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La ninnananna del tempo perduto

Anna cerca ancora la sua infanzia, Maria l’ha ritrovata in una voce al telefono, una sera. Ma molti bambini del ghetto di Varsavia non sanno nulla di chi li ha amati, cullati e poi salvati facendoli scappare e affidandoli ad altri. Storia di un viaggio di ritorno: alla ricerca ostinata della memoria e del primo abbraccio. Della prima musica mai ascoltata

Sono anni che cerco i miei genitori o qualcuno della mia famiglia. Ho esaurito tutte le possibilità. Non mi ha aiutato nessuno, nemmeno la Croce Rossa. Per questo le chiedo vivamente che il mio caso sia reso pubblico. Forse, con il suo aiuto, qualcuno risponderà a questo appello. Forse qualcuno, qualcuno della mia famiglia, mi troverà. Vorrei tanto che questo momento arrivasse il più presto possibile…”. Anna Zielonka scrisse questo appello su una vecchia macchina per scrivere e lo mandò, circa vent’anni fa, allo scrittore polacco Henryk Grynberg. Anna cercava le sue origini, cercava il ricordo dei suoi primi anni di vita, cercava la sua ninnananna e la sua identità. Cercava la prova di essere stata amata dai suoi genitori ebrei e polacchi che la misero al mondo nel 1938. “I miei genitori, quando non poterono più nascondersi, mi consegnarono a una coppia che aveva perso la figlia di due anni. Mi diedero il certificato di nascita della bambina morta. Aveva forse due anni più di me, ma a quei tempi era una cosa che si poteva nascondere. I miei genitori diedero a quella coppia i documenti e molti gioielli. Dissero che se qualcuno di noi fosse sopravvissuto si sarebbe fatto vivo e li avrebbe ricompensati per avermi salvata. Altrimenti, a diciott’anni dovevano restituirmi i documenti. In realtà qualcuno della famiglia tornò a cercarmi dopo la guerra, ma loro dissero che io ero morta e che i documenti si erano persi. La mia tutrice, tutto quel poco che so l’ho saputo da lei, mi disse poi che la famiglia di suo marito, l’uomo che mi ha cresciuta, voleva impossessarsi delle proprietà dei miei genitori. E che tutti i documenti di famiglia e i gioielli li aveva la sorella di suo marito. Lei purtroppo diceva di non ricordare i nomi dei miei genitori né la mia data di nascita: soltanto che avevo quattro anni quando sono stata affidata a loro. Così ho chiesto i documenti a quella donna. Le ho assicurato che non volevo nuocerle: desideravo solamente ritrovare qualcuno della mia famiglia. Lei prima negò tutto e poi mi disse che non mi avrebbe restituito nulla, tanto io non avevo prove. L’ho denunciata, ma non è successo niente. Non ho mai nemmeno avuto una risposta. Solo un anno fa ho scoperto qualcosa da una persona che è venuta a trovarmi dopo la morte della mia tutrice. Ha fatto i nomi di Engenstadt o Engenstein e Rosenberg, e Elisabeth (probabilmente è il mio vero nome), Róza (forse era mia madre) e Samuel. Anche se non è certo come si chiamassero i miei genitori, forse qualche altro parente è vivo e ricorda che avevano una figlia, o che c’era una bambina piccola in famiglia da cui i genitori dovettero separarsi per salvarla…”.

Anna forse si chiama Elisabeth, ma non ne ha la certezza, forse sua madre si chiamava Ròza e di certo sperava di rivedere sua figlia. Non è successo. Quante madri sommerse, quanti bambini ancora in cerca di madre dopo settant’anni.

Lo scrittore Henryk Grynberg, nato nel 1936, emigrato nel 1968 negli Stati Uniti in seguito alla campagna antisemita del regime comunista, è noto anche in Italia per I bambini di Sion. Il viaggio più lungo (Felici Editore, 2019), dove ricostruisce la storia di bambini ebrei polacchi che, passati dalle violenze del Terzo Reich alle deportazioni nell’Unione Sovietica, a partire dal 1942 furono liberati e fatti fuggire in Palestina. Anna Zielonka si è rivolta a lui per questo, ma il suo appello, ostinato e tumultuoso, conteneva il riferimento anche a un altro libro: “Ho anche scritto a New York, alla casa editrice che ha pubblicato, nel 1945, un libro della signora Mary Berg, Il Ghetto di Varsavia: diario di Mary Berg. La signora Berg era nel Ghetto di Varsavia durante l’occupazione. Sto cercando un contatto con la signora Berg, perché mentre era nel Ghetto potrebbe aver conosciuto i miei genitori o qualcuno della mia famiglia, o potrebbe aver sentito parlare di un caso come il mio”. Mentre era nel Ghetto, Mary Berg si chiamava in realtà Miram Watterberg ed era poco più che una bambina. Tra il 10 ottobre 1939 e il 5 marzo 1944, scrisse un diario della sua vita nel Ghetto di Varsavia (Il ghetto di Varsavia, Einaudi 1991) prima di scappare negli Stati Uniti: fu salvata perché sua madre aveva la cittadinanza americana e i tedeschi, per uno scambio di prigionieri, liberarono l’intera famiglia e permisero loro di lasciare la Polonia. Uscito subito, a guerra ancora in corso, negli Stati Uniti (L.B. Fischer, 1945), e anche in Italia (Edizioni De Carlo, Roma 1946), il Diario di Mary Berg è stato in assoluto la prima testimonianza diretta dell’Olocausto. Il primo racconto sui bambini del ghetto.

E’ impossibile sapere quanti bambini ebrei polacchi riuscirono a sopravvivere alla Shoah. Molti di loro persero l’identità, la scambiarono con la salvezza. Soprattutto i più piccoli si ritrovarono senza nulla, furono cancellate le loro origini, assieme ai loro genitori e parenti, assieme alla memoria. Chi si ricorda dell’abbraccio e del profumo di sua madre a un anno di età, se non attraverso il racconto o la ripetizione di quell’abbraccio e di quel profumo, o almeno attraverso la fotografia di uno sguardo ridente sopra un abito scuro?

Nel 1987, a New York, fu aperta una Fondazione che ha tra i suoi scopi quello di rintracciare i “bambini della Shoah”. Il suo fondatore è Ronald Steven Lauder (1944), miliardario, proprietario assieme al fratello Leonard della multinazionale di cosmetici Estée Lauder creata dai suoi genitori nel 1946, politico conservatore, collezionista d’arte (nel 2006 acquistò, per 135 milioni di dollari il con-

teso       dipinto Ritratto di Adele Bloch-Bauer di Gustav Klimt), presidente del World Jewish Congress. L’ufficio di rappresentanza polacco della Fondazione Ronald S. Lauder iniziò la sua attività nel 1991, con il permesso del ministero della Cultura e dell’Arte, sotto

la direzione del rabbino Joseph Kanofsky. In decine di giornali polacchi furono pubblicati annunci che invitavano quelli che erano stati bambini durante la Shoah a presentarsi a incontri che si tennero in varie città. Quelli che avevano dubbi, quelli che sapevano qualcosa, quelli che erano alla ricerca di un vero cognome, quelli che non sapevano a chi chiedere. Alcuni di loro hanno ritrovato i propri parenti. Altri non hanno ancora trovato nulla.

Maria Kowalska è nata il 26 dicembre del 1939 a Vilnius (Wilna), prima e unica figlia di due avvocati: Jakub Abramowicz Fajnsztejn e Chana Nasielewna Zusmanowicz. Fu chiamata Masza. Nel giugno del 1941 furono rinchiusi tutti nel Ghetto della città (a Wilna abitavano circa centomila ebrei, il 45 per cento della popolazione, c’erano un centinaio di sinagoghe e la città era chiamata “la Gerusalemme del Nord”). La madre, sicura che sarebbe morta, approfittò del fatto che era autorizzata a uscire dal Ghetto per lavorare e nell’ottobre del 1941 portò Masza fuori con sé (il tedesco che controllava gli ebrei si voltò dall’altra parte), la consegnò alla sua giovanissima tata, non sappiamo cosa si dissero, ma non rivide sua figlia mai più: “La mia tata era una polacca, che mi registrò col suo cognome, modificando la data di nascita. Divenni Maria Butkiewicz, nata il 12 maggio 1939 a Vilnius. A causa della vita nel Ghetto ero piuttosto malata. Iniziò un periodo di nascondigli e fughe continue. Ricordo i risvegli notturni e le corse nei boschi, attraversati dai tedeschi in motocicletta che ci cercavano. Pur mezza assonata dovevo essere in grado di dire come mi chiamavo e dimostrare che non ero un’ebrea. Anche se era difficile perché avevo i capelli ricci e neri. Tutta la mia famiglia fu sterminata”.

Dopo la fine della guerra e l’occupazione sovietica della Lituania, la tata e Maria si trasferirono in Polonia, viaggiando su un carro merci stipato di gente e bestie. Furono sistemate assieme ad altri profughi nei territori tolti alla Germania, a Wegorzewo, una cittadina semidistrutta vicino a Olsztyn (la tedesca Allenstein): “Ricordo il primo albero di Natale. La tata portò l’albero e creammo gli addobbi con la carta da parati tedesca. Accendemmo due candele in candelieri di metallo, che illuminavano l’intero albero di Natale. Una stella era appesa sulla punta e dai ramoscelli pendevano delle caramelle e tre biscotti. I nostri alberi di Natale divennero ogni anno più ricchi, ma considero il primo il più bello di tutta la mia vita. Stavo a fissarlo per ore. Nella stufa di maiolica c’era il fuoco, una lampada a olio sul tavolo e la stanza era così calda e accogliente che non volevo mai andare a dormire. Non volevo perché di notte avevo spesso gli incubi, sognavo le fughe e il freddo, quell’altro mondo in cui non avrei mai più voluto tornare. Quegli incubi mi perseguitano ancora oggi”.

Maria era spesso malata: una bambina debole e anemica. La tata le insegnò a leggere e scrivere. Si diplomò nel 1957 e subito andò a lavorare come ragioniera: “Con i primi soldi che ho guadagnato (ricordo: 600 złoty, quasi mezzo stipendio di un operaio) ho comprato un cretonne colorato per un vestito per la mia tata e ho pagato una sarta. La tata ha mostrato il vestito a tutti i vicini. Eravamo così felici. Nel 1957, a 19 anni, mi sono sposata: ho tre figli, quattro nipoti. Tutti i miei figli sono stati tirati su dalla mia tata, che è rimasta con noi fino alla fine dei suoi giorni, nel 1990”. Alla tata di Maria è stata conferita postuma, nel 1992, la medaglia di Giusto tra le Nazioni.

“Nel luglio 2003 mio marito è morto e sono rimasta sola. Non ho mai pronunciato le parole: mamma, papà, zio, zia. Avevo un grande sogno: parlare con qualcuno che avesse conosciuto i miei genitori e potesse dirmi qualcosa di loro. Quello che è successo può essere definito una coincidenza, la mano della Provvidenza o semplicemente un miracolo. Nel giugno del 2006 avevo deciso di partecipare a un viaggio organizzato in Israele. Alla vigilia della mia partenza, di sera, il telefono squillò. La voce di una giovane dell’Associazione Bambini della Shoah chiese:

–              Sto parlando con Maria Kowalska?

–              Sì.

–              E’ la signora Masza Fajnsztejn?

–              Sì.

–              Lei ha pubblicato, nel 2003, tramite noi, un appello su Internet per trovare la sua famiglia? Le passo una persona.

Ciao, cara Masha, sono tuo zio: Daniel Fajnsztejn…

Ci siamo messi a piangere. Erano passati 65 anni. Lo zio mi aveva visto per l’ultima volta nel Ghetto, quando avevo due anni, prima che mia madre mi portasse via di nascosto. Ci siamo dati appuntamento in un hotel sul Mar Morto. Lui era con sua figlia: avevo una cugina. Abbiamo parlato fino a sera. Due giorni dopo mio zio ha organizzato una riunione di famiglia in un hotel di Tel Aviv. Sono arrivati la zia Lea, sua figlia, lo zio con le sue figlie e il figlio, i suoi generi, il nipote della zia Dina con la moglie e il figlio: erano circa 30 persone. Per tutta la vita ho avuto solo la mia tata, in un istante mi sono ritrovata una famiglia numerosa”. Per Maria è stato un miracolo, per molti resta una speranza in lotta contro gli anni che passano in silenzio, uno dopo l’altro.

Ronald Lauder ha assunto per le ricerche il rabbino Chaskel Besser, fuggito dalla Polonia nel 1939: andava di città in città e di villaggio in villaggio in tutta la Polonia e annunciava che stava cercando degli ebrei, e che chiunque sapesse di essere ebreo doveva andare in un certo hotel in una certa data e a una certa ora. In un posto trovarono dieci ebrei, in un altro cinque, ma a Katowice erano centocinquanta.

Nel giro di due anni il rabbino Besser aveva localizzato tremila ebrei.

Durante gli incontri, nei saloni degli alberghi polacchi, si presentarono in molti, quasi anziani, smarriti, molto più di Maria, disorientati, che spesso non sapevano nemmeno se erano davvero di origine ebraiche: le bambine soprattutto, ma anche i bambini che non avevano fatto in tempo a essere circoncisi (o, per prudenza, i genitori avevano preferito rimandare la cerimonia). Erano stati adottati quando erano molto piccoli, parecchi di loro erano stati educati al cattolicesimo. Non avevano ricordi. Per molti anni, anche se sospettavano che i loro genitori ufficiali non fossero i loro genitori naturali, avevano preferito non fare domande oppure non avevano avuto nessuna risposta: sguardi altrove. I sospetti però arrivavano da foto sbirciate di nascosto, da voci di amici di famiglia, dal confronto tra i propri tratti somatici, tra i propri ricci neri e i capelli biondissimi dei genitori. Da qualcosa di profondo ma difficile da dire, da capire, anche da chiedere. Dalla sensazione di un pezzo mancante. Ma è impossibile, in mancanza di documenti o di testimonianze, risalire alle origini e ritrovare una memoria. Se avevano dovuto dire addio alla mamma, se si erano disperati e ribellati, se avevano avuto troppa fame e troppa paura, l’avevano sepolto sotto il peso degli anni.

Durante uno di quegli incontri, in cui nessuno era in grado di dire qualcosa di preciso, nessuno sapeva nemmeno se avesse un senso essere lì, magari era un abbaglio, o era troppo tardi, e se ne stavano tutti in silenzio, incerti, spaesati, in attesa che qualcosa accadesse, il vecchio rabbino Besser, che aveva girato tutta la Polonia in cerca di persone smarrite, cantò all’improvviso una dolce e popolare ninnananna yiddish: Rozhinkes mit mandlen (uvetta e mandorle).

Fu allora, con quella nenia, che arrivò il pianto, e attraverso il pianto la certezza di essere stati bambini. Proprio quei bambini. Cullati, amati, salvati.

Francesco Cataluccio (Firenze, 1955), scrittore e saggista. Ha vagabondato a lungo in Polonia e nel Centro Europa. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Tra i suoi libri: “Immaturità. La malattia del nostro tempo” (Einaudi, 2004), “Vado a vedere se di là è meglio” (Sellerio, 2010), “Chernobyl” (Sellerio, 2011), “La memoria degli Uffizi” (Sellerio, 2013), “In occasione dell’epidemia” (Casagrande, 2020).