e mi avvertì di cosa volevano da me (da tutti) i padroni di casa. Mi disse: “A casa loro si è ospiti graditi se si porta un pettegolezzo interessante”. Per anni pensai me l’avesse detto per prevenire la ridicola tragedia della ragazza di provincia che si presenta a una cena d’un certo livello con una bottiglia di vino (bianco, caldo). Solo negli ultimi anni, a civiltà della conversazione morente e poi morta, ho capito che aveva detto la verità, e che i ricchi avevano ragione: gli argomenti di conversazione sono la cosa più preziosa che si possa portare a un desco. Reale o figurato. Lo sapeva, per istinto, persino Rossella O’Hara, non precisamente un’intellettuale. “Perdindirindina. Guerra, guerra, guerra. Non ci si diverte più da nessuna parte con questi discorsi. Ne ho fino alla cima dei capelli”. La prima cosa che ci dice Via col vento della sua protagonista è: in sua presenza, non siate conversatori noiosi.

D’accordo, basta fingere di non vedere l’ingombrante fantasma. Parliamone. Parliamo delle chat di WhatsApp.

Sono una privilegiata. Sono una donna senza figli, e già nel secolo scorso questa era una forma di privilegio; in quello corrente, significa non avere l’assillo delle chat di classe. Le chat di classe sono come l’evasione fiscale e le raccomandazioni: i cattivi son sempre gli altri, e noi sempre i narratori innocenti che osservano attoniti le brutture del mondo. È un mistero misterioso chi mai alimenti queste chat in cui madri s’indignano per i soldi della gita di classe, padri s’isterichiscono sul voto basso dato al loro angioletto, e un po’ tutti (gli altri) hanno reazioni spropositate rispetto a una matita scomparsa o a una torta non vegana portata per il compleanno d’un compagnuccio. I genitori che conosciamo noi, loro giurano tutti di osservare silenti lo zoo di vetro che dà il peggio di sé. Quelli che conosciamo noi non evadono mai le tasse.

Ma ci sono altre chat, e per quelle non abbiamo la scappatoia di dire che ci sacrifichiamo per la vita sociale della prole. Ci sono le chat di amici, e in esse c’è sempre – sempre – un conversatore scarso. Almeno uno. Il conversatore scarso lo riconosci perché pretende d’essere intrattenuto. Il suo massimo contributo alla conversazione è “me sento ’na shtanchezza”, poi però si scoccia se gli altri partecipanti non lo omaggiano d’un pettegolezzo, un link, uno spunto. A volte entro sera quella foto, quella notizia, quel dettaglio lo ricevi in un’altra chat, da qualche conoscente del conversatore scarso.

In casi come questi il conversatore scarso è un evasore fiscale col reddito di cittadinanza, è uno sfruttatore di benefattori, è il ricettatore di gioielli che il derubato aveva risparmiato una vita per comprare, ma soprattutto è l’individuo che rompe il giocattolo: quindi non è che non capisci l’importanza di raccontare cose interessanti, non è che manchi della comprensione delle priorità, non è che poverino non ci arrivi; è che non ti va di applicarti.

Méré era il primo a teorizzare l’importanza del saper intuire la personalità di colui con cui ci si voleva intrattenere: questo implicava un’agguerrita scienza psicologica, e serviva a entrare in sintonia con l’intelligenza dell’interlocutore per incoraggiarlo a prendere a sua volta la parola e consentirgli di dare il meglio di sé. Come ribadivano sia La Rochefoucauld che La Bruyère, per avere successo nella conversazione bisognava in primo luogo lasciar brillare gli altri, e la migliore affermazione di sé passava attraverso la gratificazione dell’amor proprio delle persone con cui si parlava.

Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, io penso fortissimo a Benedetta Craveri. Che ventun anni fa si è presa il disturbo di raccontare come andassero le cose quando la conversazione era un’arte, e probabilmente l’ha fatto perché stava crollando tutto (mica ti viene voglia di codificare una civiltà, se non ne percepisci la fine). Penso alle righe qui sopra, che oggi sono diventate il box domande su Instagram: tu mi segui non perché t’importi qualcosa di me o delle mie opere (al massimo dei miei cappuccini e delle mie vacanze, certo non dei miei libri o quadri o dischi), e io ti gratifico dandoti voce. Eccoti, sei al centro dell’attenzione, domandami come risolvere i tuoi problemi sentimentali, io ti darò retta e tutti coloro che leggono me sapranno che esisti: è per questo che sei seduto in platea, per stare sul palco.

Solo che nel mondo raccontato da Benedetta Craveri gli interlocutori erano brillanti, e gratificarli ne stimolava la capacità d’intrattenerci. Il box domande di Instagram sta alle conversazioni cui si riferiva La Rochefoucauld come il Grande Fratello sta a Gassman che legge Dante: entomologicamente interessante in maniera del tutto imprevedibile e discontinua, ma non qualcosa su cui punteresti per una serata in cui essere certo di venire intrattenuto. Apri il box domande di Instagram e il paese reale ti chiede cose così assurde da risultare divertenti, ogni tanto; più spesso, ti dice “me sento ’na shtanchezza”.

Quando cominciai a lavorare alla radio, a metà degli anni Novanta, la prima regola che t’insegnavano era: i messaggi degli ascoltatori non si leggono. I cinque secondi in cui gratifichi Antonio da Nocera Inferiore leggendo la sua banalità sono cinque secondi in cui annoi due milioni di persone che ti stanno ascoltando e che non sanno chi sia Antonio da Nocera Inferiore; due milioni di persone che cambiano canale perché stai leggendo una banalità. Sembra di parlare di fantascienza: adesso tutte le tv, tutte le radio, tutta la comunicazione si fa quasi solo coi messaggi della platea. Perché sono gratis, certo, mentre un professionista che scriva un testo non banale pretenderà d’essere retribuito. Ma anche perché Antonio da Nocera Inferiore è tutti: ha i problemi di tutti, ha il lessico di tutti, somiglia a tutti, non fa sentire inferiore nessuno. Ha un’opinione sull’ultima serie di Netflix e perciò si sente informato, sa che non si dice “a me mi” e perciò si considera istruito. Antonio siamo noi, nessuno si senta offeso. Se il messaggio di Antonio passa in sovrimpressione, so che ci può passare anche il mio, so che non è un programma snob che non dà voce a noi gente vera, so che un Antonio vale uno.

A un certo punto della Civiltà della conversazione, Lord Chesterfield raccomanda al figlio di leggere romanzi per “capire il tono dell’alta società parigina”. Siamo a metà del Settecento, quindi il romanzo è un’invenzione che ha un quarto d’ora di vita. Ma forse il guaio era cominciato già col teatro. Una delle domande che mi faccio più spesso è se, all’uscita dai teatri nei secoli che non abbiamo vissuto, le conversazioni fossero irritanti come lo erano quelle fuori dai cinema nel Novecento. Tutti critici autocertificati, tutti depositari delle vere intenzioni degli autori, tutti perentori nei loro giudizi. Una delle domande che mi faccio più spesso è se il guaio sia la confusione tra essere istruiti ed essere colti. Pronti a ridere della scena di Io e Annie in cui il diligente citatore di McLuhan si ritrova rimbrottato da McLuhan che gli svela quanto poco abbia capito del suo pensiero: pronti a riderne perché c’illudiamo d’essere McLuhan, mica l’ottuso istruito.

Se Antonio da Nocera Inferiore non avesse un’opinione sullo sceneggiato che va di moda in questo momento, ma si limitasse a invocare il sale grosso, no fino, sarebbe meno insopportabile? Se il tizio che avrebbe fatto la tal cosa al posto del re, e l’altro tizio che al posto del conte d’Artois avrebbe detto la tal altra cosa al re, citati da Talleyrand nei suoi Mémoires, ci sembrano brillanti come personaggi di Choderlos de Laclos, e non dei disgraziati come i nostri cognati che a cena ci spiegano come ottenere la pace nel mondo e perdere cinque chili in quattro giorni, di chi è la colpa? Di quello che Arbasino chiamava “Effetto Intimidatorio dei Classici”? Del cognato che non capisce il tono dell’alta società parigina? O di noialtri che siamo così impostori da ostinarci a cercare l’alta società parigina nel tinello di Nocera Inferiore?

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).