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La libertà che rimbomba in musica

La lite del giorno prima, la serata a ballare dopo quattro anni di figli, cani e pandemia, poi l’MDMA. Tra i clubber vestiti come dei cretini e tanti corpi neri, la sensazione della testa vuota è ancora la stessa: rimette in ordine i pensieri. Fenomenologia intima e notturna delle casse che suonano e delle vampate che ripuliscono come lava verso il cielo

Dalla litigata della sera prima entrambi si trattano con una cortesia affettata.

Lei aveva scagliato il cucchiaio di legno con cui stava mescolando il sugo colpendo la centrifuga sulla cassapanca della cucina, lui era uscito sbattendo la porta con tanta forza da far staccare alcuni pezzi di intonaco bianco dagli stipiti.

Nessuno dei due saprebbe risalire al motivo di quei gesti, ed entrambi hanno la sensazione di dover lasciare alla membrana di coppia, che normalmente li avvolge rendendoli simili a una molecola complessa, il tempo di ricomporsi. In questo momento però sono ancora atomi. Molto vicini, certo, ma separati.

Lui le offre un sorso d’acqua con un’accortezza priva di ironia. Lei ringrazia con un filo di gentilezza di troppo.

Anche volendo, non riuscirebbero a scorgere i rispettivi lineamenti: la sala dove suonano gli Autechre è immersa nell’oscurità per volere degli artisti stessi. Dai subwoofer guizzano suoni vibranti, taglienti o sordi, che risuonano nelle loro gabbie toraciche per poi attraversare con un rimbombo gli altri corpi neri che gli dondolano accanto. Lei gli stringe la mano e fa un passo in avanti, verso le casse.

Nessuno dei due ha cenato, entrambi i loro stomaci hanno chiuso i battenti verso le 18, presi com’erano a segnalare ai proprietari lo stato di fibrillazione che li aveva pervasi nell’istante in cui avevano messo piede a Torino per il C2C.

Di tanto in tanto lei infila l’altra mano, quella che non è nel palmo di lui, nella tasca dei pantaloni, e tasta con i polpastrelli sudati il portapillole di metallo che raffigura Il Bacio di Klimt al cui interno risiedono due pasticche di quelle che la sua amica ha chiamato “empatogeni”. Di fatto, è MDMA. Nessuno dei due esclude che, oltre alla consueta dose di nervosismo generata dalla loro routine quotidiana, sia stata la decisione impulsiva di andare al festival la causa sotterranea della lite della sera prima.

Sono trascorsi quattro anni dall’ultima volta in cui sono andati a ballare. Nel frattempo hanno fatto un figlio, si sono ritrovati a ospitare il grosso e vecchio pastore tedesco della madre di lui nel momento in cui quest’ultima è stata trasferita nella clinica “Anni celesti” a causa dell’Alzheimer, e hanno attraversato una pandemia assieme al resto dell’umanità.

Da giovani, o meglio, da più giovani, quando si erano appena conosciuti ed erano entrambi presi dalle rispettive gavette professionali che impegnavano la maggior parte del loro tempo, immaginavano, prima di addormentarsi esausti, di poter applicare alla dimensione del tempo, qualunque forma avesse, una cerniera. Questa cerniera, una volta aperta, avrebbe dato su una piccola alcova in cui il tempo sarebbe scorso più velocemente rispetto a quello abituale; in questo modo avrebbero potuto starsene accoccolati lì assieme, a recuperare quanto gli veniva tolto durante i giorni e le settimane quando, per andare a cena o a ballare, arrivavano nei club e nei ristoranti con gli zaini appesantiti dai computer; lei con il trucco colato, lui con i capelli arruffati.

Quella frenesia si era interrotta bruscamente con la pandemia, e inizialmente avevano creduto, a dispetto della drammaticità della situazione, di essere baciati dalla fortuna: eccola la loro alcova, eccola la cerniera. Si erano rintanati nel bilocale di lui e lo avevano arredato con la loro intimità. Avevano attraversato insieme distese di noia intervallate da conversazioni profonde e cene romantiche organizzate nell’appartamento, occasioni per le quali si presentavano in soggiorno elegantissimi, mimando un primo incontro o mettendosi nei panni di personaggi misteriosi e sensuali, prima di scoppiare a ridere sputando il vino dal naso, cosa che a lei succedeva spesso. Lei era rimasta incinta subito, ed entrambi si erano sentiti spontanei e avventurosi. Allora, lei aveva 27 anni, lui 30. E’ ancora presto. L’elettronica da ballare inizia verso le 23.30. Ora sul palco c’è un duo elettropop. La donna che canta con una voce trillante è di una bellezza irreale. Durante la performance, sia lui che lei lanciano occhiate agli astanti per avere indizi su come gli altri stiano vivendo quel momento. Spesso, i loro sguardi sono ricambiati.

Alcune ragazze giovani, più giovani di lei, hanno il volto coperto di brillantini e sono vestite di colori sgargianti. La loro pelle, alla luce dei fari bluastri, è lunare, come quella della cantante. Lei le osserva e le sembra impossibile non essere più come loro: giovanissima, intatta, confusa, potenziale. Lo era fino a un attimo prima, fino a che la cerniera non si è aperta, porgendole del tempo nuovo e intimo sul palmo di una mano, sottraendole con l’altra gli sgoccioli dei suoi vent’anni.

“Sembra un’intelligenza artificiale”, dice lei, commentando il volto perfetto della cantante. “Un po’ Uncanny valley”, le dà ragione lui.

Quando alcuni ragazzi corpulenti e ubriachi si fanno largo incespicando tra la folla, lei cade sul pavimento. Lui la tira su con una mano, mentre con l’altra strattona un componente a caso del gruppo e gli urla qualcosa di aggressivo che lei non riesce a sentire. Il ragazzo abbaia qualcosa di rimando e lei trattiene lui per un braccio.

“Vuoi picchiare un clubber?”, gli chiede. “Non è un clubber, è un cretino”.

“No, sono clubber, guarda come sono vestiti”.

“Come si vestono i clubber?”. “Abbigliamento tecnico e marsupi”. “Quindi come dei cretini”.

Lei ridacchia, e lui la guida verso il bar scuotendola leggermente per le spalle, e lei è sollevata da quella ritrovata confidenza.

Una volta ottenuti i drink percorrono il corridoio che collega le due sale. Sopra le loro teste sono sospesi fasci di luce verde e tutti, compresi loro, camminano con il muso rivolto all’insù. Nella seconda sala sta iniziando a suonare Caribou. E’ un matematico e musicista canadese che a lei piace, a lui meno. Si esibisce con la band, e dal palco provengono suoni ronzanti, e quello che a lei sembra il rumore di tantissimo riso rovesciato, e poi la voce di Caribou che è introversa e dolce, e i bassi e le corde, e la luce è color ottanio, poi bianca, poi lilla, e attorno a loro cominciano ad ammassarsi tantissime persone, schiacciandoli.

Lei si sorprende perché quella situazione non le piace, a dispetto di quanto succedeva in passato. E’ come se la mappa emotiva di certe occasioni mondane che si era costruita dentro di sé fosse diventata obsolescente mentre lei se ne stava nell’alcova. Un’ulteriore sottrazione. Tira la felpa di lui e gli chiede di posizionarsi un pochino più lontano.

Si appartano in una nicchia tra il guardaroba e il bar e lei estrae le pastiglie. Sono come gli integratori che prendeva in gravidanza, con l’involucro morbido che contiene la sostanza. Lei ha ricominciato a bere da poco, mentre non ha mai ripreso a fumare. Lui ha diminuito alcol e fumo per provare a essere solidale, sebbene lei non gliel’avesse chiesto. Nessuno dei due assume niente di forte da anni.

Il bambino è con i genitori di lei, che sono talmente bravi a gestirlo e amarlo che a volte lei vorrebbe lasciarglielo per sempre, dato che è palesemente più inadatta di sua madre a essere madre. Durante la gravidanza nutriva la tacita certezza secondo cui il passaggio da figlia a madre si sarebbe verificato grazie alla staffetta universale di madre natura. Non era successo. Anzi, da quando la marea della pandemia si era ritirata, avvertiva un’ambivalenza via via più intensa. Finché tutti erano rinchiusi in casa la gravidanza e il primo anno del bambino erano stati un’ancora di salvezza. Mentre i loro coetanei cadevano in depressione, non avevano più voglia o non potevano più lavorare o viaggiare, e in generale ciò che gli era precluso era una sensazione generale di “altrove”, lui e lei leggevano libri sulla genitorialità, seguivano diligentemente le istruzioni del medico, fantasticavano sul futuro prossimo e sull’essere madri e padri, e lui rassicurava lei sui cambiamenti del suo corpo, che per lui era sempre il più attraente tra tutti i corpi possibili. Lei gli credeva, perché tanto gli altri corpi possibili erano fuori dalle pareti del loro appartamento, a loro volta rinchiusi in altri appartamenti.

Ora invece era diverso. I corpi delle altre volteggiavano sulla pista, si muovevano sinuosi per le strade, correvano atletici lungo le spiagge. In generale i corpi di tutti avevano ripreso a uscire la sera, a bere, a lasciarsi e a innamorarsi di altri e altre, a lavorare e a essere leggeri, privi di responsabilità; giovanissimi, se non nei fatti, sicuramente nello spirito. La differenza che lei vedeva tra sé stessa e le sue amiche senza figli e legami era questa: loro la vedevano come un qualcosa che non volevano ancora essere ma che prima o poi sarebbero state, lei le vedeva come qualcosa che era stata e che non sarebbe mai più potuta essere.

Lei gli mette una pasticca in mano che scende nell’esofago di lui assieme alla birra. Lui le passa il bicchiere e lei fa lo stesso. Attraversano di nuovo il lungo corridoio per raggiungere il set di Jeff Mills. Si uniscono alla folla che marcia sul posto con gli occhi chiusi. Lei si abbandona alla cassa in quattro che ordina i suoi pensieri impilandoli in una griglia finché quest’ultima non se li divora seguendo sempre lo stesso ritmo e lasciandole la testa finalmente vuota. Abbassa le palpebre e nel buio vede l’eco delle luci del mondo reale che si allontana sempre di più. E’ più giovane di quanto non sarà mai e più vecchia di quanto non sia mai stata, ed è uguale a tutti coloro che le sono accanto: questa sensazione era segnata anche sulla sua vecchia mappa.

Lui le osserva il profilo affilato, poi sbircia attraverso il fumo e le luci e vede il dj che sembra una divinità circondata dai suoi seguaci. Jeff Mills è nato nel 1963, pensa, pochi anni dopo sua madre. E allora, malgrado gli sforzi per evitarlo, il viso di sua madre si fa più vivido, con quell’espressione vulnerabile e infantile che le ha impresso la malattia. L’ultima volta che erano andati a cena, prima di “Anni celesti”, sua madre era stata zitta tutto il tempo. I suoi suoceri avevano provato a far conversazione e a passarle il nipotino, ma i loro tentativi si erano affievoliti con delicatezza davanti al mutismo di lei.

L’unica cosa che sua madre pareva ricordare erano i gesti automatici: aveva versato il vino a tutti, aveva baciato i commensali sulle guance due volte, si era stretta nelle spalle, aveva usato le posate, aveva sorriso ai camerieri. Talvolta la memoria è un involucro.

“Devo andare via”, le dice. Lei apre gli occhi e vede l’espressione tesa di lui. Senza dire una parola lo conduce nel corridoio, dove, dopo qualche metro, sono costretti ad ammassarsi insieme agli altri alle pareti perché sta passando una barella rossa trasportata da tre uomini su cui è steso un corpo. “Ha bevuto troppo”, urla qualcuno nella folla. “Anche io voglio tornare a casa così”, risponde qualcun altro.

Lui le si aggrappa a un braccio e stringe. Sente delle vampate di calore che si succedono velocemente, come se dentro di sé avesse un ascensore in fiamme che viaggia velocissimo dalle caviglie alla nuca.

Lei si fa largo tra la folla e lo fa entrare nell’altra sala.

“Sediamoci lì”, urla lei cercando di sovrastare la musica. Camminano verso la parete buia dell’hangar e si accasciano a terra.

“Cosa senti?”, chiede lei.

“Ho la tachicardia, non sto bene, non so che mi succede, c’è qualcosa che non va, forse muoio”.

“Stai avendo un attacco di panico, ti devo abbracciare”. Si inginocchia davanti a lui e lo immobilizza in una morsa accarezzandogli la schiena con dei gesti ripetitivi.

Attraverso i vestiti lei avverte distintamente il cuore di lui e lo abbraccia più stretto. Rimangono immobili per parecchi minuti, mentre attorno a loro la musica scompare.

Quando si sciolgono lei realizza che stanno cambiando set, sta per suonare Jamie XX.

Lei gli chiede: “Stai meglio?”. Lui dice: “Sì”.

Lei gli chiede: “Vuoi alzarti per Jamie?”. Lui dice: “No”.

Rimangono seduti sul pavimento mentre le persone si avvicinano al palco ancora silenzioso.

“Mi dispiace”, dice lui. “Non fa niente”, dice lei.

“Mi dispiace anche per ieri”, dice lui. “Anche a me”, dice lei. E a entrambi dispiace per davvero.

Dal palco in fondo alla sala vengono sprigionate delle luci verde acqua. L’hangar si riempie di una nebbiolina e a lei sembra che il dj sia un astro che con la sua massa attrae a sé tutti i detriti e le rocce e i pulviscoli che vagano nello spazio fino a compattarli. Lei e lui sono al riparo da quella forza magnetica, sono satelliti: avvolti nell’ombra, abbastanza consistenti da mantenersi saldi, abbastanza segreti da poter osservare la morte di una stella o la nascita di un pianeta.

Lui guarda lei e sa che ora sono vicinissimi e le chiede di baciarlo. Lei accetta, e le loro labbra diventano un’unica bocca e potrebbero avere cinque anni come novanta e avrebbero comunque un sorriso perfetto. Le tocca la pelle del viso che ora è iridescente e pensa le cose più romantiche che chiunque abbia mai pensato, anche se non le dice a voce alta e non se le ricorderà il giorno dopo. Lei si lascia toccare la faccia e si sente come un lago alpino, turchese e placido, che non ha paura di niente.

Dal centro della sala la forza di gravità continua a far girare tutti su sé stessi e attorno al nucleo del dj rendendolo incandescente, e quando lui e lei si staccano vedono le scintille della fusione e la musica non è più una patina che copre la realtà, ma la realtà stessa, al punto che lui non saprebbe più dire se i sintetizzatori siano fuori o dentro di sé.

Gli anni luce passano, i bassi si affievoliscono e infine muoiono, ed entrambi hanno la sensazione che la musica li abbia attraversati ripulendoli come lava incantata.

Lei accarezza la testa di lui e gli chiede se vuole andare a casa. Lui guarda il telefono che segna le quattro del mattino e dice sì.

Escono dal Lingotto dopo aver ripreso le giacche al guardaroba. Fuori è ancora buio, il loro appartamento si trova a qualche chilometro di distanza ed entrambi sono sereni.

“Camminiamo?”, chiede lui. “Sì”, risponde lei.

Si avviano in silenzio lungo lo stradone dritto e vuoto fatta eccezione per qualche monopattino elettrico che gli sfreccia accanto guidato da un clubber vestito come si deve.

Il margine dorato del cielo mattutino è lucido e nuovo, e se avessero le forze di mettere in parole come si sentono, sia lui che lei risponderebbero che si sentono esattamente come il cielo.

Irene Graziosi (Roma, 1991), direttrice dei contenuti e autrice del canale YouTube “VENTI”, ideato nel 2019 con Sofia Viscardi. Il suo primo romanzo è “Il profilo dell’altra” (edizioni e/o, 2022).