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La cosa più divertente che abbiamo fatto assieme

Greta Gerwig e Noah Baumbach erano due icone indie, oggi dopo «Barbie» hanno il mondo ai piedi. Sono l’uno musa dell’altra, i loro personaggi prendono vita dai difetti e dai malfunzionamenti, la malinconia esistenziale di lui si unisce alla gioia pop di lei, sempre sul punto di inciampare, confusa, precisa, bellissima. La nuova umanità e i rollerblade

Già un po’ di tempo fa Hollywood Reporter li aveva definiti «the first couple of film», ma ora, dopo Barbie, hanno il mondo ai loro piedi. Greta Gerwig e Noah Baumbach hanno quattordici anni di differenza, due bambini, alcune candidature agli Oscar, qualche Golden Globe, e molti film fatti, pensati, progettati insieme. Fino a qualche anno fa erano due tipi da “Sundance”. Icone del cinema indie, anzi mumblecore, come si dice oggi (se non volete sentirvi vecchi parlate con disinvoltura di “quei film mumblecore in bianco e nero, pieni di dialoghi strampalati, ad alto tasso di stratificazione semiotica, con hipster di Williamsburg, scrittori di racconti, antropologi che suonano l’ukulele, critici teatrali, gruppi di sostegno, gruppi di donne incinte che si riuniscono per leggere e analizzare Faulkner e Derrida, documentaristi depressi che tengono seminari alla NYU e vivono in case vuote a Brooklyn o Tribeca”). La prima volta che ho sentito parlare di un film della Mattel su Barbie, con Margot Robbie e Ryan Gosling, diretto da Greta Gerwig, scritto insieme a suo marito, Noah Baumbach, ho pensato semplicemente che fosse una follia senza senso. Un conto è fare film per il grande pubblico, altro è infilarsi in operazioni strampalate che suonano come uno scherzo. Cosa c’entravano gli autori di film come Frances Ha e Mistress America con Barbie? Come ne sarebbero usciti? E poi un film su Barbie? Sul serio?

Ovviamente non solo mi sbagliavo, ma adesso penso che oltre a Biancaneve in liveaction, nuovo progetto di Greta Gerwig, dovrebbero affidare a Baumbach e Gerwig anche tutti i prossimi 007, Avengers, Fast and Furious e i film della Pixar (del resto nel curriculum di Baumbach ci sono anche sessanta delle novantacinque pagine di sceneggiatura di Madagascar 3). Ragionavo naturalmente secondo un cliché che denuncia la mia struttura mentale formata nel Novecento. L’artista che finisce stritolato nel gigantesco marchingegno hollywoodiano, alla guida di una macchina impersonale, brandizzata, con budget stratosferici che gli tolgono il controllo sul film, secondo l’archetipo di Dune di David Lynch, il suo film più hollywoodiano e il suo film più brutto, oltre che tra i più brutti degli anni Ottanta, e un flop colossale, grazie a cui Lynch capì che nonostante i tanti soldi messi sul piatto da De Laurentiis quella roba non era per lui, oppure semplicemente non la sapeva fare. Ma questa eventuale contrapposizione novecentesca tra un blockbuster della Mattel e i film indie-mumblecore antihollywoodiani della prima Greta Gerwig è una cosa che ai suoi fan ventenni non interessa. Credo neanche la colgano. Di sicuro non si scandalizzano, beati loro.

Va detto però che non ero il solo a pensarla così. In molti credevano che Barbie fosse una follia. Soprattutto l’ha pensato Noah Baumbach, che non a caso è del 1969 e ha quattordici anni più di lei. «Le dicevo: andrà a finire male, è una pessima idea, non c’è un personaggio, non c’è una storia, non c’è niente». Baumbach cominciò anche a fare telefonate di nascosto alla produzione per tirare entrambi fuori dal progetto. Ma dopo aver letto le prime pagine della sceneggiatura si è convinto («era la scena in cui Barbie si sveglia nella dreamhouse, esce in giardino e incontra una persona ammalata e moribonda»). A quel punto pensò che Barbie non fosse solo un film su Barbie ma sulla mortalità, su una crisi esistenziale, sull’irrompere del pensiero della morte e sull’horror vacui che si insinua anche nelle esistenze apparentemente perfette. E poi era un coming-of-age modellato su Pinocchio, col patriarcato al posto di Mangiafuoco. Insomma, ci si poteva divertire. Così è venuta fuori quella che oggi ritiene la loro sceneggiatura migliore, «la cosa più divertente che abbiamo mai fatto assieme». Ma poi era vero che Barbie non avesse nulla a che fare coi loro vecchi film? Più no che sì, anzi decisamente no. A prima vista i personaggi dei film scritti da Greta Gerwig e Noah Baumbach sembrano parodie gonfiate di tipi usciti dai racconti di Foster Wallace o Sally Rooney. Insomma, proprio come Barbie sono degli stereotipi. Però sono difettosi, non funzionano come dovrebbero. E ci si rende conto che sono proprio questi difetti a renderli vivi.

Tutto in Barbie comincia da questo malfunzionamento, dai pensieri di morte, dai piedi piatti, dalla cellulite, dalle Birkenstock (uno dei product placement più geniali degli ultimi anni). Nei film di Baumbach e Gerwig i personaggi si affidano spesso agli altri per capire chi sono. C’è la voglia di condividere insieme incertezze, insicurezze, confusione, ansie, paure. Poi capiscono che devono farcela da soli. Devono smettere di esistere solo in funzione dello sguardo di qualcun altro. Devono diventare adulti, devono diventare persone vere, autosufficienti. Non è forse questo anche il dramma di Ken, bambolotto da spiaggia progettato in funzione di Barbie, con quel suo straziante lamento finale? Ecco, si può dire così: in Barbie ci sono le crisi esistenziali dei film di Baumbach, la malinconia, la cupezza di Storia di un matrimonio; e c’è l’evanescenza, la sorellanza, la gioia pop di Greta Gerwig. Come nel suo luminoso ingresso in scena in Mistress America, quando scende le scale di Times Square, e sembra sempre sul punto di inciampare, ma è bellissima, precisa e imperfetta.

Le giovani donne interpretate o dirette da Greta Gerwig hanno grandi o smodate ambizioni: Frances Ha sogna di diventare una grande ballerina, ma non è a suo agio col proprio corpo, le appare goffo, sgraziato, più un corpo da screwball comedy che da étoile.

Brooke Cardinas, in Mistress America, vuole aprire «un ristorante dove tutti si sentano a casa», più una comune hippie che un’impresa. Lady Bird vuole mollare la provincia e vuole farcela a New York. Sono ambizioni a volte romantiche, confuse, in fase di costruzione, di chi ancora sta cercando il proprio posto nel mondo. Il tema ricorrente, ha scritto Cecilia Strazza in un piccolo libro dedicato a Greta Gerwig, «è l’esperienza iniziata, il suo evolvere, non il suo concludersi». Sono sempre donne che cercano di corrispondere non a ciò che gli uomini o la società si aspettano da loro, ma agli ideali letterari e culturali che si sono imposte. E tutto questo “desiderio in cammino” le rende così spregiudicate, moderne, fragili. Infatti corrono, corrono in continuazione. Frances Ha corre sui marciapiedi di Brooklyn. Ma non è quel tipo di corsa da finale delle commedie romantiche americane, come Shirley McLane che alla fine di The Apartment molla tutto e corre da Jack Lemmon che sta facendo le valigie, solo e triste, per andarsene via. Frances Ha corre e basta. È la cosa che le viene meglio nel film. Corre anche Jo March, all’inizio di Piccole donne, radiosa dopo aver venduto il suo primo racconto al signor Dashwood. Questo ennesimo adattamento dal romanzo di Louisa May Alcott era la prima trappola insidiosa nella carriera di Greta Gerwig, ma lei ne è uscita benissimo, con una versione moderna, intelligente, pratica. Non il solito film in costume tratto da un grande libro. Si è così ritrovata candidata agli Oscar per il miglior film contro suo marito, Noah Baumbach, regista di Storia di un matrimonio (alla fine ha vinto Parasite di Bong Joon-ho, meglio così per entrambi, meglio così per la loro relazione).

Con le imprese attoriali e registiche di Greta Gerwig siamo in piena female exploitation, in quella galassia di Nora Ephron, Carrie Fisher, Lena Dunham, Sofia Coppola, Phoebe Waller-Bridge, Nancy Meyers. Però non saprei immaginare nessuna di loro alle prese con Barbie. Greta Gerwig, nuova icona della New York girl, viene da Sacramento. Qui ha girato e ambientato il suo primo film da regista, Lady Bird, incorniciato in un esergo da Joan Didion: «Chi parla dell’edonismo californiano non ha mai passato un’estate a Sacramento». Anche Greta Gerwig finirà a New York, come Christine “Lady Bird” McPherson, studentessa all’ultimo anno di un liceo cattolico, che non vede l’ora di fuggire da casa e da sua madre. A Sacramento tornerà invece Frances Ha, per ritrovare l’amore dei suoi genitori dopo le sgangherate peripezie newyorchesi, vivendo in case dove il suo nome non entra per intero sul citofono, da cui quell’“Ha” troncato del cognome. Abbandonata Sacramento, Greta Gerwig arriva a NY e studia al Barnard College. La sua passione era il teatro. Recitare, diventare una drammaturga. Niente a che fare con Hollywood, insomma. Oggi però riconosce quanto sia stata utile la lezione e l’esempio di Steven Spielberg, «colui che mi ha insegnato a rendere i film di genere più personali».

Figlio di una coppia di giornalisti-scrittori, padre critico cinematografico, madre firma del Village Voice, Noah Baumbach è invece cresciuto a Brooklyn. Ha studiato nello stesso liceo di Woody Allen. Quando gli domandano quanto Woody Allen ci sia nei suoi film, lui spiega di amare il cinema che piace ad Allen, dice quindi che è logico esserne stato influenzato, «ma a un livello inconscio, senza pensare ai suoi film mentre scrivo». In un video su YouTube Baumbach elenca i suoi film preferiti: Lo straccione (1979), Il paradiso può attendere (1978), Il mondo secondo Garp (1982), E.T. (1982), e L’invasione degli ultracorpi (ma il remake del 1978, diretto da Philip Kaufman). Nessuno di quei Godard e Eustache e Cassavetes che la critica gli ha spesso appiccicato addosso. Tutti film, inoltre, che Baumbach deve aver visto tra i dodici e i quattordici anni, quando non sono gli autori, le “poetiche”, i riferimenti culturali a rapirci. Per capirci: Sylvester Stallone simbolo del patriarcato in Barbie piace a entrambi. «Tutto ciò che abbiamo messo nel film o a cui facciamo riferimento è solo ciò che amiamo. E amo Sylvester Stallone», ha detto Greta Gerwig. La loro storia inizia sul set di Greenberg (Lo stravagante mondo di Greenberg), e diventa poi pieno sodalizio artistico e sentimentale con Frances Ha, laboratorio di tutto il loro cinema e del loro matrimonio. Ma definire Greta Gerwig “musa” di Noah Baumbach, come capita di leggere in molti articoli, è decisamente fuori fuoco. La prova anche qui di una struttura mentale un po’ vecchia. Greta Gerwig e Noah Baumbach non sono Godard e Anna Karina, non di rado umiliata anche in pubblico dal maestro della Nouvelle Vague, che come persona lasciava molto a desiderare. Gerwig e Baumbach sono entrambi l’uno “musa” dell’altro. Due autori che scrivono partendo dal loro vissuto e progettano film e storie insieme. La prova, casomai, che ogni matrimonio è al fondo anche un “sodalizio artistico”. Esordendo alla regia, Greta Gerwig ha ripreso da Noah Baumbach il divieto per cast e troupe di portarsi lo smartphone sul set. Ma forse è soprattutto Baumbach ad aver imparato cose da lei. I suoi film, da quando nella sua vita c’è Greta Gerwig, hanno qualcosa in più. Una profondità, un’umanità, una complicità con i suoi personaggi che prima non c’era. Infilarsi nelle scie indie o mumblecore o andare al Sundance e avere ottime recensioni sul New Yorker sembrava per Baumbach più importante che costruire storie e personaggi con cui potersi identificare, anche per chi non è mai stato scrittore a Brooklyn o hipster a Williamsburg. Quando Noah Baumbach deve spiegare quanto sia complicato seguire le mode, stare al passo coi tempi, fa l’esempio dei rollerblade. Lanciati all’alba degli anni Ottanta, poi abbandonati, poi tornati di nuovo in circolazione negli anni Novanta, quindi usciti di scena e recuperati in chiave vintage-nostalgia, come i vinili, i polsini da tennis, le tutine fucsia da aerobica. Infine, eccoli spuntare di nuovo durante il lockdown: vendite aumentate all’improvviso, nascita di nuovi marchi, video e tutorial acrobatici su TikTok. Un successo, secondo i guru del marketing, dovuto al piacere per “cose visualmente kitsch”, ma anche al fatto che pattinare “trasmette un senso di leggerezza e divertimento”. In una delle prime immagini di Barbie, quando il film era in lavorazione, si vedevano Ryan Gosling e Margot Robbie a spasso per Los Angeles in quegli incredibili rollerblade al neon. Per tutti Barbie era già quella cosa lì: quel paio di rollerblade, “visualmente kitsch”, e quel “senso di leggerezza e divertimento”. Adesso il successo del film li rilancia di nuovo.

Credo che i rollerblade di Barbie vengano da Noah Baumbach, perché sono una sua ossessione. «Un giorno mi sono accorto di continuare a vedermi in una versione più giovane di me», diceva spiegando l’idea di While we’re young, suo film del 2014, con Ben Stiller e Naomi Watts, girato tra Frances Ha e Mistress America, ma senza Greta Gerwig, brutalizzato nella versione italiana in Giovani si diventa. Era una storia di “coppie che si proiettano l’una nell’altra”. Coppie che non riescono a entrare nell’età adulta, che è una cosa diversa dal “sentirsi ancora giovani”. E c’erano i rollerblade. «Una reminiscenza del suo passato», come dice lui. Mentre girava il film, Baumbach era certo sarebbero tornati di moda. Il film uscì. Ma i rollerblade erano di nuovo out. Ora con Barbie sembrano sincronizzati alla perfezione. Forse il problema dei rollerblade di While we’re young è che non c’era Greta Gerwig.

Andrea Minuz (Roma, 1973), giornalista e professore di Storia del Cinema all’Università la Sapienza di Roma. Tra i suoi libri: “La Shoah e la cultura visuale” (Bulzoni, 2010), “Quando c’eravamo noi” (Rubbettino, 2014), “L’attore nel cinema italiano contemporaneo” (Marsilio, 2017, con Pedro Armocida) e “Fellini, Roma” (Rubbettino, 2020).