Lo scorso 26 maggio la Georgia ha celebrato il 106esimo anniversario dalla proclamazione della prima repubblica democratica indipendente e il 33esimo anniversario della sua indipendenza dall’Unione sovietica.
Non ero in vena di festeggiamenti e anzi, dopo la reintroduzione della “legge sulla trasparenza dell’influenza straniera”, mi sentivo disperata, e mi sono messa a scrollare compulsivamente i social media alla ricerca di un barlume di speranza che un tempo, da cittadina di questo paese, avevo. Non l’ho trovata, la speranza, ma mi sono imbattuta in un video in cui alcune persone discutevano del ripristino dell’indipendenza nel 1991 e mi sono messa a guardarlo. Certe immagini mi hanno rapita.
Una era una foto in bianco e nero di una manifestazione a Tbilisi, la capitale della Georgia (non so nemmeno di quale manifestazione si trattasse, essendocene state decine negli ultimi trent’anni). Nella foto una folla di uomini sta ascoltando qualcuno, e una bellissima donna dai capelli biondi quasi fluttua sopra di loro, e non solo ascolta, ma osserva e registra con un’enorme videocamera vhs chi sta parlando dal palco, chiunque sia.
Sempre nello stesso video, c’è di nuovo la donna, questa volta all’interno dell’edificio del Parlamento, in un filmato a colori. È vestita molto bene, tiene la sua enorme videocamera con entrambe le mani, ha lo smalto rosa scintillante e il rossetto in tinta. Con l’occhio sinistro, coperto da una ciocca riccia e bionda, guarda la telecamera che la filma, mentre con l’occhio destro documenta la Dichiarazione d’indipendenza. Aveva un buon motivo per vestirsi tanto elegante.
Ho visto e rivisto il momento in cui Zviad Gamsakhurdia, il controverso primo presidente della Georgia, ha pronunciato la Dichiarazione di indipendenza, da molte prospettive e inquadrature. Ho visto foto e video che lo ritraevano di fronte, dall’angolo destro, leggermente da sotto e via dicendo. Ma non avevo mai visto quello che accadeva alle sue spalle, sullo sfondo.
L’immagine della donna con la telecamera, in cui mi sono imbattuta per caso, ha completamente cambiato il significato che quel giorno aveva per me. Ho riguardato il video un paio di volte e in un periodo di tale sconforto ho persino fatto degli screenshot per poter ricordare le emozioni che mi ha suscitato vederla. Oggi associo questo momento cruciale della storia del nostro paese a Tsitsi Grigolia, la donna con la telecamera dietro a uno degli eventi più importanti della Georgia moderna.
Certo, Tsitsi Grigolia è eccezionale, non passa inosservata, con la sua videocamera, sullo sfondo eppure allo stesso tempo al centro di eventi di portata storica, ma sta di fatto che ha documentato la Storia in un paese esclusivamente amministrato, governato e documentato dagli uomini. La decisione istintiva di prendere la videocamera (perché ne aveva una) – lo accenna nell’intervista – e di filmare questi eventi era un gesto coraggioso nella società patriarcale della Georgia dell’epoca. Ma non è un’eccezione. Il passato recente della Georgia è pieno di storie di donne che non sono ricordate, che non sono mai emerse come forza creativa o di guida ma che, pur restando sullo sfondo e seguendo il proprio istinto ancestrale, hanno contribuito al progresso del paese, spesso con il sacrificio e con il dolore.
Penso subito alle immagini delle proteste del marzo 2023, quando è stata introdotta la legge sugli “agenti stranieri”. In strada sfilavano persone di tutte le età e il governo rispose con violenza, tentando di disperdere la folla di manifestanti pacifici con gli idranti. C’è quest’immagine di una donna che stringe tenacemente la bandiera dell’Unione europea, nonostante la forte pressione del getto d’acqua e il freddo. Salda nella sua risolutezza, è diventata un simbolo della lotta. Un’altra immagine mostra una ragazzina che salta nell’acqua che le viene puntata contro per farla cadere, fragile ed eppure fortissima. Entrambe sono diventate il simbolo delle piccole vittorie di cui abbiamo un disperato bisogno, in questo nostro mondo ingiusto e precario.
Queste due donne incarnano la determinazione delle donne georgiane, e rispecchiano la loro volontà di sopravvivere e di andare avanti. Non sono immagini isolate; rappresentano le innumerevoli donne che, durante il buio degli anni Novanta, sono emigrate o hanno cambiato mestiere e carriera per sostenere le proprie famiglie rimaste senza soldi, affannandosi per aiutare i figli a crescere, studiare, resistere alle ingiustizie sia nella vita privata sia in quella pubblica. Questo coraggio e questa determinazione sembrano quasi ereditari, e in queste due immagini la resistenza delle donne delle proteste diventa tangibile. Nonostante le tante difficoltà e la mancanza di continuità, la Georgia è sempre riuscita a ricominciare da zero, e a guidare questa rinascita ci sono state le donne – proprio come Lady Lazarus nella poesia di Sylvia Plath.
«E io sarò una donna che sorride. Non ho che trent’anni.
E come il gatto ho nove vite da morire».
E poi:
«Dalla cenere
sorgo con i miei capelli rossi
e divoro gli uomini come aria».
Mentre ragionavo su questo articolo, sono tornata a un mio precedente lavoro dall’argomento simile: le registe georgiane, parte di una voce che è rimasta inascoltata nel corso dei secoli. Queste donne, sotto pressione costante e poste di fronte a numerose sfide, da sempre cercano di riflettere, analizzare, commentare le condizioni attuali del paese, e spesso lo fanno mettendo in luce il coraggio di altre donne, comprendendo profondamente le loro difficoltà. Questo brano è tratto da A Feminist Manifesto for Creative Women, il discorso d’apertura al Female Directors in Georgian Cinema: Past and Present. È stato pronunciato in occasione dell’Eurimages Gender Equality Outreach Meeting, durante la 153esima edizione dell’Eurimages Management Board Meeting, tenutosi a Tbilisi l’11 dicembre 2018.
«Molto spesso la storia nazionale di un paese si fonda sulla mitologia, e la Georgia non fa eccezione. Anzi, tendiamo a esagerare il glorioso passato del paese. Sono tuttavia tentata di menzionare un mito – quello che permette alla Georgia di trovare il proprio posto nel contesto globale. Un mito che rende questo piccolo paese facilmente riconoscibile e speciale. Credo che tutte noi donne georgiane assomigliamo in qualche modo a una delle protagoniste di questa storia, Medea. Ma credo anche che questa donna potente e controversa, associata alla magia, alla guarigione e alla trasformazione, sia soprattutto legata a chi fa cinema, nello stesso modo in cui il cinema è legato alla magia e alla catarsi.
Se ci soffermiamo per un momento sul passato, di due cose noi georgiani andiamo particolarmente fieri: la nascita della letteratura georgiana nel V secolo e la nascita del cinema georgiano all’inizio del XX. Ed entrambi iniziano con il racconto della vita di due protagoniste femminili.
La prima opera della letteratura georgiana si ritiene sia un testo del V secolo che descrive la vita e il martirio di Santa Shushanik, una nobildonna armena uccisa dal suo sposo dopo aver rinunciato alla fede cristiana.
Il primo lungometraggio georgiano, Qristine, racconta la storia di una ragazza di paese che viene violentata da un aristocratico locale e prova ad ammazzarsi, ma viene poi salvata da altri abitanti. Dopo aver tentato il suicidio, l’eroina eponima fa amicizia con Sona, sperando di ricominciare la sua vita, salvo poi che quest’ultima, invece di aiutarla come promesso, consegna Qristine a suo fratello. Come per la storia di Shushanik, anche per la protagonista di questo racconto si prospetta una fine tragica.
Entrambe queste opere d’arte importanti e rivoluzionarie, lontane nei secoli, sono accomunate dalla presenza di un autore, non anonimo in quanto maschio. Posto che questo naturalmente non toglie loro valore e importanza, vale la pena riflettere su come sarebbero andate le cose per le due protagoniste di queste pietre miliari della cultura se a scriverle fosse stata una donna.
La carriera, purtroppo breve, di Nutsa Gogoberidze, la prima regista georgiana, ci dice molto del destino delle artiste in Georgia. Poco dopo l’uscita del suo primo lungometraggio, nel 1927, quando aveva 25 anni, Nutsa Gogoberidze realizzò assieme a Mikhail Kalatozov (Mikheil Kalatozishvili) il suo primo documentario, Their Kindgom. Nel 1930 seguì il suo secondo film, Buba, e, dopo aver incontrato numerosi ostacoli, il terzo, Uzhmuri («Scorbutico»), apparve sugli schermi nel 1934. Quest’ultimo fu il primo lungometraggio sovietico diretto da una donna.
Nel 1937, al culmine delle purghe staliniane, Nutsa fu arrestata in quanto membro di una famiglia considerata “nemica del popolo”, fu condannata a dieci anni di esilio e i suoi film furono vietati dal regime sovietico. Anche dopo il suo ritorno dall’esilio, le fu preclusa ogni possibilità di rientrare nell’industria cinematografica e la sua opera fu riscoperta solo postuma. La figlia di Nutsa, Lana Gogoberidze, è stata una delle più importanti registe georgiane sovietiche degli anni Sessanta e anche la nipote, Salome Alexi, è una regista.
Nutsa Gogoberidze non solo è importante per essere stata la madre di due generazioni di registe nella sua stessa famiglia ma, come prima regista donna in Georgia, può anche essere definita la “madre fondatrice” di tutte le generazioni di registe nel nostro paese.
La cifra del cinema delle registe georgiane è sempre stata l’intimità, la sensibilità e un coraggioso afflato autobiografico. Fanno film acuti, personali, e sullo sfondo si percepisce sempre la lotta invisibile della vita di un’artista donna in una società dominata dai maschi. Questa lotta si è acuita sotto il duro regime dell’Unione sovietica, per poi addirittura peggiorare nel contesto del crescente nazionalismo, del conflitto civile ed etnico e per il fatto stesso di affrontare questo tumulto storico in quanto donna.
Mentre nei film di grande distribuzione l’immaginario della donna dipingeva per lo più la dipendenza, la purezza e l’innocenza, alcune artiste hanno rappresentato le qualità che appartenevano alle donne emancipate attraverso personaggi che, in qualche modo, erano i loro alter ego. La presenza di queste artiste nella sfera culturale ha anche rafforzato l’idea che le donne riuscissero a fare tutto: avere figli e crescerli, mantenere un lavoro e trovare i mezzi per sopravvivere in condizioni dure di totale collasso economico e politico, trovando anche il desiderio e la forza di essere creative. Sembra impossibile, eppure lo hanno fatto. I loro film – con quelle immagini di memorabile bellezza e con l’intelligenza delle protagoniste – avrebbero ispirato le future generazioni di donne guerriere, incoraggiandole a essere creative e a cambiare il mondo intorno a loro».
Questo testo sembra ormai parte di un archivio, una reliquia del passato, eppure ha ancora un barlume di speranza sul “futuro che sarà femmina”. È importante rivisitarlo e rileggerlo oggi, soprattutto alla luce delle recenti scelte del Parlamento georgiano di reintrodurre la “legge sulla trasparenza dell’influenza straniera”, abolire le quote obbligatorie di genere e introdurre una legge che limita i diritti Lgbt. Queste azioni rendono la situazione sempre più complessa e spaventosa per tutti i gruppi emarginati e per le donne. Ho paura di quello che potrebbe succedere.
Ciò nonostante, data l’intensità brutale degli eventi recenti e le elezioni in arrivo, sento l’urgenza disperata di rimarcare l’importanza della solidarietà e dell’eredità. Nell’incertezza di ciò che ci riserva il futuro, l’immagine simbolica di Tsitsi, una donna con una telecamera sullo sfondo della storia, che sceglie di filmare, documentare e agire, mi ispirerà sempre. Incarna l’essenza della connessione tra le donne e la speranza di superare ogni sfida attraverso la solidarietà, l’unità e la partecipazione.