Cerca

La realtà ci chiama per essere squarciata

Tra le conseguenze più terribili del Covid c’è stata la sospensione dei riti funebri. I funerali a un certo punto sono stati vietati o ridotti a meno dell’essenziale, privando la nostra civiltà di una delle sue pratiche più antiche e fondanti. Le conseguenze, sul piano emotivo, sono state gravi seppure prive di un metro di misurazione. Un dolore invisibile, ma reale. In mancanza di una comunità che attesti ritualmente la scomparsa di una persona cara, l’elaborazione del lutto non può nemmeno cominciare. Si rimane sospesi in un limbo angosciante. I morti non sono morti, dunque non sono forse stati mai nemmeno vivi. O al contrario sorge il sospetto che siamo noi, senza rendercene conto, a essere entrati nel regno delle ombre. In quale dimensione ci troviamo? Vaghiamo nel bardo o siamo sempre sulla terra? Con l’allentarsi del rischio pandemico, i funerali hanno poi ripreso a essere celebrati. Come per ogni trauma, stiamo affrettandoci a dimenticare che un periodo simile (un mondo senza esequie) sia davvero esistito, ma molti di coloro che sono stati esclusi da questa pratica – parenti o amici di chi è morto in quel periodo – faticano a capacitarsene, continuano a soffrire. Ci sono pilastri spezzati senza i quali tutto rischia di venire giù.

Può sembrare strano che inizi un pezzo in cui cerco di riflettere sulla letteratura – e su quel sempre più frequentato filone che è la non fiction – parlando di funerali e pandemia. Da qualche tempo, in realtà, credo di essermi reso conto di quanto la pratica letteraria, in particolare quella che rinuncia alla finzione, possa venire utilizzata come dispositivo rituale, e di cosa questo significhi in un’epoca che mette i rituali fuori dalle pratiche necessarie a tenere insieme una comunità. Per lo più i rituali vengono ridotti a feticci, simboli vuoti, parodie ridicole. Una simile riflessione nasce anche da una vicenda personale. In anni recenti ho scritto un’opera letteraria di non fiction. È stata un’esperienza nuova per me, molto importante, ma ho capito forse con ritardo, cioè dopo aver finito il libro, in quale dimensione ero davvero entrato. Nello specifico, mi sono occupato di un caso di cronaca nera: l’omicidio di un ragazzo torturato e ucciso senza motivo da due quasi trentenni a Roma, la città dove vivo ormai da tempo.

È singolare che il mondo anglofono abbia coniato un termine per definire questo tipo di letteratura (non fiction novel) mentre da noi una definizione manchi. Quando parlavo in pubblico del libro che avevo scritto i miei interlocutori mi riportavano a opere molto note e importanti come A sangue freddo di Truman Capote. I più avvertiti citavano Compulsion di Meyer Levin. Oppure, svincolandosi dalla cronaca nera, ripercorrevano l’epopea del new journalism fino alle (da me peraltro molto amate) varianti gonzo di Hunter Thompson. Tutto giusto. Ma se c’è una civiltà letteraria che si è addentrata in questi territori in tempi più remoti, toccando vette difficilmente raggiungibili, è quella del nostro paese.

Nel XIX secolo il romanzo era lo specchio della borghesia. L’Italia ha avuto una borghesia più fragile rispetto a quella della Francia, dell’Inghilterra o degli Stati Uniti. Un ricorrente carattere ibrido o non canonico della nostra letteratura è una conseguenza di questa fragilità. Oggi, che la borghesia viene sostituita da qualcosa che non riusciamo ancora a nominare (qualcosa che ci rattrista, o che temiamo) la forma ibrida acquista un peso diverso quasi ovunque. Ma prima di arrivare al presente torniamo pure a un libro come Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Non si tratta di un romanzo, e tuttavia non è un saggio di antropologia (dai cui codici pure attinge) né un lungo reportage (i cui strumenti usa) né un memoir o come si direbbe oggi un’autofiction (seppure chi dice “io” sia proprio l’autore). Il Cristo di Levi è un’opera letteraria che, rinunciando alla finzione, porta come nessuna altra forma narrativa in superficie – a beneficio di quello che all’epoca fu un pubblico internazionale – un mondo sconosciuto. Cos’è poi Se questo è un uomo di Primo Levi? Purtroppo non è un’opera di finzione (seppure a un lettore del XIX secolo sarebbe potuta sembrare fantascienza) e non è la nuda cronaca di uno dei più orrendi crimini di cui si è macchiata l’umanità. Indubbiamente è un’opera letteraria. Ci si potrebbe domandare: non basterebbe un etnologo per raccontare i contadini lucani degli anni Quaranta del Novecento? E, per affrontare il tema della Shoah, perché mai dovrebbe essere insufficiente il lavoro dello storico, del filosofo, del sociologo, dello psichiatra, del teologo? Naturalmente la storiografia, come la filosofia e le altre discipline citate possiedono una capacità d’indagine che nessuna opera letteraria può presumere di rimpiazzare. Di contro, ci sono aspetti della realtà su cui solo lo scrittore riesce a gettare luce. In certi casi per farlo deve rinunciare alla finzione.

Come funziona dunque la non fiction? Faccio uno solo degli esempi possibili. Una singolare capacità di riorganizzazione drammaturgica degli eventi osservati, la retorica del procedere per punti di domanda o al contrario per affermazioni icastiche, un uso poetico anche della più asciutta delle lingue, un determinato tipo di coinvolgimento emotivo interdetto ad altre forme di racconto: tutte insieme, queste attitudini, tendono per così dire una trappola alla realtà, dentro cui le cose per qualche attimo ci appaiono diverse. Non voglio dire che le cose si rivelano per ciò che sono, ma di sicuro mostrano un aspetto importante, fanno sì che la realtà produca in noi quel sentimento senza il quale – di fronte a un mondo altrimenti ridotto a un cruciverba atroce – non riusciremmo a riconoscerci, gli uni attraverso gli altri, come esseri umani. Tutto questo è centrale per la letteratura d’invenzione, ma a volte è la realtà che da una parte ci chiama brutalmente a sé mentre dall’altra ci domanda, per non distruggerci emotivamente o spiritualmente, di essere squarciata attraverso quel tipo di sguardo.

Avvicinandoci al presente, emergono altri aspetti di questa particolare forma di racconto. È importante che gli scrittori di oggi continuino a inventare le loro Clarissa Dalloway, i loro Gregor Samsa, gli Achab e i Marlow disposti a traghettarci nelle zone più inquiete della contemporaneità. La finzione resta centrale, la realtà ha bisogno di nuove maschere per continuare a dire il vero. Eppure, insieme con i romanzi sembra che negli ultimi anni abbiamo avuto un gran bisogno di leggere anche opere letterarie in grado di affrontare eventi e situazioni davvero accaduti. Perché questo improvviso interesse? Siamo tutti a corto di immaginazione? Una risposta potrebbe risiedere nel fatto che il mondo ci appare sempre più incomprensibile. Pur di ridurre la sensazione di smarrimento, siamo disposti a usare la letteratura come stampella. È così? Non credo che la realtà sia più complicata di quanto non fosse ai tempi dei nostri nonni o bisnonni. Il mondo, per noi umani, è da sempre un posto incomprensibile. Ciò che manca, rispetto a un passato anche recente, sono piuttosto delle griglie interpretative universali capaci di farci assegnare, in tempo reale, un significato ufficiale (magari da smentire col tempo) al mutevole spettacolo del mondo. Lo era il marxismo, un codice interpretativo di questo tipo, e lo era il capitalismo. Ma questo succedeva prima che il comunismo crollasse e che l’economia sfondasse l’urna dentro cui produceva una musica accettata e desiderabile. Una formidabile griglia di interpretazione universale è stata, per la civiltà occidentale, il cristianesimo. Adesso siamo temporaneamente privi di una Stele di Rosetta che ci mostri la realtà come qualcosa di più compiuto rispetto alla minacciosa massa informe da cui veniamo travolti ogni mattina. Le informazioni che ci bombardano senza sosta (quelle sì, cresciute in modo abnorme) producono in noi una sensazione di accecamento, non di messa a fuoco. Ecco, però, che se quelle stesse informazioni vengono intercettate da una forza (la letteratura) in grado di selezionarle, gettando via il superfluo ed esercitando su ciò che resta una torsione di tipo poetico, linguistico, una tensione estetica, ciò che un attimo prima sembrava una lingua sconosciuta fa vibrare le nostre corde in modo da produrre un vero significato, forse un’illuminazione.

Non è solo questo.

Il posto è una delle opere più significative di Annie Ernaux. Non si tratta di un romanzo. È il libro in cui la scrittrice francese, in modo programmaticamente frammentario, fa i conti con suo padre morto anni prima. Si direbbe un memoir, ma le definizioni stanno strette a questo tipo di racconti. Ernaux non scrive per indagare i meccanismi della memoria involontaria ma per dare ai morti una seconda sepoltura. Non si tratta di andare alla ricerca del tempo perduto, ma di riscattarlo. Da cosa? Dalla vergogna della subalternità, per esempio, dall’ingiustizia sociale che diventa trauma famigliare. Ma come ricordare tutto? La memoria privata, chiusa in se stessa, è inaffidabile. Ecco che Ernaux usa il metodo analogico. “Non potevo far affidamento nelle reminiscenze”, scrive, “è nel modo in cui le persone si siedono e si annoiano nelle sale d’attesa, si rivolgono ai figli, salutano sui binari della stazione che ho cercato la figura di mio padre. La realtà dimenticata della sua condizione l’ho ritrovata in personaggi anonimi incontrati qua e là, portatori a loro insaputa dei segni della forza o dell’umiliazione”. Che magnifica poetica! Utilizzare i vivi nel mondo reale per farsi medium e rievocare i morti. Non siamo forse dalle parti del rituale?

L’uso della letteratura di non fiction come rituale è ancora più chiaro nell’intera opera di un’altra protagonista della letteratura contemporanea, il premio Nobel Svetlana Aleksievicˇ. In un libro superbo come Preghiera per Chernobyl, Aleksievicˇ ritorna sull’incidente alla centrale nucleare che nel 1986 sconvolse l’area intorno a Pripyat, aprendo un capitolo di Storia del tutto nuovo. Per farlo interpella dopo anni molte persone coinvolte nel disastro. Madri di famiglia, ex soldati, gente comune del tutto ignara di ciò che stava succedendo, ma anche ingegneri, dirigenti del partito, addetti alla centrale… Aleksievicˇ intervista tutti loro, raccoglie decine di voci, poi le monta costruendo in modo sapiente un coro – commovente e radioso pur nella disgrazia – capace di contrapporsi al canto mortifero della centrale. In questo modo Aleksievicˇ riattiva di fatto una comunità, compie una sorta di esorcismo, riorganizza ritualmente intorno al male chi l’ha subìto, in modo che il trauma venga elaborato nell’unica forma che può farcelo superare: quella collettiva.

Un attento lettore di Aleksievicˇ era Alessandro Leogrande. Fatico a parlare di lui, eravamo amici. Proverò a condividere un ricordo consono al discorso che stiamo facendo. Dopo la sua morte prematura, la prima città a dedicare una strada a Leogrande è stata Tirana. Non Taranto e non Roma, ma la capitale albanese. Ho un ricordo vivo di quel giorno perché fui tra gli italiani invitati a presenziare all’evento. Era il settembre del 2018. Per i lettori albanesi era importante commemorare Leogrande perché, tra le altre cose, aveva scritto Il naufragio, un libro in cui viene raccontato lo speronamento da parte di una corvetta della Marina militare italiana della Katër i Radës, una motovedetta albanese piena di migranti. Nel naufragio morirono 81 persone, per lo più donne e bambini. Per comporre il suo libro Leogrande utilizzò una strategia non così lontana da quella di Aleksievicˇ. Intervistò superstiti, parenti delle vittime, avvocati, autorità albanesi, alti gradi della Marina militare italiana, e così via.

Quando a Tirana, dopo l’inaugurazione della strada, seguì un dibattito pubblico, successe una cosa per me sorprendente. I lettori albanesi non erano grati a Leogrande per aver fatto conoscere all’estero il naufragio della Katër i Radës, ma per averlo ricordato a loro. Avevano incredibilmente rimosso la vicenda, l’avevano cancellata involontariamente dal dibattito pubblico. Ed ecco che uno scrittore italiano faceva riemergere tutto. Leogrande, con il suo libro, aveva anche in questo caso riattivato una comunità, predisposto un rituale per affrontare un trauma che altrimenti avrebbe continuato a fare danni come accade a ogni oggetto di rimozione, cioè in modo invisibile e ancora più insidioso.

Collegando il presente al passato remoto: un dispositivo di questo tipo scattava come sappiamo nel teatro greco, nella sua capacità di rovesciare la tragedia in catarsi. Riesco a malapena a immaginare che colpo sia stato, per gli ateniesi, assistere per la prima volta a Edipo Re. Succedeva con il teatro nel mondo classico, ma succedeva ancora prima – in modo per noi forse meno comprensibile – con i riti sciamanici. Succedeva quando a chi raccontava storie veniva dato il compito non di inventare ma di “riportare”, di “riferire” ciò che, altrimenti invisibile, o indicibile, aleggiava realmente sulla comunità di cui faceva parte.

Mentre scrivevo il libro di cui parlavo prima, ero turbato da come l’omicidio avesse eretto istantaneamente un muro di incomunicabilità tra le famiglie dei ragazzi coinvolti. Un silenzio che nessuno è riuscito a scalfire. Nessun membro delle tre famiglie ha avuto cioè la forza di contattare anche un solo componente delle altre. Ciascuno è stato lasciato solo nel suo dolore, nella sua vergogna, nel suo risentimento. Favorire un contatto, in questi casi, non è propedeutico a una riconciliazione obbligata (non si può pretendere tanto) ma serve affinché una parte riconosca almeno l’esistenza dell’altra. L’assunto è che ci sono dentro di noi dei nodi che a volte stringono in modo terribile, e che non l’amico o il fratello, ma solo l’altro difficile è in grado di allentare. Se chi subisce un danno grave viene lasciato solo, è difficile che riesca a ottenere un simile risultato contando sulle proprie forze. Serve una comunità. Il problema è che il mondo laico – a parte i funerali, con cui abbiamo iniziato questa riflessione – non ha saputo elaborare, o aggiornare, dei rituali collettivi che aiutino i singoli a contenere l’incommensurabile, a superare molti dei traumi con cui la vita prima o poi ci travolge, o a segnare degnamente altri momenti di passaggio. Sul piano del diritto uno di questi dispositivi è senza dubbio la giustizia riparativa, che in modo ancora troppo timido fa capolino nel nostro ordinamento. Un altro, sorprendentemente, potrebbe essere la letteratura. Quello di cui parlo non ha troppo a che fare con concetti quali l’impegno, l’utilità pratica o l’urgenza civile, non almeno per come li abbiamo conosciuti nel secondo Novecento. È qualcosa di più antico che, forse, ci attende acquattato in un possibile futuro.

Non ho dubbi che lo sia, una forma antica e futura di letteratura, quella di Aleksievič, di Leogrande, di Ernaux, o di Masha Gessen, altra autrice nata nella ex Unione sovietica che con Il futuro è storia (un libro in cui racconta il passaggio dalla Russia comunista a quella di Putin) porta questo genere su territori ancora più audaci.

Posso avere dubbi su me stesso. Mi sono chiesto per esempio se, pur usando alcuni strumenti della tradizione letteraria, io non mi fossi inavvertitamente spinto fuori dal campo della narrativa. Il sacro cerchio della letteratura! Ci ho messo tanto per ricevere un passaporto, un attestato di appartenenza, e adesso lo getto alle ortiche? E se anche fosse? Mi sono risposto che non è più così importante per me, tanto mi sembra vivo e affascinante, qualunque nome vorremo dargli, questo nuovo centro di tensione, questo campo di indagine, e questa pratica.

Nicola Lagioia (Bari, 1973), scrittore. Direttore del Salone internazionale del Libro di Torino dal 2016, è una delle voci di Pagina3, la rassegna stampa culturale di Rai Radio 3. Ha vinto il Premio Strega nel 2015 con il romanzo “La ferocia” (Einaudi, 2014). Il suo ultimo libro è “La città dei vivi” (Einaudi, 2020).