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La rosa purpurea del Cairo, ma al contrario

Che cosa fai? Il giornalista. Di che cosa? Di cinema. “Ah, DI CINEMA!”. Dichiarazione d’amore e di guerra a questo mestiere tanto cambiato, ma tanto sognato. Che nasce da un’ossessione e da una felicità: stare dentro un film. Non dentro un hashtag

C’è un prima e un dopo la sdraio a righe bianche e rosse, ma serve innanzitutto una premessa. Questo è un pezzo sul giornalismo di cinema oggi, e voi direte “e che ce ne fotte?”, e fareste bene. Ma io, nella mia mitomania, m’illudo che corrispondano al vero, le reazioni dei tanti (ma tanti chi) attorno a me. I tanti che mi chiedono “cosa fai?”, io rispondo “il giornalista”, loro “il giornalista, e di cosa?”, e io “di cinema”, e quelli “ah, DI CINEMA!”. E gli brillano gli occhi anche se so benissimo che al cinema non ci vanno più, che non ci va più nessuno, però tutte le volte mi chiedo perché avvenga quella cosa lì, mi domando la ragione di quell’“ah, DI CINEMA!”. E allora voglio a provare a capire cos’è adesso questo mio disgraziato mestiere, cos’è cambiato, se è cambiato – spoiler, come dicono i giornalisti di cinema oggi: sì.

È la primavera del 2020, siamo tutti chiusi in casa, suonano alla porta, chi sarà?, mi metto la mascherina e scendo, sono le prime volte che ci dobbiamo mettere la mascherina per incrociare chicchessia e siamo ancora eccitati, vado al portone e vedo un tizio, mascherina anche lui, regge un pacco molto grande. Mio marito avrà comprato uno stendino nuovo, mi dico. O uno di quei piani d’acciaio per impastare la pizza, stendere le tagliatelle (era la primavera del 2020, le nostre case erano pastifici, erano bakery – a Milano diciamo così). Prendo il pacco, torno su, ma davvero ci serviva un altro stendino?, ma davvero non ci bastava il piano della cucina, per impastare la pizza? Apro il pacco, dentro c’è una sdraio a righe bianche e rosse. C’è pure un altro pacco, più piccolo. Una borsa da spiaggia, dentro cappellino, maglietta, un kit da picnic. Sta per uscire una serie che parla di amorazzi estivi su una nota piattaforma, finalmente capisco: è il pacco regalo. Ho un terrazzo, la sdraio verde è scassata, una nuova mi fa comodo.

C’è un prima e un dopo la sdraio a righe bianche e rosse. È questione di minuti. Il pacco sta facendo il giro di Milano, e ovunque arrivi genera automaticamente un post Instagram, una story, una diretta. Giornalisti di cinema – GdC, li chiamerò d’ora in avanti – che allestiscono piccoli set domestici, mettono la borsa per terra, il berretto in testa, la tshirt, si siedono sulla sdraio e si fanno fare la fotina, oppure si autoscattano. GdC che ridono come fossero in spiaggia, con la limonata, il ficus lyrata sullo sfondo, la ciabatta Zuckerberg, tutto social, tutto giusto. In ogni post viene taggata la piattaforma, ringraziato l’ufficio stampa, indicata l’uscita della serie in questione, il tal giorno alla tal ora. C’è un prima e un dopo la sdraio a righe bianche e rosse, e il dopo è il GdC medio che sente di poter diventare un influencer, e tutto cambia per davvero. Il mestiere era già cambiato, ora è ufficiale. È colpa della crisi, del Covid, della sdraio, non lo so. È una nuova Natività. Sarà una nuova croce però a forma di cancelletto, come gli hashtag #summer #fun #nomedinotoserviziodistreaming sotto la fotina.

Il modello su cui si foggia (si foggiava) il GdC, anche inconsciamente, è il Binx Bolling di The Moviegoer di Walker Percy, romanzofeticcio dei cinefili che definisce appunto la cinefilia come destino, addirittura come ricerca di dio. «Il fatto è che sono piuttosto felice quando sono dentro un film, anche un brutto film. Altre persone, così ho letto, collezionano momenti memorabili nella loro vita: salire al Partenone al tramonto, incontrare una ragazza una sera d’estate a Central Park […]. Anch’io una volta incontrai una ragazza a Central Park, ma non c’è molto da ricordare. Quello che ricordo è quando John Wayne uccise tre uomini con una carabina mentre cadeva sulla terra polverosa in Ombre rosse, o il gattino che Orson Welles trovò sull’uscio di casa nel Terzo uomo». Oggi tutto questo non esiste più. Oggi nessuno direbbe di aver “rubato i gesti ad Akim Tamiroff ” (oggi nessuno sa nemmeno chi sia, Akim Tamiroff).

Quando ho iniziato a fare il GdC io, m’hanno messo ad archiviare vecchie foto di film italiani. Quelle foto stampate su carta Kodak che nelle redazioni ancora resistevano, raccolte in qualche folder impolverato. Ricordo quelle del Viaggio della sposa di Rubini, Giovanna Mezzogiorno bellissima su distese di campi dorati: sarebbe stato tutto così bello anche in una foto digitale? Quando ho iniziato a fare il GdC io, era ancora un mestiere di carta e pellicola, anche se nel digitale c’eravamo già entrati. La gente al cinema ci andava ancora, le serie si chiamavano telefilm, i social da noi non erano ancora partiti, io a Facebook m’ero iscritto ma mi pareva un recinto per pochi, tutti americani che come me avevano spuntato, fra le passioni, la categoria “cinema”, e a cui rubavo battute intelligenti. Povero illuso.

Il GdC era il mestiere che sognavo di fare. Andare ai festival con l’accredito al collo: ci ero già andato qualche volta, da spettatore pagante, a Venezia soprattutto, e i GdC mi parevano una razza eletta. Andare alle anteprime di film che sarebbero usciti molti mesi dopo: quando cominciai a farlo, in quelle salette dietro la Stazione Centrale che ora non esistono più, mi sentivo eletto anch’io. Ricordo che una volta – era maggio o giugno, era il film che a settembre avrebbe aperto la Mostra – dissi a un’amica «io lo vedo domani», e mi sentivo fighissimo, e lei non mi diede nessuna soddisfazione, e io ci rimasi malissimo. (Avrei scoperto, già alla primissima Venezia da accreditato, che il GdC tipo invece si lava poco, è molto represso e pensa che la sua opinione conti moltissimo – in un consesso composto da altre quattro persone con più forfora di lui.)

Mi pareva un mondo bellissimo, un mestiere bellissimo. Lo è stato per un po’, coi pochi soldi rimasti tra una crisi e l’altra. Si andava ancora sui set in viaggi strapagati, in hotel a cinque stelle nel centro di Londra o New York. Quando finii su quello di Harry Potter, lì sì mi sentii fighissimo, perché a me di Harry Potter non fregava nulla, e proprio per quello i potteriani amici miei (potteriani più che maggiorenni, ma lasciamo stare) invece mi invidiarono moltissimo. Quindi fare il GdC era davvero una cosa cool, come si sarebbe detto molti anni dopo, come si direbbe oggi.

In Life Itself, Roger Ebert, uno dei due critici cinematografici più famosi d’America, annota: «Quando scrivo, entro in un territorio che molti scrittori, pittori, musicisti, atleti e artigiani di ogni sorta sembrano condividere: nel fare qualcosa che mi piace e in cui sono esperto, il pensiero consapevole si fa da parte, perché è già tutto lì». Ci si dimentica, oggi soprattutto, che il mestiere del GdC nasce dall’ossessione, prima ancora che dalla passione. E anche dalla mitomania. Si dice spesso che il GdC è un regista, un attore, uno sceneggiatore mancato, e probabilmente è così.

Nell’immaginario del cinema stesso, il GdC è perlopiù uno che incontra i personaggi famosi. E, di conseguenza, quasi sempre uno sfigato, tranne Mastroianni nella Dolce vita, ma quello non vale: vogliamo davvero paragonarci, noi GdC, a Marcello? Non esistono più le Hedda Hopper e le Louella Parsons di un tempo, sdoppiate in due gemelle nella croccantissima versione che ne dà Tilda Swinton in Ave, Cesare! dei Coen. La scena del junket del sottovalutato I perfetti sconosciuti è quella che forse modella meglio di tutte il GdC del secolo appena cominciato (il film è del 2001). Le due star John Cusack e Catherine Zeta-Jones, in piena promozione del loro film ma anche in piena separazione coniugale, vengono intervistate da una serie di GdC che sono lo specchio di quella che sarebbe diventata la professione e i suoi abitanti di lì a poco: c’è quello che fa l’amico dei famosi e gongola per il fatto che questi lo chiamino per nome; quella che ride e basta perché troppo emozionata, troppo fan; quello in cerca del titolo da clickbait, prima che si chiamasse così.

Di recente, la figura che più s’avvicina all’attuale GdC l’ho vista nella serie The Idol, che ha come sfondo l’industria discografica e non cinematografica, ma fa lo stesso. È la giornalista trans mandata a scrivere un ritratto di Jocelyn, la simil-Britney interpretata da Lily-Rose Depp. È il tipico prototipo del cronista di spettacoli di oggi, che non sa niente ma pensa di sapere tutto, che si fa bastare due chiacchiere su Zoom per scrivere un pezzo di ventimila battute, e che alla fine, per edulcorare l’articolo sprezzantissimo, si fa pagare dal manager della popstar in questione, in barba alla deontologia professionale – e anche perché i soldi nell’editoria sono davvero finiti. (O forse i GdC erano cialtroni pure quando le vacche erano grassissime. «‘I film non sono più quelli di una volta’, dice, poi insinua che un sedicente critico cinematografico ben noto a entrambi ha dei gusti schifosi, per non parlare del suo linguaggio da scaricatore», si legge nelle Mille luci di New York di Jay McInerney. Era il 1984).

Il GdC di oggi è un influencer, un fan, un selfatore compulsivo di foto coi famosi. Io, delle fotine che fino a non troppi anni fa mi facevo con le star, mi vergogno come un ladro, anche se accanto c’avevo Michael Caine e come potevo non cedere alla tentazione, anche se oggi mi giustifico dicendo che una volta i social erano diversi, che eravamo più naïf. Paola Iezzi, cioè la Paola di Paola & Chiara, diceva di recente (vado a memoria):

«All’epoca ci hanno massacrate, ne abbiamo sofferto, ma la critica deve servire anche a questo: ti massacrano, e tu allora cerchi di fare meglio. Oggi non esiste più. Oggi i giornalisti non parlano più male di nessuno». Sottotesto: sono tutti schiavi dei follower degli intervistati (speriamo mi riposti il pezzo! speriamo mi metta un cuoricino sotto!), dei regalini degli uffici stampa, del tag che non puoi non mettere, se no non t’invitano all’evento della volta dopo. Sono tutti schiavi della sdraio a righe bianche e rosse. «Nell’arte, il critico è l’unica fonte di informazione indipendente. Il resto è pubblicità», scriveva Pauline Kael, l’altro critico cinematografico più famoso d’America. Evidentemente non aveva Instagram.

Negli ultimi anni, mi sono trovato su un red carpet famoso, a intervistare gente famosa. Ogni volta che quei dieci giorni di tappeto rosso finiscono, in tanti mi dicono (in tanti chi): «Devi sfruttare quest’attenzione su di te, devi approfittare dei meme con Cate Blanchett e Timothée Chalamet». “Approfittare” vuol dire diventare un personaggio di rimando, cominciare a vivere non dentro i film, come diceva Binx, ma nelle stories, i threads – oggi ci sono pure quelli. Se il cinema è finito, è anche per colpa di questa specie di Rosa purpurea del Cairo al contrario: non c’è la star che esce dallo schermo in cui tu eri entrato (per ossessione, per mitomania), ma il GdC che spera di portare il cinema nella sua piccola vita digitale.

Non so quale sarà il futuro dei GdC. Non so nemmeno se era meglio archiviare foto di Giovanna Mezzogiorno, invece che stare seduti in posa su una sdraio a righe bianche e rosse debitamente hashtaggata. So solo che Quentin Tarantino sta per girare The Movie Critic, e che quello sarà il suo ultimo film. Qualcosa vorrà pur dire.

Mattia Carzaniga (Vimercate, 1983), giornalista. Ha scritto “L’amore ai tempi di Facebook” (Zelig, 2009, con Giuseppe Civati) e “Facce da schiaffi” (ADD editore, 2011).