Il prezzo del cibo aumenta. Anche gli attacchi aumentano”, nota laconico Tizio. Aveva un taglio di capelli occidentale, più corto sui lati e più lungo e curato sopra, ma ci ha rinunciato e si è fatto crescere la barba e ora è a metà trasformazione, è un ibrido sospeso fra i tempi vecchi della Kabul occidentalizzata – con tutte le ambasciate e le organizzazioni non governative e i militari stranieri – e i tempi correnti della Kabul finita di nuovo sotto i talebani. Ha vissuto cinque anni in Canada, fa yoga, limitava grassi e carboidrati, nell’armadio ha jeans e completi grigi e blu ma adesso veste con i pantaloni larghi e i sandali. È meglio non dare nell’occhio. Dirigeva un programma governativo che aiutava le donne a rendersi indipendenti grazie al lavoro con le gemme azzurre e blu dell’Afghanistan, le stesse che scopri nei negozi del centro della capitale – ma non sono esposte in vetrina, devi entrare e chiedere e passare nell’ombra del retro. Il programma per l’autodeterminazione delle donne è roba che i talebani vedono con orrore e non esiste più – per questo lo chiamiamo “Tizio”. E Caio come sta? Caio si è nascosto con tutta la famiglia, ci dice Tizio, ha paura che vengano a cercarlo e riceve messaggi di minaccia sul telefono. Che minacce? “Ti uccideremo”. Caio è un caso ancora più brutto, lavorava con gli americani e smistava i convogli di rifornimento su camion pagati dal Pentagono che entravano dal Pakistan (che di giorno aiutava gli americani e di notte aiutava i talebani). Ha passato gli ultimi anni in lotta con i talebani ma non era una lotta normale, era la guerra civile afghana di questi anni: a volte somigliava a Star Wars, quando c’erano i bombardieri e i droni e i filmati notturni fatti con gli infrarossi, a volte a una faida tra camorristi. Una notte i talebani sono venuti a lanciargli bottiglie molotov a casa, lui è riuscito a mettersi in salvo assieme alla famiglia ma la bambina di un anno è rimasta ustionata nella culla. Così le ha fatto il passaporto perché pensava di spostare tutti all’estero, ma ha aspettato troppo e l’Afghanistan è finito in mano ai talebani. In teoria ha il diritto di essere portato in salvo all’estero con i suoi, in pratica la lista di attesa conta migliaia di persone e i voli di evacuazione concordati con i talebani sono pochi. Decollano al ritmo di uno a settimana, è un’operazione che va al rallentatore. Lui il passaporto non ce l’ha ancora, ha soltanto un documento così antico che ancora c’è scritto “studente”. Mostra il passaporto della figlia, il viso nella foto è ustionato fino all’attaccatura dei capelli. Scade nel novembre 2021.
La notte infinita della disattenzione si allunga su Kabul – che contiene Tizio e Caio – e già ha coperto il resto del paese. Non è colpa dei media, ci sono più giornalisti internazionali nella capitale afghana di quanti ce ne fossero ad agosto, quando è caduta in mano ai talebani. Ma le notizie retrocedono e svaniscono e i talebani invece restano e se ne approfittano, è quello che sono bravi a fare, lo hanno fatto con successo per gli ultimi vent’anni negli angoli dell’Afghanistan e adesso si sono ripresi il centro. La notte non è nemmeno una metafora: i fornitori di luce elettrica nei paesi confinanti potrebbero staccare la luce da un momento all’altro perché i nuovi governanti non li stanno pagando e non stanno incassando le bollette, che del resto la gente ha smesso di pagare perché i prezzi sono saliti. I fornitori per ora non staccano la spina perché come tutti aspettano di vedere cosa succede: se ognuno si impuntasse su questioni di principio, il paese affonderebbe. E intanto i terroristi dello Stato islamico fanno saltare i piloni quando possono, perché godono nel mettere in difficoltà i talebani.
E pensare che Kabul era una bolla di fighetti rispetto al resto del paese. In Italia questa definizione è un’offesa senza appello, in Afghanistan aveva i contorni di un sogno. Ogni anno centinaia di migliaia di afghani arrivavano con l’aspirazione di entrare nella bolla e di godere di riflesso della ricchezza concentrata nelle mani del governo. La città senza i talebani è cresciuta a dismisura, si è allargata verso i monti che la circondano, è diventata una metropoli asiatica da quasi sei milioni di persone. Nei ristoranti in centro ci sono i separé e i menù in stile americano, servono smoothie alla frutta da tre dollari – sono una cifra pazzesca – e negli espositori ci sono le cheesecake americane, il kanafe al miele turco, il pain au chocolat francese. Le studentesse universitarie ai tavoli portano il velo sulla testa ma non sul volto e stringono al corpo borse di Louis Vuitton (ci vorrebbe occhio per capire se sono autentiche e purtroppo non si può chiedere, a rischio di essere fulminati). Ma è solo una situazione a tempo, in esaurimento. Le studentesse sono ex studentesse: i talebani non hanno ancora riaperto i corsi di studi alle donne, tergiversano, forse ne hanno fatto un punto dei negoziati con la comunità internazionale. L’economia che già andava male si è bloccata, la speranza non è più arrivare a Kabul, è andarsene. La bolla è scoppiata. In strada, ci sono i bambini con la testa rasata e le mani tese a chiedere l’equivalente di dieci centesimi di dollaro. C’erano anche prima, ma adesso diventeranno di più.
Molti afghani pensano che questa situazione potrebbe durare altri quarant’anni, il tempo di una vita, e te lo dicono: in questa trappola io non ci voglio stare.