Cerca

La mia ambizione ride di me

Antonella Lattanzi chiede a Mario Desiati se anche lui ha paura. L’egoismo, la crudeltà, il cinismo di volere soltanto scrivere bene, e il lato sbagliato del tramonto

Caro Mario, mi devo calmare.

Sono anni che il cuore mi batte fortissimo, non metaforicamente: sul serio. Sono anni che ho paura di non farcela, ho paura di non saper scrivere, ho molto spesso più paura che gioia nella scrittura. Non faccio che sgridarmi: càlmati, mi dico, ti devi calmare. Sono anni che affronto la pagina con terrore. Che verrebbe da chiedersi: non ti piace più scrivere? Hai sbagliato a pensare che la scrittura fosse la tua vita, l’unica cosa per te? Non sei altro che una codarda, con le pulsazioni a mille e questo cuore fortissimo nel petto.

Capita anche a te, Mario?

E poi a un certo punto, di colpo, l’ansia si scioglie. Non è che non ho più paura di sbagliare; semplicemente non posso pensarci più. Non ho più tempo né spazio per pensarci perché sto scrivendo, e allora che mi importa del resto: delle mie paure, delle mie colpe, dei miei dolori, ma pure dei miei desideri. Sto scrivendo, e c’è una specie di caldo, una specie                  di sollievo stupefacente. Sto scrivendo e riesco finalmente a sentire gli odori, i sapori di quello che scrivo, i pensieri dei personaggi e le loro paure. Come tutti gli ansiosi, se c’è qualcun altro che ha paura, io di colpo non ne ho più; sono perfettamente in grado di fronteggiare qualsiasi pericolo. Se dovessi dire cos’è per me scrivere, direi scomparire.

Capita anche a te, Mario? Adesso, capita anche a te di avere paura?

Prima, io non ne avevo. La scrittura per me era un’infinita gioia. Non che non avessi paura di sbagliare. Quella, menomale, l’ho sempre avuta e ce l’avrò sempre. Però, prima, la paura non mi faceva accelerare i battiti del cuore e riempire la mente di pensieri neri. La paura era un motore sfavillante; non l’avrei nemmeno chiamata paura. L’avrei chiamata sfida. E io, da che sono nata, sono viva solo quando ho una sfida da vincere. L’avrei chiamata, come si dice, sana ambizione.

Però col tempo ho capito che di sano l’ambizione non ha niente.

Molti anni fa ho letto la prefazione al Sentiero dei nidi di ragno che Italo Calvino scrisse al suo primo romanzo, vent’anni dopo averlo pubblicato. Da allora, l’ho riletta moltissime volte. Ogni volta mi spezza il cuore (sto parlando troppo di cuore, dovrei parlare, forse, di mente). Nella prefazione Calvino si misura con il più grande dei nostri giudici: il primo romanzo. “Il primo libro”, dice, “sarebbe meglio non averlo mai scritto. Finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita, il primo libro già ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall’esser definito; e questa definizione poi dovrai portartela dietro per la vita, cercando di darne conferma o approfondimento o correzione o smentita, ma mai più riuscendo a prescinderne”. Forse anche Calvino, qualche volta, si è detto: “Mi devo calmare”? Anche lui ha avuto paura di non essere all’altezza? A me Calvino ha sempre dato l’idea di uno che sa come domare le sue paure. Perché, lo so, e soprattutto lo sa lui, ci sono cose molte più importanti da fare che avere paura. Quando scrivevo Devozione, il mio primo romanzo, non mi preoccupavo di nient’altro che di scrivere al meglio, di scrivere il miglior romanzo che potessi scrivere. Avevo il permesso di sbagliare. Nessuno avrebbe saputo che avevo sbagliato. Nessuno avrebbe mai saputo che esistevo. Nemmeno io. Nessuno avrebbe potuto dirti: scrivevi meglio prima. Nemmeno io.

Eppure, se non fossi riuscita a finire Devozione, se non ci avessi lavorato anni e anni sperando solo che fosse al suo meglio – al mio meglio – se avessi lasciato perdere quando era troppo difficile, quando le parole non corrispondevano a quei venti leggeri della testa che vedi chiaramente ma che è così difficile trasformare in parole, frasi, paragrafi, capitoli. Se non ci fossi riuscita, che ne sarebbe stato di me?

Ci sto pensando, Mario. Che ne sarebbe di me?

Ma la scrittura è una partita che ricomincia ogni volta. Puoi esserci riuscito una volta, e non riuscirci più. Sono al mare adesso mentre ti scrivo, Mario, non il mare della regione in cui siamo nati entrambi ma un altro mare, dalla parte opposta. Perché devo stare lontana, come la protagonista del tuo Spatriati non posso stare dove sono nata. Quasi, non posso metterci più piede. Come Francesco Veleno, il protagonista del tuo romanzo, “temo il momento in cui dovremo di nuovo separarci”. Claudia, la tua protagonista, mi prenderebbe in giro: “Ti stai perdendo il meglio della tua vita per questo?”, mi direbbe. E poi però, finché può, finché ce la fa, si metterebbe a ballare. Ma, l’hai scritto tu, “Non è vero che si balla solo quando si è felici”. Io, mi ci hai fatto pensare tu, ballo quando sono disperata, per essere felice. Per me ballare è un altro modo per sparire.

Tu lo sai, Mario, fin da quando ero piccola ho sempre voluto fare la scrittrice e la ballerina. A un certo punto dovevo scegliere. Ciò che non ho scelto – la danza – non mi fa più paura. Ciò che ho scelto mi terrorizza.

Ma mi sono distratta, ho divagato. Ti dicevo che sono al mare, ora, mentre ti scrivo. Non davanti al nostro mare, quello in cui il sole tramonta dal lato sbagliato. Sono davanti a un mare che inghiotte il sole al tramonto come niente fosse, come se non gli bruciasse. Sono davanti a questo mare e davanti a questo mare, per descrivere l’inizio di ogni nuovo libro, posso avere solo una figura. La figura più banale che c’è. Ogni nuovo libro è come quando hai scritto qualcosa sulla sabbia, arriva l’onda, e non rimane più nulla di quello che hai fatto. Nessuna memoria. Nessuna competenza incorruttibile. Ogni nuovo libro ti chiede, ogni volta: tu, lo sai fare?

Solo a te e questo mare noncurante posso dirlo, forse è proprio per questo che ti scrivo: non faccio altro che pensare al nuovo romanzo, a quello che mi gira in tutto il corpo ogni secondo, ho una voglia di scriverlo come quando hai una voglia pazzesca di fare l’amore con una persona. Meglio non vederla, meglio non guardarla, perché se la guardassi e lei ti rifiutasse moriresti di vergogna e di dolore.

E se poi non lo so scrivere, Mario? Forse è proprio per chiederti un po’ del tuo coraggio che sto qui.

Mi ricordo come ci siamo conosciuti.

Non era ancora uscito il mio primo romanzo. Tu eri già uno scrittore, lavoravi nell’editoria da tanto. Io ero una che, da quando si ricordava, voleva diventare una scrittrice. Una che, qualunque cosa aveva fatto nella sua vita fino a quel momento, l’aveva fatta perché voleva diventare una scrittrice. Non solo quando avevo divorato un romanzo dopo l’altro, non solo quando avevo scritto, buttato, riscritto, buttato e riscritto ancora. Tu puoi capirmi benissimo. L’ambizione è un’altra cosa. L’ambizione è un mostro con una faccia orribile, feroce, e una faccia dolcissima. Tutto quello che avevo fatto fino a quel momento – i miei eccessi, le mie picchiate nella degradazione, tutte le volte in cui avevo messo un punto alla mia vita e avevo cambiato tutto, città, amici, religione, convinzione, morale – tutto quello che avevo perso, tutto, tutto, l’avevo fatto per un solo motivo: diventare una scrittrice. Cosa serve per scrivere? Leggere. Scrivere. Essere crudeli, con sé stessi e con gli altri. E venire perseguitato per tutta la vita dal senso di colpa: la tua crudeltà. Lo dice, ancora una volta, molto meglio di me Calvino, sempre nella sua prefazione: “Così mi guardo indietro, a quella stagione che mi si presentò gremita d’immagini e di significati: la guerra partigiana, i mesi che hanno contato per anni e da cui per tutta la vita si dovrebbe poter continuare a tirar fuori volti e ammonimenti e paesaggi e pensieri ed episodi e parole e commozioni: e tutto è lontano e nebbioso, e le pagine scritte sono lì nella loro sfacciata sicurezza che so bene ingannevole (…) – e non mi servono, avrei bisogno di tutto il resto, proprio di quello che lì non c’è. Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo”.

Quanti volti abbiamo distrutto, Mario, per sacrificarli al dio impassibile della scrittura, dell’ambizione alla scrittura. Quanti ricordi non abbiamo più, perché li abbiamo trasfigurati in racconti e romanzi. Quanti corpi amatissimi abbiamo ucciso, straziato, dissezionato, in quanti corpi amati abbiamo pescato con le mani sporche di sangue per trovare la nostra storia, i nostri personaggi, le nostre parole. Abbiamo usato ciò che ci serviva. Abbiamo buttato il resto. E tutto quello, tutto quel resto, non c’è più. Potresti dire con certezza com’era davvero una persona di cui hai usato anche soltanto un sentore – un odore, come si dice delle spezie per condire il cibo – per scrivere un articolo, un romanzo, un racconto? E allora, come dice Calvino, ci troviamo a essere “il più povero degli uomini”.

Sconteremo, un giorno, tutto questo egoismo, tutta questa crudeltà, tutto questo cinismo?

Dall’inizio di questa lettera sto cercando di parlarti di cos’è per me l’ambizione, Mario, ma mi accorgo che è proprio l’ambizione di riuscire a scrivere cos’è per davvero, cos’è precisamente l’ambizione a farmi sbagliare, farmi deviare, farmi perdere il filo del discorso. Perché l’ambizione si diverte così. Ti deride.

E dunque torno indietro, a quando ci siamo conosciuti. Il mio primo libro non era ancora uscito. Tu eri già uno scrittore. Io pensavo solo a questo: cosa sarebbe successo all’uscita del libro? Sarebbe stato il primo e ultimo? L’avrebbero odiato? Ci sarebbe stato qualcuno ad amarlo? Ma il pensiero più forte che avevo allora, che è poi il pensiero più forte che ho anche adesso, sempre, è: quando lo leggeranno, vedranno quello che io, codarda, non ho avuto il coraggio di vedere: e cioè che non so scrivere?

Perché, se lo vedessi, cosa ne sarebbe di me?

Tu l’hai letto in anteprima. Io non lo sapevo. Non ci eravamo mai conosciuti. E tu, a una che col batticuore (ancora cuore, dovrei dire: mente) passava tutte le sue notti e i suoi giorni pregando preghiere sull’uscita di quel romanzo, una di cui non sapevi niente, che non aveva ancora pubblicato niente, hai scritto un messaggio. Semplice. Ma io non lo dimenticherò mai. Mi hai detto che avevi letto, che non dovevo avere paura perché avevo scritto un bel romanzo. Che dovevo credere a quello che avevo scritto. Poi ti sei firmato.

Non trovo più quel messaggio, Mario, sono passati più di dieci anni. Ma ogni volta che penso a te, anche ora che siamo amici, anche ora che ci conosciamo da più di dieci anni, anche ora che abbiamo cenato insieme, abbiamo viaggiato insieme, siamo andati insieme alle feste, anche ora che abbiamo ballato insieme (ma forse sono solo io che ho ballato, sono sempre io quella che la gente, sfinita, annoiata, aspetta abbia finito di ballare – e io non finisco mai, fino a quando la musica non finisce), anche adesso ogni volta che penso a te penso a quel messaggio. Tu lo sai cos’è stato quel messaggio per la ragazza di dieci anni fa.

Ho perso di nuovo il filo. Per te l’ambizione non è legata a doppia mandata col rimorso?

Le ore che passiamo a scrivere non sono mai perse, anche quando scriviamo male, anche quando buttiamo tutto e di giorni, di mesi, non rimane una riga. Ma le persone che abbiamo ferito abbandonandole indietro per seguire la nostra ambizione a essere dei bravi scrittori – i miei genitori, io penso sempre a loro, agli orecchini col diamante che mia madre mi ha regalato quando è uscito il mio primo romanzo e io le ho detto, “Ma costano troppo!”, e lei mi ha risposto, raggiante: “Sono orecchini da scrittrice”. Le persone che abbiamo dovuto dimenticare per poter sparire. Per poterci illudere, ogni giorno, ogni anno, di nuovo ogni momento, di meritarci questa parola – scrittore – verso quelle persone tu non provi rimorso? O sono solo io che le ho abbandonate, solo io che non ho avuto pietà di nessuno? Adesso non sto parlando delle persone che abbiamo dissezionato per cercare anche solo una parola, la parola giusta, da mettere in un libro. Adesso sto pensando a quello che ho fatto – andare via dal posto in cui sono nata, non riuscire più a tornarci, allontanarmi sempre di più, col tempo, dimenticare compleanni, matrimoni, funerali, feste, estati, natali, passare gli anni chiusa in una stanza a scrivere, io e la pagina, la pagina e io, la pagina che sogghigna che tu, non, lo, sai, fare, passare gli anni a combattere per guadagnarti questo nome abbagliante, scrittrice, senza curarmi del fatto che perdevo gli amici, gli amori, le persone –, adesso sto pensando a tutto quello che ho cancellato perché l’ambizione a scrivere, a scrivere bene, a scrivere benissimo, l’ambizione, con quella sua faccia dolcissima e feroce non ti concede un giorno. Non ti concede un’ora. E i figli, Mario? Tu ci pensi mai, ai figli? Io sono una donna, il mio tempo per avere figli è così limitato.

Credo che nessuno, nemmeno una donna, sappia quanto è limitato; finché non si trova davanti al momento in cui questo tempo sta finendo, o è finito. Da quando ero piccola, mi sono sempre vista con una famiglia numerosa. Ho sempre detto: farò cinque figli. Ma ogni volta che è stato il momento, io ho pensato: e la scrittura, cosa mi dirà? Non è stata – come ho detto a tutti – la paura di diventare madre, non è stata la paura di perdere la mia vita a fermarmi finora. È stato il terrore di perdere la scrittura; a te posso dirlo. Ho chiesto: posso provare ad avere un figlio? E l’ambizione ha ruggito: cosa vorresti fare, tu? Allora sono stata zitta. Ho chiesto scusa. Ho riaperto il libro che leggevo. Ho riaperto il libro che scrivevo. Tu lo sai quanto parlano i figli che non hai avuto, Mario? Quanto parlano di notte, quanto parlano adesso sulla spiaggia, qui davanti a me?

Non smettono mai.

“Mia madre amore mia incredibile caricatura”, scrive Marguerite Duras. “Il dolore di mia madre è ultrasonico, materia bruta”, scrive Walter Siti. Mia madre amore mia incredibile caricatura, mia madre, il cui dolore per me è sempre stato ultrasonico, materia bruta, anche quella madre che è mia (“Quando vieni a trovarci, Antonella? Quanto torni a casa? Ci manchi”; anche voi mi mancate tantissimo, ma non posso venire, non mi posso distrarre, e ho una voce dura, distante, al telefono, e che mia madre e mio padre mi mancano a loro non posso dirlo mai, altrimenti capitolerei sotto i colpi dell’amore, che l’ambizione non si può permettere), anche quella madre mia che scivola, sguscia, luccica, preoccupa, ho dovuto dimenticarla per poter inseguire la mia ambizione, ho dovuto ferirla, ho dovuto dimenticarla – o è meglio dire ho voluto? Non puoi pensare di avere una madre, se scrivi. Se ricordassi di avere una madre, e se ricordassi quanto la ami, non potresti scrivere mai più.

Tutto questo, un giorno, sono sicura, tutta questa crudeltà, un giorno la pagherò. La sto già pagando. La stiamo già pagando?

Quante volte ho pensato a una me libera da quell’essere feroce e dolcissimo – l’ambizione. Una me mai toccata da quel mostro. Mi sono immaginata felice; assolta. Per quella me che poteva essere e non è mai stata provo una tremenda nostalgia. Ma poi non ho tempo di pensarci perché subito la testa si riempie nuovamente dei suoi unici pensieri. Siccome l’ho offesa, l’ambizione mi minaccia.

E se la scrittura mi abbandonasse, un giorno?

Ma quel dolcissimo suono delle parole dei grandi scrittori sulla carta quando leggi, quel vento infuocato di gioia e terrore quando scrivi. Questo. Tutto questo.

Rimarrebbe qualcosa di me senza tutto questo, Mario? Qualcosa di noi?

Antonella Lattanzi (Bari, 1979), scrittrice e sceneggiatrice. I suoi ultimi libri sono “Devozione” (Einaudi, 2010), “Prima che tu mi tradisca” (Einaudi, 2013), “Una storia nera” (Mondadori, 2017), “Questo giorno che incombe” (HarperCollins, 2021) e “Salvarsi”, (Einaudi, Quanti, 2021). Il suo ultimo racconto è nell’antologia “Willie lo Strambo” (Sperling & Kupfer), ora in libreria.