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La rivincita delle sciure di Osaka

Nei suoi racconti, Matsuda Aoko frantuma gli stereotipi sulle donne, racconta zitelle, fantasmi, baby-sitter ultraterrene e riscatta “seduttrici” che non lo erano. Chiacchierata sul femminismo, la fantascienza, la società patriarcale giapponese e la maternità che annuisce ai sogni

Matsuda Aoko è una scrittrice della new wave femminista giapponese che combatte a colpi di sci-fi il conformismo, l’asservimento alle dinamiche produttive e di consumo e il cliché della donna geisha. La sua raccolta Nel paese delle donne selvagge rivisita il folklore giapponese e le storie del teatro kabuki, e racconta di fantasmi di donne offese dalla società che tornano come revenants nel mondo contemporaneo a vendicarsi, creando una commistione tra yo¯kai e frappuccini di Starbucks, resa possibile solo dall’irrompere del registro del comico nella lingua del mito. A dicembre, è in Italia per ritirare il premio letterario Tokyo-Roma, riconosciuto proprio a quest’ultima opera di successo mondiale, e alla traduzione di Gianluca Coci. Ho incontrato l’ex bambina amante di ghost-stories cresciuta ai piedi del castello di Himeji, e abbiamo parlato di fiabe, zitelle, baby-sitter ultraterrene, del potere dei peli superflui e di donne incredibili morte decine o migliaia di anni fa.

In lingua originale, il titolo del tuo libro appena premiato è Nel posto delle obachan.

Obachan è la donna di mezz’età, la sciura di Osaka che veste animalier e offre caramelle, insomma un grande stereotipo di donna non-più-donna, a differenza dei maschi, che non hanno una data di scadenza. Mi piaceva dedicare la raccolta alle donne di mezz’età indagandole a 360 gradi, compresa la loro sessualità.

Il titolo tradotto, Nel paese delle donne selvagge, è una citazione del famoso libro illustrato di Maurice Sendak, Nel paese dei mostri selvaggi. La letteratura per l’infanzia è stata importante per te?

Fondamentale. In Giappone le bambine vengono educate a essere remissive e silenziose. Io leggevo Pippi Calzelunghe e Mary Poppins. Avere dei modelli comportamentali di ragazzine vivaci, forti e scapestrate mi ha incoraggiata. Solo da grande ho realizzato che queste avventure erano scritte da donne. In qualche modo sono stata protetta da queste figure femminili, e averle incontrate è stata una specie di miracolo.

Ultimamente, il caso di femminicidio di una giovanissima ha scosso l’Italia. Nel tuo racconto Hina-Chan, ispirato a La pesca dello scheletro, parli di una ragazza che è stata uccisa da un parente per aver rifiutato un matrimonio combinato. Qual è lo stato delle cose in un paese patriarcale come il tuo?

In Giappone, da sempre le molestie sono state trattate e giustificate come fenomeno culturale. Io stessa ne ho subite, senza mai pensare che fossero argomento di conversazione. Le ragazze in Giappone crescono senza poterne parlare. In questo racconto, ho voluto immaginare un’altra donna che ripesca il cadavere della ragazza morta centinaia di anni prima, le ridà vita, la lava e si innamora di lei, risarcendo ogni donna violentata o uccisa di tutto l’amore di cui è stata privata.

Tu sei tradotta in inglese da un’autrice, Polly Barton, e traduci altre autrici, come Carmen Maria Machado. Machado nei suoi libri tocca il tema delicato della violenza tra lesbiche. Il tuo racconto è diametralmente opposto.

Esistono tanti tipi di violenza, ed è importante che siano tutte rappresentate. Anche la violenza sessuale sui maschi. Esiste e va raccontata. In questo caso, invece, ho voluto trasformare una storia truce di femminicidio in una specie di feel good queer.

Hai voluto riscrivere delle leggende. Pensi che sia importante aggiornare il patrimonio delle fiabe tradizionali?

Anche in Giappone, la maggioranza delle fiabe classiche ha protagonisti maschili. Penso a Momotaro, il bambino pesca, o a Issunboshi, la nostra versione di Pollicino. In queste storie la figura femminile ha un ruolo passivo o è considerata come ricompensa. In più, rispetto all’occidente, in Giappone il linguaggio è genderizzato: ci sono tratti tipici che rendono un dialogo prettamente femminile o maschile. Nel tradurre i libri per l’infanzia, tutt’oggi, c’è la tendenza ad accentuare questi aspetti genderizzati. Quando leggo a mio figlio, mi trovo spesso a dover neutralizzare il linguaggio.

Com’è stato accolto il libro in Giappone?

Favorevolmente: in Giappone però si tende a non dare valore politico alle opere letterarie. Così, molti lo hanno consumato come un mero diletto. Pensa che quando ho scritto Stackable [Impilabile, inedito in Italia], romanzo ambientato in un’azienda di uomini complimentosi e donne servizievoli, in casa editrice ero seguita da un uomo, e non avevo mai capito il potenziale femminista dei miei racconti. Poi un giorno è venuta da me una editor e mi ha detto: sai che le femministe giapponesi vanno pazze per quel che scrivi? Nei paesi di lingua inglese, invece, si è dato subito un forte significato politico al libro: non solo femminista, ma anche anticapitalista.

Infatti definire le tue riscritture femministe è riduttivo. Una delle short-stories è ambientata in un aldilà aziendale dove le persone continuano a essere stolidamente produttive. La critica alla società dei consumi è importante quanto quella femminista. Potremmo dire che il conformismo, prima ancora dei maschi, è il tuo nemico numero uno?

Di carattere, io sono portata a dubitare di tutto ciò che è considerato normale. È un tarlo che mi porto dietro da quando ero adolescente. Ho cercato di dar corpo al mio sospetto per la normalità attraverso racconti di fantasmi, romanzi colmi di mistero e perfino nel memoir sulla maternità [inedito anche questo]. Si intitola Dare un nome e smonta ogni definizione classica dell’essere donna e madre, getta sugli stereotipi una luce ridicola.

La scrittrice Ursula K. Le Guin nel 1988 ha dedicato una lezione universitaria a Jo March e al “dove hanno sempre scritto le donne”: molto spesso non in una stanza tutta per sé, ma sul tavolo della cucina, coi figli attorno. Tu dove scrivi?

Prima di avere un figlio eravamo solo io e il mio gatto e potevo dedicarmi alla traduzione e alla scrittura tutto il giorno e in ogni angolo della casa. Tutt’al più, ci infilavo qualche sessione di Netflix. Poi è nato un bambino, che oggi ha 4 anni, e adesso a casa mia regna il caos, al punto che mi è impossibile lavorare lì dentro. In Giappone per fortuna ci sono i family restaurant, posti a metà tra il ristorante e il fast food che accolgono le persone che vogliono lavorare in pace, e non le cacciano per ore.

 

Ho letto una tua affermazione bellissima: che la maternità non ha cambiato i tuoi pensieri principali. L’ho trovato poco comune: un messaggio molto “empowering” per le donne artiste.

È vero: la nascita di mio figlio ha messo ulteriormente in evidenza gli obiettivi che avevo già prima di essere madre. È stupefacente per me quanto io non sia cambiata con la maternità. Nemmeno i miei interessi sono mutati. Non ho mai capito l’espressione: l’arrivo di un figlio mi ha trasformato totalmente. I miei punti fermi sono rimasti tali. Al massimo, ho ampliato il mio raggio d’azione e ho potuto comprendere contesti prima estranei: nella raccolta, c’è il racconto di una mamma single e lavoratrice che viene soccorsa da una baby-sitter fantasma. L’ho scritto prima della maternità, e quando sono diventata madre ho sentito quel personaggio ancora più mio.

Hai iniziato a scrivere flash fiction perché le potessero leggere donne con poco tempo libero. Poi queste storie sono arrivate alla selezione finale dello Shirley Jackson Award.

È vero, The woman dies contiene 53 pezzi molto corti. L’idea mi è venuta chiacchierando con una delle assistenti del salone di parrucchiera che frequentavo. Era impegnata tutto il giorno al negozio per imparare il mestiere, e in più doveva anche studiare. Ho pensato per lei a delle letture brevissime che fossero rigeneranti. Una volta sono entrata in un bar e la proprietaria mi ha riconosciuto. Mi ha detto: «Sei Matsuda Aoko. L’unica cosa che sono riuscita a leggere postpartum è The woman dies!».

Le obachan sono le donne di mezz’età. Ojisan invece è l’uomo di mezz’età, il bersaglio di tanta tua satira sociale.

Gli ojisan sono al centro di The sustainable use of our souls, ancora inedito in Italia: un romanzo di fantascienza femminista sulla cultura giapponese delle pop-idol, che rappresentano precisamente il modo in cui in Giappone si vorrebbe fossero le donne: sorridenti e carine, quasi dei dispositivi per l’intrattenimento maschile. È la società scolpita dagli ojisan, gli uomini di mezz’età in completo nero che in Giappone occupano tutte le poltrone e definiscono ciò che ha valore in base ai loro interessi.

Il panorama letterario è ancora affetto da questa distorsione dello sguardo?

In passato, per le donne era difficile emergere in letteratura perché i premi erano assegnati da uomini: invece, se ci guardiamo indietro, troviamo scrittrici estremamente pungenti, purtroppo fuori catalogo. Oggi, uomini e donne scrittori sono egualmente rappresentati: Internet ha aiutato e aiuta la molteplicità di voci. Ma i problemi non sono mica finiti: molestie e power harassment su tutti. Molti critici sono ojisan, e scrivono pezzi di critica a opere di donne in cui dimostrano di non aver capito niente.

Hai parlato di grandi scrittrici ingiustamente fuori catalogo. Quale fantasma di scrittrice del passato ti piacerebbe incontrare?

Mi identifico molto con Ishii Momoko, traduttrice di classici per l’infanzia come Peter Rabbit, e anche scrittrice che ha lavorato fino a quasi cent’anni. In particolare, ho amato Maboroshi no akai mi [Frutto rosso spettrale], il libro che scrisse da ultrasettantenne per riabilitare l’amica Ori Fumiko, morta giovanissima e diffamata nell’ambiente letterario come “seduttrice”: Momoko aveva un’idea diversa di lei, e prima di morire ha voluto scrivere questo grande romanzo sull’amicizia femminile. Mi piacerebbe incontrare anche Matsuda Tokiko, naturalmente fuori catalogo, scrittrice vicina al movimento operaio che affiancava politica e scrittura. Di recente, ho premiato un’autrice sedicenne e le ho consigliato Chichi o uru [Vendere il latte materno], sull’umiliazione del dovere andare a balia: persino un’adolescente può trovarlo potente e attuale. È un romanzo che, come le donne del mio libro, attraversa le distanze temporali in nome di una sorellanza universale.

Arianna Giorgia Bonazzi (Udine, 1982), ha pubblicato libri per adulti e ragazzi con Mondadori, Rizzoli, Feltrinelli, Fandango. Insegna alla Scuola Holden e cura progetti editoriali per Triennale Milano e Emergency. A maggio uscirà per i Topipittori il suo «Dizionario segreto d’infanzia».