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La bruttezza non salva il mondo dalla scemenza

La meravigliosità altera di Greta Garbo, anteprima del socialismo, e il potere del volto. Brutale duello tra Naomi Wolf e Camille Paglia sulla più invalicabile delle diseguaglianze: la bellezza. Il centro di adeguamento facciale e altre distopie che insultano l’intelligenza in nome della giustizia estetica

Qualcuno ha detto che i brutti sono l’ultima frontiera del socialismo, ma che ne sono anche la frontiera invalicabile. Sono infatti colpiti da un’ingiustizia a cui non c’è rimedio, vittime di una disegueglianza inappianabile, esclusi per capriccioso decreto darwiniano dall’aristocrazia naturale della bellezza. Non tutti i socialisti, però, l’hanno sempre pensata allo stesso modo. Leggiamo le pagine che l’ungherese Béla Balázs, poeta e teorico del cinema, dedicò alla fine degli anni Quaranta al volto nobile e altero di Greta Garbo. Balázs esordiva ricordando che la bellezza degli eroi o delle eroine è una manifestazione biologica della selezione naturale, ma che da sempre l’arte la sublima in un’espressione fisiognomica di valori spirituali. Le civiltà che non hanno un’epica e non coltivano un ideale di bellezza sono civiltà in decadenza, incapaci di autotrascendersi, di proiettarsi in una sfera superiore. E qui, con allure da grande diva, entrava in scena la Garbo. La sua bellezza triste e oltraggiata, da regina esiliata in terra straniera, esprimeva una muta condanna della mediocrità circostante. “La bellezza della Garbo è, nel mondo borghese, una bellezza di opposizione”, sentenziava un po’ goffamente il marxista Balázs; ma era proprio questa apparente intrattabilità della diva, questo rifiuto di venire a patti con un mondo corrotto, a instillare negli spettatori uno struggimento senza forma, il desiderio inarticolato di una vita diversa, e a far sì che preferissero la Garbo ad altre e più sorridenti attrici di Hollywood, felicemente acclimatate nella società capitalistica, che non tradivano nei lineamenti neppure un’increspatura di alienazione. Anche il piccolo borghese privo di coscienza politica percepiva in quella fisionomia divinamente afflitta la promessa di “un’umanità più altamente organizzata”; altro modo per dire che un primo piano di Greta Garbo era, niente meno, un’anteprima della società socialista. Chissà se Balázs, negli anni in cui era esule in Unione Sovietica, aveva trovato il modo di vedere Ninotchka, la satira antistaliniana di Ernst Lubitsch del 1939 in cui la diva, per la prima volta, recitava in una parte tutt’altro che tormentata, tanto che la frase di lancio del film era: Garbo laughs! Come che sia, i corni del nostro dilemma dovrebbero essere chiari: la bellezza è solo un ultimo privilegio da abbattere, un baluardo della reazione, o può essere la sneak preview di un mondo migliore?

Per la prima tesi propendeva Il mito della bellezza, un libro del 1990 che dopo una lunga eclissi (l’edizione Mondadori era diventata introvabile perfino nel circuito dell’usato) è tornato di recente sugli scaffali italiani grazie all’editore Tlon. L’autrice, Naomi Wolf, sosteneva che le immagini della bellezza femminile sono usate come arma politica contro le donne, uno strumento del backlash del patriarcato ferito per frenare i progressi ottenuti grazie alle lotte dei decenni precedenti. Il mito della bellezza ha preso il posto della “mistica della femminilità” teorizzata da Betty Friedan, l’immagine della donna madre e angelo del focolare. Si presenta anch’esso come naturale, diceva Wolf, ma non lo è affatto: perché non esiste una qualità universale o evolutiva chiamata bellezza, ma solo una costruzione sociale che serve a mantenere gerarchie di potere, e che opera sulle sue vittime come uno strumento di tortura. Precisamente come una iron maiden, una vergine di ferro: chi accetta di entrare in questo sarcofago antropomorfo per conformarsi all’immagine socialmente prescritta della donna perfetta finisce stritolata. L’intuizione era accattivante, l’esecuzione tuttavia lasciava molto a desiderare. Camille Paglia, che nello stesso anno aveva pubblicato il suo opus magnum Sexual Personae – un libro che sta al Mito della bellezza come il diavolo all’acqua santa, e che è tornato in questi mesi nelle librerie italiane, passando da Einaudi alla Luiss University Press – disse che Naomi Wolf non sapeva nulla né di mito né di bellezza, che la sua incapacità di fare ricerca storica o di scrivere un paragrafo coerente era una prova del fallimento dell’istruzione universitaria, e che l’idea della bellezza come arma di una controffensiva patriarcale era rozzamente cospiratoria. In effetti, per quanto Wolf si affannasse a chiarire, nella prefazione all’edizione paperback, che la sua non era una teoria del complotto, il suo libro suonava in molti punti come una denuncia contro cospiratori ignoti o ignari – forze sociali, politiche ed economiche oscuramente coalizzate per rimettere le donne al loro posto.

Il tempo sembra aver dato ragione a Camille Paglia, specie se consideriamo le successive vicende di Naomi Wolf: il piccolo caso accademico-editoriale nato intorno al suo recente libro Outrages ha messo una pietra tombale sulla sua già vacillante credibilità di studiosa, e la sua vena cospiratoria è sfociata in bizzarre teorie sui vaccini che ne hanno fatto una compagna di strada dei trumpiani più arrabbiati. Ma al di là del valore impari delle combattenti, il duello era limpidamente delineato. Paglia, una femminista intellettualmente iconoclasta quanto esteticamente iconolatra, vedeva nella bellezza una potenza numinosa e originaria, un colore primario dell’esperienza umana, irriducibile a criteri di altro ordine, legata al potere da nessi ben più mobili e misteriosi di quelli denunciati dal femminismo accademico. Ambiva a riportare la venerazione e il perseguimento del bello al cuore del riscatto delle donne, e temeva che il femminismo finisse per considerare l’estetica attraverso la sola lente del risentimento, in uno stato di perenne soggezione verso uno sguardo maschile che le sembrava, anch’esso, una fantasia cospiratoria. Wolf, a dispetto della grossolanità della sua tesi e dell’impalcatura pericolante di dati e di fonti su cui tentava di fondarla, sul lungo periodo ha però avuto la meglio, e ha ispirato un’alluvione di saggi, articoli, conferenze e Ted Talk sul nesso tra bellezza, potere e privilegio; e se oggi nel catalogo dei pregiudizi da estirpare non manca mai il lookism, la discriminazione in base all’aspetto, lo dobbiamo anche al suo libro, uno dei testi più influenti del femminismo della cosiddetta terza ondata. Ma l’impressione è che le due contendenti parlassero, almeno in parte, di cose diverse: spesso le loro spade fendevano l’aria senza incrociarsi.

A rigore, un duello simile era stato già combattuto trent’anni prima, quando Camille Paglia era poco più che bambina e Naomi Wolf non era neppure nata. Era infatti al centro di un romanzo distopico-fantascientifico del 1960: Giustizia facciale di Leslie Poles Hartley, pubblicato in Italia da Liberilibri, che Anthony Burgess annoverava tra i grandi romanzi inglesi del Novecento. Nel futuro immaginato da Hartley, i superstiti della Terza guerra mondiale vivono sotto l’ala materna di una dolce dittatura che per sventare nuovi conflitti ha creato un sistema di welfare repressivo fondato su due poli morali, la buona e la cattiva E, Equality ed Envy (nella traduzione italiana, Identità e Invidia). Tra le diseguaglianze più difficili da sradicare c’è naturalmente quella estetica. Chi ha un eccessivo “privilegio facciale” (le donne Alfa) ma anche chi ne è priva (le donne Gamma) è costretta a rivolgersi a un Centro di Adeguamento Facciale e a sottoporsi a un intervento chirurgico che la trasformi in donna Beta, adottando una faccia standard prodotta in serie e ricoperta dal surrogato “Pelle Vittoria”, con il trucco già fatto, insensibile ai baci. In questo modo la cattiva I dell’invidia è messa a tacere, e la buona I dell’identità egualitaria trionfa, salvaguardando la pace sociale. Ma la protagonista, una donna Alfa di nome Jael 97 (in questo sistema basato sulla mortificazione, in cui i cittadini sono catalogati come Pazienti o Delinquenti, tutti sono costretti ad adottare il nome di qualche assassino storico o leggendario, nella fattispecie la Giaele biblica), non vuole rinunciare al proprio volto, tanto più che sperimenta il suo momento Camille Paglia: vede stagliarsi su questo incubo orizzontale una delle poche costruzioni verticali rimaste, la torre in rovina della cattedrale anglicana di Ely, e l’epifania vertiginosa della bellezza la induce a scatenare una lunga lotta contro la facial justice, formula che ha un’assonanza fin troppo evidente con social justice.

Intorno a fantasie come quella di Hartley sono state composte negli anni molte variazioni (una su tutte, Le sirene di Titano di Kurt Vonnegut, dove “c’erano donne che avevano ricevuto, per un colpo di fortuna cieca, il terrificante vantaggio della bellezza. Avevano annullato quell’ingiusto vantaggio con vestiti miseri, portamento inelegante e un uso spettrale dei cosmetici”). Ma nessuna più intelligente, lungimirante e sottile di quella di Ted Chiang, forse il più grande scrittore di fantascienza contemporaneo (suo è il racconto da cui è tratto il film Arrival di Denis Villeneuve), che ha scritto nel 2002 Amare ciò che si vede: un documentario, raccolto nel volume Storie della tua vita (Pickwick editore). E’ un racconto a più voci, proprio come se fosse la trascrizione di un documentario televisivo, e a differenza del romanzo di Hartley non sceglie una tesi, ma le dispone tutte sul tavolo da gioco. L’Università di Pembleton, dietro la spinta dell’associazione Studenti per la Parità Totale, valuta se richiedere ai suoi iscritti di adottare la “calliagnosia”, ossia di assumere un farmaco programmabile, il neurostat, che blocca in modo reversibile i canali neuronali deputati al riconoscimento della bellezza dei volti. Chi si sottopone a questo trattamento è ancora capace di distinguere i tratti somatici, ma non ha reazioni di nessun tipo al fattore della bellezza, è sottratto al suo fascino imperioso. L’Associazione Nazionale per la Calliagnosia ha in testa alle sue priorità la lotta agli usi pubblicitari della bellezza – il suo presidente fa discorsi che suonano a tratti come il libro di Naomi Wolf – ma gli studenti progressisti di Pembleton ne fanno una questione di giustizia sociale, e si considerano l’avanguardia di una rivoluzione che sconfiggerà ovunque il lookism.

Nel suo mockumentary letterario Ted Chiang riporta i dibattiti tra gli studenti, gli estratti dei notiziari, i resoconti delle lotte politico-aziendali e delle azioni di sabotaggio, i pareri degli scienziati, degli specialisti e dei professori di Pembleton. Tra questi, spicca uno studioso di letterature comparate piuttosto polemico, che arringa così: “L’idea stessa che la bellezza sia qualcosa da cui doverci proteggere è un insulto all’intelligenza. Di questo passo, presto un’organizzazione studentesca ce la metterà tutta per imporre a chiunque un’agnosia di tipo musicale, così da non farci sentire a disagio ascoltando un cantante o un musicista di talento. Quando guardiamo le Olimpiadi, gli atleti in gara minano forse la nostra autostima? Certo che no. Al contrario, suscitano meraviglia e ammirazione, e sapere che esistono simili individui eccezionali ci è di stimolo. Dunque perché non dovremmo provare lo stesso davanti alla bellezza? A dar retta alle femministe, dovremmo chiedere scusa per avere questo tipo di reazione. Vorrebbero fare dell’estetica una questione politica, ma se ciò si realizzasse, ci ritroveremmo impoveriti tutti quanti”. Ebbene, questo discorso immaginario mi suonava familiare. Così familiare che con buona pazienza ne ho rintracciato la fonte: è una parafrasi appena camuffata di una lezione sulla crisi dell’università americana che Camille Paglia tenne al Massachusetts Institute of Technology nel settembre nel 1991, e precisamente di uno dei molti passaggi che avevano come bersaglio polemico Il mito della bellezza di Naomi Wolf. Solo dopo mi sono accorto che il professore ipotetico a cui Ted Chiang mette in bocca queste parole si chiama, guarda un po’ la coincidenza, Daniel Taglia.

Guido Vitiello (Napoli, 1975), scrittore, ricercatore e docente universitario. Insegna Cinema alla Sapienza di Roma. I suoi ultimi libri sono «Una visita al Bates Motel» (Adelphi, 2019) e «Il lettore sul lettino» (Einaudi, 2021).