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La strada del ritorno

Il padre di mia madre fuggì da Dachau, erano in quattro, solo uno è sopravvissuto e ancora piange perché non accetta di avercela fatta. Milioni di persone, una per una, dentro il mistero di vivere. E una domanda: tu chi sei?

Da quasi un secolo, dentro la mia famiglia scorre un fiume che, agli occhi della Storia, non è altro che un rivolo.

In un’infinità di casi le storie di famiglia sembrano solo questo: rivoli sotterranei. Accidenti, effetti collaterali di cui non ci si può occupare né preoccupare, e che non entreranno in scena sul palcoscenico del mondo, sul quale si muovono le grandi strategie, i grandi numeri, gli schieramenti. Eppure, quei fiumi o rivoli sotterranei – dipende da che parte li si voglia guardare – scorrono, lo fanno per decenni, e segnano vite e memorie. Così, nella mia famiglia, quel fiume ha un nome e una faccia, stampata sulle uniche due fotografie rimaste: la faccia di un uomo, il padre di mia madre, spazzato via dalla Storia ad appena trent’anni nell’inverno gelido del 1945, inghiottito dalla baracca di punizione del campo di concentramento di Dachau, l’ultimo posto sulla terra che i suoi occhi scuri – questo mi dicono le due fotografie: erano grandi e scuri – abbiano visto, l’ultimo pavimento che i suoi piedi abbiano calpestato. Un luogo orribile, da cui non si vorrebbe che distogliere il pensiero, ma nello stesso tempo il punto a cui ritorna la memoria, l’accadimento da cui deriva parte del futuro. Il futuro di una donna, almeno, tutta la vita di una donna, in quell’inverno lontano soltanto una bambina, che poi è diventata mia madre, una donna che per la sua intera esistenza ha custodito un unico ricordo di quel padre svanito e che per anni ha disperatamente cercato di capire che fine avesse fatto, passando a me, sua figlia, un vuoto da colmare e la domanda a cui dare risposta: dove sei?

Che si tratti di un fiume oppure di un rivolo – dipende, lo ripeto, da quale angolazione lo si guardi – in ogni caso l’acqua continua a scorrere. Il peso della Storia è sempre sulle nostre spalle, sulle spalle di ciascuno, generazione dopo generazione, ed è molto più intimo, molto più personale di quanto la parola Storia lasci intendere, di quanto le strategie possano contemplare.

Del campo di Dachau, di quello che era allora – che era davvero, voglio dire – ovviamente non resta nulla. Rimangono il cancello d’ingresso, il muro di cinta con fossato e filo spinato, due baracche ricostruite, i segni sul terreno che indicano la posizione in cui si trovavano le altre, il piazzale che veniva usato per l’appello, i forni crematori. Il viale centrale, ora bordato da cipressi. La vecchia sala delle registrazioni e l’edificio dell’economato, diventati sede di un museo e di un archivio. Ci sono monumenti commemorativi. Lo si può visitare, sono tutti gentili e premurosi – ricordo un pomeriggio grigio e un vento freddissimo, l’insegna di un McDonald nei paraggi, il rumore attutito del traffico al di là del muro di cinta e di un boschetto. Ero lì con mio marito. Avviluppata in un giaccone, camminavo tra gli altri visitatori cercando di capire in quale punto esatto, accanto ai forni crematori, avessero gettato il suo corpo, quale fosse il punto in cui mi sarei potuta fermare a salutarlo.

Del sottocampo di lavoro che era situato a Mühldorf, il sottocampo in cui i suoi occhi grandi e scuri trascorsero tre mesi, invece non è rimasto nulla, se non qualche mattone, i resti di fondamenta come denti aguzzi spersi nella foresta e una parte del guscio di cemento armato – il bunker, mai finito, che avrebbe dovuto essere adibito alla produzione dei Messerschmitt 262 – per costruire il quale schiene di uomini e ragazzi, francesi, italiani, russi, polacchi, ungheresi, vestiti di niente, gelati e denutriti, mezzi morti, portarono migliaia di sacchi di cemento su rampe scivolose, a suon di bastonate, sotto la pioggia e la neve.

Fu da quel sottocampo che il padre di mia madre, il suo padre perduto, riuscì a scappare insieme a tre compagni. Era il gennaio del ‘45. Come qualunque storia umana, la storia di quegli uomini e della loro fuga disperata richiederebbe tempo e spazio. Posso dire che di quel gruppo uno soltanto sopravvisse: ho fatto in tempo a rintracciarlo, grazie agli archivisti del museo di Dachau, a scrivergli una lettera, alla quale lui ha risposto subito, e infine a incontrarlo. Ancora vigoroso nonostante l’età, mi è venuto incontro a braccia spalancate sul vialetto della sua bella casa, piangendo ancora prima che ci salutassimo. Quel pomeriggio ha pianto spesso, sommessamente, ripetendo ciò che ripetono molti sopravvissuti, non importa quanti decenni li separino dagli eventi traumatici che hanno dovuto affrontare, né quanto siano riusciti a ricostruirsi una vita piena, soddisfacente: non era in grado di spiegarsi per quale ragione lui ce l’avesse fatta e i suoi tre compagni no, non lo accettava.

“Non riesco a capirlo”, diceva.

Gli ho posto una domanda, mentre eravamo seduti in salotto in una luce tenue, con la finestra che dava sul giardino, una domanda che ho subito capito ingenua: “Di cosa parlavate? Cosa raccontavate del vostro passato, della vita di prima? Cosa le ha detto mio nonno?”. Avevo l’impressione di poter raggiungere, grazie alla sua risposta, quegli occhi delle fotografie, come se all’improvviso potessero spuntare lì davanti a me e guardarmi in faccia nella luce tenue. Come se il tempo potesse riavvolgersi. Ma lui ha scosso la testa: “Mi spiace tanto, non parlavamo di niente, non avevamo più parole”. Già.

In ogni caso erano stati insieme fin dal campo di transito di Bolzano, nella paura, nella fame e nel freddo che ti schiaccia. Erano stati caricati a forza sullo stesso treno, avevano viaggiato insieme e intravisto, da uno dei piccoli finestrini o da una fessura tra le assi, il mondo che cambiava un chilometro dopo l’altro, che si faceva sconosciuto, il loro paese che si allontanava diventando un ricordo. E avevano deciso insieme di tentare la fuga, un tentativo che fecero in pochissimi. Ripensava a lui ogni singolo giorno. “Penso che credesse davvero che saremmo riusciti a ritornare a casa”, aggiunse.

Mia madre, che non se l’era sentita di partecipare all’incontro – sarebbe stato troppo per lei – scoppiò a piangere quando più tardi le ripetei quella frase, quelle parole così importanti.

Non posso dire con certezza chi di loro quattro fu il primo a elaborare il nocciolo quasi impensabile di un piano di fuga. Mio nonno, nella sua prima vita, era stato un bugiardo fascinoso, un giocatore d’azzardo, un bel ragazzo alto, robusto e inaffidabile. Chiamato alle armi, poco dopo il matrimonio, si era distinto per diserzioni multiple. Nella seconda vita, quella di mezzo, durata meno di un anno, era salito in collina unendosi a una delle prime bande partigiane piemontesi, assumendo il comando di un gruppo di resistenti: era spregiudicato e coraggioso, addirittura troppo. È qui, in questo punto sulla mappa del passato, che un giorno riuscì a tornare ad Alba, la sua città, per vedere mia madre, che allora aveva quattro anni: le portò, così diceva lei, un po’ di caramelle.

Nella sua terza e ultima, terribile vita, un giorno si allontanò con i tre compagni. Con la complicità di un lavoratore esterno che aveva procurato loro un mucchietto di vestiti, riuscirono a sfilarsi dal gruppo di deportati mandati nella foresta, obbligati a raccogliere legna. Si misero in cammino, poi trovarono un fienile in cui nascondersi. Morivano di fame: mangiarono la paglia. Morivano di freddo: si strinsero l’un l’altro. Si trascinarono su campi innevati – ombre, fantasmi, scheletri – sempre più lentamente ma ancora e ancora, insieme, aspettandosi a vicenda quando uno rallentava, sorreggendosi a vicenda. Avrebbero provato a rubare una macchina; se non ci fossero riusciti, avrebbero continuato a camminare. Qualunque cosa pur di varcare di nuovo il confine, pur di tornare a casa.

In questi giorni oscuri – adesso, marzo 2022 – le strategie imperiali o imperialistiche, i posizionamenti, gli schieramenti contrapposti, gli scenari globali sono sul palcoscenico del mondo, un palcoscenico vastissimo. Ci sono sempre stati e sempre ci saranno. E nel discorso pubblico, che questa vastità alimenta, compaiono di nuovo certe entità fittizie, certe parole anonime: il noi e il loro, per esempio. Noi occidentali siamo così, loro sono cosà. Ci sono le domande che ne seguono: noi che dovremmo fare? E loro che faranno? Perché si parla della Storia, no? La Storia accade e accelera ogni cosa, ci spinge e poi ci raccoglie da una parte o dall’altra.

Ma nel frattempo milioni di persone, una per una, con i loro volti e nomi, i loro ricordi e desideri, le loro paure, sono costrette a buttare in fretta qualcosa dentro un trolley o un sacchetto di plastica, a salire a bordo di un pullman, a salire su un’automobile o a muoversi a piedi verso il confine – quella linea invisibile oltre la quale il mondo cambia – lasciandosi alle spalle appartamenti e posti di lavoro, le foto di famiglia, disegni dei figli appesi al frigorifero, un vestito da sposa, l’ultimo libro letto, un puzzle che non verrà finito, un peluche, l’ipotesi di una vacanza senza grandi pretese e ciò che tutti i giorni vedevano dalla finestra del soggiorno o della cucina: altri palazzi, un parco pubblico, una scuola, un supermercato, luoghi che prima vedevano ogni giorno e adesso chissà se li potranno rivedere. Ci sono persone, una per una, che muoiono sventrate dalle bombe, centrate da colpi di fucile, da schegge di granata, o che vivono in cantina e nelle stazioni del metrò. C’è una signora con i capelli corti e il viso gonfio, sul balconcino di un palazzo annerito dalle fiamme e dal fumo di un incendio nella città di Kiev, ripresa da qualcuno mentre tenta di sgomberare da un mucchio di macerie il suo piccolo balcone, per quanto sembri inutile: era su quel balcone che dava l’acqua ai fiori, nella vita di prima, o si affacciava per prendere un po’ d’aria. Oppure c’è una donna, una storica il cui nome è Natalia Yakovenko, che, sotto i bombardamenti, continua a tradurre in ucraino l’Ab Urbe Condita di Tito Livio. C’è una madre che, seduta al tavolo in cucina, stringendo un fazzoletto aspetta il ritorno di suo figlio e prega per lui.

Una frase di Flannery O’Connor, letta molti anni fa, ha impresso alla mia vita un’altra direzione, ha fatto di me quella che sono e ha dato al mio mestiere – scrivere, raccontare storie – un senso radicale. Eccola: “Lo scrittore di narrativa si interessa del mistero che viene vissuto. Si interessa del mistero ultimo, quale noi lo troviamo incarnato nel mondo concreto dell’esperienza sensoriale”. Nelle parole della O’Connor, come nei suoi racconti e romanzi e lettere, vibra di continuo il mistero della nostra posizione sulla terra, mistero individuale poiché ciascuno lo incarna a modo proprio. La letteratura, da questo punto di vista, è indagine e memoria di questo mistero sempre incarnato in una faccia, un nome, una specifica vicenda, un destino. È la concentrazione dello sguardo sulla domanda: “Tu chi sei?”, fuori dalla prigione asfittica dell’io, oltre ogni schieramento, ogni entità fittizia – noi da una parte, loro dall’altra – ogni misura collettiva e dunque anonima, indistinta, inafferrabile.

Nella questione privata, direbbe Fenoglio, che è la letteratura, in questa continua rifrazione del mistero nei misteri delle nostre personalità, possiamo rintracciare quello che ci accomuna, la radice umana. In questo territorio, nessuna storia è un rivolo, un’inezia o un accidente. Nessuna storia è dimenticabile – solo una faccia sulla pagina di un giornale che poi si butterà, o sullo schermo di una televisione che verrà spenta. Qui, ciascuna storia è acqua che scorre, ciascuna storia è un fiume.

Pensavo alla frase di Flannery O’Connor, mentre guidavo, travolta dall’emozione, verso la casa dell’uomo che era scappato dal sottocampo di lavoro – lavoro, come no – con mio nonno; da allora, erano trascorsi più di sessant’anni, eppure l’acqua continuava a scorrere, di madre in figlia. Ho smesso di pensarci, com’è ovvio, mentre, nella luce sempre più tenue, lo ascoltavo raccontare i dettagli di quella fuga e soprattutto l’incontro con un prete cattolico tedesco, incontro che richiederebbe pagine intere e che ancora mi toglie il fiato. Una piccola chiesa in un paesino della Baviera, nel gelo della Storia, nel cuore della Storia.

Nella sua prima vita, vi dicevo, mio nonno era stato un gran bugiardo e un giocatore d’azzardo, e aveva sperperato ogni risparmio.

Poi era andato a resistere in collina. Infine, era stato inghiottito dall’inferno del campo di concentramento di Dachau. La bambina del ricordo, mia madre, l’aveva cercato a lungo – dove sei? – con un vuoto incolmabile che le cresceva dentro e con la sensazione, ingiusta ma comprensibile, dato che era cresciuta senza padre, di essere stata abbandonata.

Alla fine di quel nostro incontro ci guardammo, mentre scendeva il buio. Piangevo anch’io. Lui aggiunse parole che tengo per me, poco prima che risalissi in macchina per tornare a casa, dove mia madre mi aspettava. Lei, che al mio ritorno avrebbe in qualche modo rivisto, alla distanza di più di sessant’anni, grazie a quelle parole, gli occhi grandi e scuri del suo unico ricordo. Poi, mentre viaggiavo in autostrada, ancora scossa, tornai a pensare alla frase di Flannery O’Connor.

Ciascuno di noi è incarnazione del mistero, è uno dei suoi modi, concreti e irripetibili, di rivelarsi al mondo. È il senso della letteratura, quello che romanzi e racconti, non solo loro ma anche loro, continuano a insegnarci. Non lo dovremmo mai scordare. Per me, che di mestiere scrivo, è la ragione di tutto ciò che faccio.

Ciascuno, uno per uno: la donna che scappa oltre confine col suo bambino; il ragazzino che scappa con il suo cane, al cui collo ha annodato un grande fazzoletto bianco; la donna anziana che, tremando, si nasconde in un rifugio; l’uomo che combatte, mentre prima magari gestiva un bar o consegnava la posta o insegnava matematica; la donna che tenta di ripulire dalle macerie il balconcino di quella che era casa sua; la donna che sotto le bombe traduce Tito Livio; il giovane soldato che forse neppure capisce e che se solo sapesse, se solo potesse… Tutte le loro facce, i loro nomi.

È questo quello a cui penso in queste settimane di guerra, mentre la Storia avanza o, meglio, retrocede, sulle assi sporche e sconnesse del suo palcoscenico. E penso a quei quattro uomini, in Germania. Li immagino, li vedo uno per uno, accucciati fra gli alberi, mentre gli altri compagni di orrore vengono spinti di nuovo verso il campo con i calci dei fucili. Qualcuno nella fila, i deportati francesi, trova ancora la forza di sussurrare una canzone – ce n’est que Madelon mais pour nous c’est l’amour. Poi nella foresta cala il silenzio, e loro si mettono in cammino. Presto sarà buio. Possono supporre che verranno ripresi e che, se accadesse, sarebbe la fine, ma sperano che non succeda. Forse non si tratta nemmeno di speranza: è un sentimento che non ha ancora un nome. Comunque, a questo punto, che differenza fa? È qualcosa che devono provare a fare. Bisogna provarci.

Tu chi sei? Dove sei?

Ci sono domande che non contano granché, e domande che invece contano sul serio. Ecco a cosa penso. E penso che allora come ora, e come sempre, vogliamo ritornare a casa. Perché è la nostra vita, la vita di ciascuno, quello di cui si sta parlando.

Elena Varvello (Torino, 1971), scrittrice e poeta. Ha pubblicato, tra gli altri, la raccolta di racconti “L’economia delle cose” (2007, Premio Bagutta Opera prima) e il romanzo “La luce perfetta del giorno” (2011), entrambi per Fandango. Per Einaudi ha pubblicato i romanzi “La vita felice” (2016) e “Solo un ragazzo” (2020). Insegna alla Scuola Holden di Torino.