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La furia di scappare ti prende nel letto

In Libano la crisi non passa più, le liti su partire o non partire spaccano le famiglie e dividono gli amanti, che avevano provato a ricostruire ogni cosa dopo la guerra. Un paese che non riesce a essere un paese e distrugge il desiderio

Rania ricorda il momento esatto in cui ha deciso di andarsene. I libanesi raccoglievano i pezzi delle loro case, dei loro negozi, della loro vita e lei era scesa in strada con loro a protestare. Quattro giorni prima, il 4 agosto 2020, un’esplosione aveva devastato il porto di Beirut, sconvolgendo il volto e lo spirito della città, uccidendo 218 persone, lasciandone trecentomila senza un tetto: la classe politica del Libano aveva permesso, per incuria se vogliamo essere clementi, che 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio rimanessero ammassate a pochi metri dai quartieri residenziali. “E’ talmente enorme quel che è accaduto che qualcosa cambierà”, aveva pensato. Invece la polizia, davanti al dolore di quel dissenso, aveva caricato i manifestanti riuniti nella piazza dei Martiri, lì dove nasce ogni protesta a Beirut, e aveva usato i gas lacrimogeni.

“In quel momento mi sono immobilizzata – ricorda Rania – Nei miei pensieri si è materializzata un’immagine irreale: ho visto una colonna di fumo salire dallo scuolabus su cui viaggiava mio figlio, che ha sei anni e mezzo. ‘Me ne vado’, mi sono detta”. Quarantacinque anni, mamma single, fondatrice di una libreria d’arte, Rania si è fatta forte del suo passaporto francese ed è salita sul primo aereo per Londra quando già dal 2019 la crisi prosciugava le riserve della Banca centrale libanese, rendeva poveri i tre quarti di una popolazione di 6,8 milioni di persone, faceva crollare la moneta locale, lasciava i quartieri al buio e toglieva leggerezza a un paese che era riuscito a mantenerla persino negli anni più atroci della guerra civile.

Secondo i dati più recenti, il 63 per cento dei libanesi vuole lasciare il paese, colpito da una crisi economica che – secondo la Banca mondiale – è una delle peggiori degli ultimi centocinquant’anni. Gli aiuti finanziari promessi dalla comunità internazionale restano vincolati a riforme economiche e sociali che la classe politica, inerte e ripiegata sui propri privilegi, non riesce neppure a prendere in considerazione.

C’è chi quel giorno di agosto, il giorno dello sconvolgimento assoluto, aveva già deciso di andarsene, chi ci pensava senza dirlo e senza trovare poi il coraggio di lasciare tutto e ricominciare in qualche luogo lontano. L’esplosione al porto ha cambiato ogni cosa, “ci è venuta a stanare nei nostri rifugi, ci ha fatto capire che non ce l’abbiamo più, un rifugio, che siamo in pericolo nel nostro stesso letto”, dice la scrittrice Hyam Yared. Nel suo ultimo libro, Implosions (Équateurs), il 4 agosto alle 18 e 7 minuti, la protagonista e il marito si ritrovano a sperare di salvarsi insieme, sotto la scrivania del loro analista.

A implodere non è soltanto lo spirito di Beirut. La crisi finanziaria, economica e politica del Libano si trasforma in una ferita sociale che invade lo spazio privato delle coppie e dell’amore. Partire o non partire diventa una questione che strazia le famiglie, divide gli amanti, porta moglie e marito dallo psicologo. “Le coppie hanno perso la spensieratezza. Dopo l’esplosione – dice Hyam Yared – nulla aveva più sapore, nulla aveva più piacere. Durante le guerre e le crisi, il desiderio è un lusso: durante le guerre e le crisi ci sono soltanto pulsioni sessuali”.

Nell’estate del 2021, le file di automobili in coda ai rari benzinai aperti erano lunghe chilometri. Il Libano era al buio, attaccato a generatori privati alimentati a gasolio, venduto a prezzi immorali sul mercato nero. La crisi ha svuotato di dollari le casse dello stato. Così, il governo per settimane non è stato in grado di saldare i conti con i fornitori stranieri di olio combustibile che serve a far funzionare le centrali elettriche, costrette a spegnersi davanti alla corruzione delle classi dirigenti.

“Che cosa rende piacevole la vita? – si chiede Hyam Yared – La tranquillità. Il Libano è un paese che non riesce a essere un paese: questa è la tragedia. Ho vissuto una guerra ma non me ne sono mai andata. L’angoscia che provo oggi non l’ho mai vissuta prima”.

“Joe, è peggio che la guerra”. Sono passate meno di 24 ore dall’esplosione al porto. Rania, la libraia, risponde al telefono che squilla mentre cerca di farsi strada tra le rovine nel quartiere di Mar Mikhael, dove si trovano le macerie della sua libreria. Scoppia in lacrime. Dall’altra parte della linea c’è un amico che ha lasciato il Libano negli anni del conflitto civile e non è mai tornato. A differenza di lei, che era cresciuta a Parigi, dove i genitori avevano deciso di rifugiarsi. Erano tornati tutti assieme in Libano alla fine della guerra, come moltissimi altri. “Abbiamo tentato di ricostruire, ma questo è quello che ti fa questo paese: tu provi a ricostruire e lui ti distrugge, distrugge le famiglie, distrugge lo spirito”.

C’è una strada che divide il quartiere di Chiyah, a maggioranza musulmana, da Aïn el Remmaneh, la zona cristiana: durante la guerra civile era la linea di demarcazione di un conflitto che spaccava il Libano sulla base delle confessioni religiose. Il 14 ottobre 2021, una manifestazione contro il procuratore Tareq Bitar, a capo dell’inchiesta sull’esplosione al porto, detestato soprattutto dai gruppi sciiti Hezbollah e Amal, è degenerata in scontri fra uomini armati di diverse fazioni religiose. Rami, 44 anni, architetto e padre di due figli, abita lì, a pochi passi dal confine di una guerra antica. Il 14 ottobre si è risvegliato di colpo negli anni Ottanta. “Combattevano a 500 metri da casa mia, e per un quarto d’ora non ho saputo che fare. Durante la guerra civile, i nostri genitori ci portavano a scuola e tornavano dopo un’ora perché si combatteva nel quartiere, lungo quella stessa linea. Allora però sapevo che quella strada era la frontiera oltre la quale non andare, perché lì c’era il nemico. C’è voluto tempo per capire che dall’altra parte c’erano soltanto persone come noi. Ho dovuto rivivere quello che ho vissuto da bambino, e voglio evitare che fra vent’anni accada lo stesso ai miei figli”. Quel giorno, Rami ha deciso di partire, di portare via la sua famiglia. Non ha però né un passaporto straniero né un’offerta di lavoro all’estero, quindi aspetta, e il Libano sprofonda.

Il valore della lira libanese sul dollaro ha raggiunto a inizio gennaio un nuovo minimo storico sul mercato nero. La lira, che dal 1997 al 2019 era ancorata al dollaro, ha perso il 95 per cento del suo valore. Fino al 2019, un dollaro valeva 1.500 lire, agli inizi di gennaio 30 mila. Se Valérie, grafica di 43 anni con un figlio di cinque mesi, è tra i privilegiati che sono in possesso di un passaporto straniero e possono andarsene, “i nostri soldi – dice – sono invece in ostaggio: partire significherebbe ricominciare da zero”. Il suo conto in banca, “i risparmi di una vita”, si è prosciugato in pochi mesi a causa della svalutazione della moneta.

“La questione non sono i soldi, non è neppure il lavoro – racconta Ziad Nawfal, un produttore musicale di 50 anni famoso sulla scena artistica libanese – Non riuscivamo a trovare le medicine né i pannolini per nostra figlia, che aveva un anno quando siamo partiti. Passavo la giornata in auto a fare il giro delle farmacie, e così rimanevo senza benzina e mi toccava fare code di ore”. Assieme alla figlia e alla moglie canadese Ziad ha abbandonato il paese per stabilirsi a Montréal, e attraverso il ricongiungimento familiare otterrà un visto. La crisi, dice, ha fatto chiudere teatri e sale da concerto e l’arte non è più sostenibile: con il crollo della valuta locale, nessuno può più permettersi i biglietti per le performance in quella che per decenni è stata una delle capitali culturali del Levante. Lo stipendio di Ziad alla radio pubblica, l’equivalente di 700 dollari in lire libanesi, è sceso in pochi mesi a 50 dollari. Sono soprattutto i funzionari pubblici, pagati in lire e non in dollari, a soffrire però non sono i soli ad andarsene.

L’Organizzazione mondiale della Sanità a settembre calcola che circa il 40 per cento dei medici libanesi e il 30 per cento degli infermieri abbia lasciato il paese dal 2019, rendendo ancora più complicata la gestione della pandemia nel mezzo della crisi. Partono anche professori universitari, insegnanti, architetti, ingegneri, in quella che la stampa internazionale ha già definito una fuga totale, di cervelli certo, ma anche di aspirazioni, di speranze.

Poi c’è chi resta. Un giorno del 2018, Maya Chams Ibrahimchah vede una signora anziana sotto un ponte: è vestita in abiti eleganti, seduta accanto a delle casse di libri. Il giorno successivo è ancora lì. In un paese dove il sistema pensionistico è quasi inesistente, dove l’ottantacinque per cento della popolazione trova “difficile” o “molto difficile” arrivare alla fine del mese, la crisi nel 2018 aveva già iniziato a fare vittime: la signora, 62 anni e sola, ex insegnante di francese, dopo la pensione non poteva più pagare l’affitto, non guadagnava nulla. Maya decide di trovarle un rifugio, e da quel giorno le due iniziano a lavorare assieme al progetto Beit el Baraka, un’organizzazione non governativa che attraverso donazioni private si occupa di aiutare persone senza mezzi e che arriva lì dove lo stato è assente. “Anche io volevo andarmene, portare via mia figlia – dice Maya – Poi è arrivata la rivolta dell’ottobre 2019. Le persone in strada in quei giorni sono diventate la società civile che si è messa al lavoro”, come provano a fare gli oltre trecento volontari della sua ong. “Questa società civile è il prodotto di quelle manifestazioni: una rivoluzione non si fa in quattro giorni, siamo soltanto all’inizio, per questo sono piena di speranza e per questo non me ne andrò mai”.

Rolla Scolari (Milano, 1977), giornalista di Sky Tg24. Ha vissuto e lavorato come inviata in medio oriente.