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La terra desolata della signora ammazzatutti

Leonarda Cianciulli assassinò tre donne con il manico di una scure e disse di averne fatto torte, marmellate, dolcetti e sapone. Sacrifici umani per salvare i figli, immense bugie per fregare la Corte. Tutte le menzogne gotiche del memoriale scritto in manicomio: il capolavoro folk horror di una madre un po’ nervosa

La sepoltura dei morti, la misteriosa chiaroveggente che pronostica sciagure, il cadavere piantato l’anno scorso in giardino che forse quest’anno germoglierà e fiorirà, la paura mostrata in un pugno di polvere, l’aprile crudele. Tutto questo accomuna La Terra desolata a un testo assai meno conosciuto, scritto vent’anni dopo da una donna che di certo non aveva letto T. S. Eliot, ma che esordiva quasi facendogli il verso: “Aprile il mese dal dolce nome, pieno di trilli di uccelli, di fremiti di foglie e di risatine di polli, rifulgeva nel cielo sereno. Tutta fresca, verde e vibrante, straripante di linfa e di mille soavi profumi dai fiori da poco dischiusi, la bella campagna irpina si svegliava dopo l’inverno”.

Sono le prime parole del Quaderno di un’anima amareggiata di Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio, l’assassina seriale che tra il 1939 e il 1940 uccise tre donne sole e non più giovani con il manico di una scure, ne depezzò i cadaveri nel solaio di casa e dei loro resti fece torte, dolcetti, marmellate, biscotti e soprattutto sapone, bollendo il grasso in un pentolone di rame. Le aveva uccise come vittime sacrificali per scongiurare che i due figli abili al servizio militare, in particolare il primogenito Giuseppe, morissero in guerra come aveva predetto molti anni prima una gitana che le aveva letto la mano. Tra aborti spontanei e morti premature, Leonarda Cianciulli aveva perso già tredici figli, e per proteggere i superstiti – quattro, di cui una bambina, Norma – aveva ingaggiato un duello all’ultimo sangue con la Morte, che nelle sue pagine sferza di continuo con epiteti coloriti come la ladra, la dinoccolata, la scheletrita, la tutta ossa, la occhiaiuta, la brutta spolpataccia. Dopo un’ennesima gravidanza sfortunata a Correggio, dove si era trasferita dall’Irpinia nel 1930 con il marito, l’ufficiale di registro Raffaele Pansardi, a seguito del terremoto del Vulture, era così malconcia per le emorragie che era ormai ridotta a pelle e ossa. Ma il suo primo pensiero, nel vedersi tanto smunta, fu per la rivale soprannaturale, la Morte: “Forse facevo invidia alla scheletrita”. I suoi omicidi, però, avevano anche un altro obiettivo, alquanto sperimentale. Leonarda credeva che passando per le pentole e i paioli della sua cuisine du sacrifice le tre donne – una maestra privata d’asilo, una cantante lirica un tempo diretta da Toscanini e da molti anni caduta in disgrazia, una zitellona settantenne ancora in cerca di marito – sarebbero risorte magicamente in un corpo più forte, invulnerabili agli acciacchi, alla decadenza e alle malattie. O almeno, è così che la racconta nel suo sterminato memoriale, scritto “con un pennino spuntato, un po’ sulle ginocchia, un po’ sul letto, un po’ per terra” tra il 1941 e il 1943 nella sezione criminale del manicomio di Aversa, dove era stata affidata alle cure dell’illustre alienista Filippo Saporito. Non era un racconto granché verosimile. La Corte infatti non credette alla sua favola nera, e la sentenza del luglio 1946, pur riconoscendole la seminfermità mentale, sancì che Leonarda aveva agito “al di fuori della sua idea delirante”, al solo scopo di appropriarsi dei beni delle vittime raggirate. La storia dei sacrifici umani, della zingara, dei procedimenti magici per far risorgere i morti, non era che una grandiosa menzogna foggiata dal suo non comune talento di affabulatrice. Ma era davvero tutta una menzogna? O non ci troviamo piuttosto nei dintorni di quelle regioni in cui tutto il falso è vero e tutto il vero è falso, popolate di “cose che non avvennero mai, ma sono sempre” – le regioni confinanti della letteratura e del mito?

Quando mi imbattei per la prima volta nella notizia dell’esistenza del memoriale di Leonarda Cianciulli – una sera di più di vent’anni fa, in vacanza all’Isola d’Elba, leggendo vecchi articoli di cronaca nera su un annuario antologico dell’Europeo – mi convinsi che quel documento poteva essere una sorta di equivalente contadino delle Memorie di un malato di nervi del presidente Schreber, un altro intricatissimo sistema mitologico e sacrificale eretto da una mente folle ma di intelligenza fuori dal comune. Cominciai quella sera stessa a coltivare il sogno di curarne un’edizione annotata, e – come accade regolarmente per i miei colpi di fulmine intellettuali – non chiusi occhio per l’eccitazione. Seguì una caccia intermittente ma tenacissima. Anni dopo riuscii finalmente a mettere le mani su una trascrizione del Quaderno di un’anima amareggiata – i quaderni in verità erano venticinque, rifusi in 742 pagine dattiloscritte – e compresi che non era l’autoanamnesi clinica di una mente malata, era qualcosa di diverso e forse di più appassionante, uno strabiliante feuilleton biografico ed epico-cosmologico che alternava prosa e versi, un romanzo gotico scritto da una donna che non era andata al di là della terza elementare, a suo modo un piccolo capolavoro di folk horror. Decisi allora di leggerlo da cima a fondo alla stregua di un romanzo, come del resto suggeriva il misterioso incipit sull’aprile. “Questa prolissa autobiografia di una così selvaggia omicida si inizia come un innocente componimentino di una candida educanda”, aveva osservato nel 1946 l’aversano Enrico Altavilla, caposcuola della psicologia giuridica italiana, sulla rivista Oratoria. E in effetti, la prima pagina del memoriale Cianciulli suona più o meno come l’idillio bucolico di un pascoliano minore, una delle tante poesie sull’avvicendarsi delle stagioni di un Angiolo Silvio Novaro – quello del “mago aprile” – che i bambini dei primi decenni del Novecento imparavano sui libri di scuola. È solo la prima impressione, però. Rileggendo quelle righe con più attenzione, infatti, si può avvertire subito una nota stridente: le risatine di polli. Così stridente che Altavilla trovava naturale correggerla in “polle”, forse per richiamarsi all’immagine più comune delle acque sorgive “ridenti”. Ma Leonarda Cianciulli, posto che conoscesse la parola polla, voleva riferirsi proprio ai polli, e a quei gorgoglii beffardi che emettono quando sono nervosi, e che sembrano appunto parodie di risate. I polli occupavano un posto centrale nel suo immaginario di campagnola. Si può dire che li considerasse la specie zoologica di transito dal mondo animale al mondo umano, ed era un transito macabramente bidirezionale: in un interrogatorio del 1941 raccontò che aveva smembrato le sue vittime “così come si fa con i polli”; lo ripeté al giudice in aula cinque anni dopo: “Eccellenza, si fa come con i polli: non mi faccia dire di più”.

Ma il mistero più grande, per me, restava un altro: perché l’autobiografia di Leonarda Cianciulli, scritta dietro richiesta di un medico ai soli fini della perizia, si apriva con una ridondante, estatica descrizione del “mese dal dolce nome” che fa risorgere la campagna irpina dopo il sonno dell’inverno? Ci sarebbe una risposta ingannevolmente semplice: Leonarda era nata il 14 aprile 1894 a Montella, in provincia di Avellino. Ma della sua nascita, e della sua prima infanzia, non fa parola in quell’esordio: il suo aprile resta sospeso in un tempo mitico, simbolo dei cicli perenni di morte e rinascita; nel paragrafo successivo la bambina ha già dieci anni. Da qui comincia a scorrere uno strano romanzo d’appendice, fatto di rapimenti avventurosi, fughe da matrimoni combinati, destini fatali, predizioni di sciagure, maledizioni materne, esorcismi, riti magici, invocazioni di angeli e demoni, antenati nobili, zii vescovi, bambine che suonano l’arpa, citazioni della Mirra di Alfieri – il poeta le appare anche in sogno – e della Lucia di Lammermoor di Donizetti, il tutto in un flusso di coscienza senza un filo logico o cronologico preciso, con una sintassi tra il rarefatto e il mero sgrammaticato e un lessico melodrammatico teso continuamente allo spasimo e qua e là tirato giù, quasi per un dispettuccio, da sapide voci dialettali e popolaresche. “Tutto è cianciullescamente logico nell’orditura di quella donna”, osserverà lo psichiatra nella perizia, coniando un neologismo che avrebbe meritato più fortuna.

Non sorprenderà che la vicenda della “Strega del sapone” – con questo epiteto, e con altri dello stesso tenore fiabesco, la chiamavano le cronache dell’epoca – sia stata letta per decenni, e sia letta tuttora, come una persistenza attardata del mondo magico di Ernesto De Martino, come l’espressione di un meridione arcaico fatto di superstizioni, di intrugli, di madri archetipiche selvaggiamente possessive con i figli maschi, di maghe e di janare – le streghe irpine – che con il mestolo, in ciabatte, fanno bollire cadaveri in pentola. In questa chiave la storia appassionò Mauro Bolognini – che ne ricavò il memorabile Gran bollito, con Shelley Winters nel ruolo di Leonarda e Max von Sydow, Renato Pozzetto e Alberto Lionello in quelli delle tre comari uccise – e Lina Wertmüller, che ne trasse la meno memorabile pièce teatrale Amore e magia nella cucina di mamma (e dire che la Cianciulli le aveva offerto su un piatto d’argento un titolo ben più wertmülleriano, una specie di scioglilingua che ricorre tre volte nel Quaderno: “Soda caustica, allume di rocca e pece greca”). Eppure, in questo tripudio di Sud e magia c’è un dettaglio che non torna, e che rivela come l’immaginario letterario della Cianciulli fosse più ricco e originale di quello in cui la confinarono i suoi epigoni teatrali e cinematografici. È vero, Leonarda si presenta come madre mitologica, come leonessa pronta a tutto pur di proteggere i suoi cuccioli, e ostenta a ogni pagina quella che lo psichiatra Saporito chiamò una “elefantiasi della maternità”. Nelle pagine chiave del memoriale, in cui illustra la genesi del suo sistema sacrificale, si paragona a Teti che aspira a rendere immortale il suo Achille, cita l’Iliade, l’Eneide, i costumi rituali delle donne troiane e spartane, la Bibbia, il sacrificio di Cristo, la resurrezione, la Pasqua. Ma c’è un giallo. O meglio, c’è il giallo di un romanzo giallo.

Nel luglio del 1942, per tener buoni i giudici di Bologna che cominciavano a spazientirsi per una perizia psichiatrica che tardava un po’ troppo a concludersi, il professor Saporito inviò alla Corte una lettera dattiloscritta in cui riassumeva i primi risultati: “Premesso che fu nel 1938, alle prime minacce di guerra, che ella ebbe il primo pensiero di perdere i figli, precisa che, in quel tempo, leggeva il libro giallo Il mistero della 5° strada nel quale è descritta l’opera di un medico (…) il quale uccide dei bimbi per poi farli rinascere migliori. Pensò di imitarlo”. È un colpo di scena. Tra la Bibbia, i testi classici – orecchiati forse dal figlio Peppino, studente di lettere – e le credenze magiche irpine spunta dunque un libro giallo. Ma che libro era? Ed era veramente un libro giallo? Su questo dettaglio, anche gli studi più accurati e scrupolosi dedicati al caso, a cui devo il grosso delle mie informazioni (Leonarda Cianciulli di Fabio Sanvitale e Vincenzo Maria Mastronardi, Armando Editore, La saponificatrice di Correggio di Barbara Bracco, il Mulino) non ritengono di dover disporre ulteriori indagini. Eppure, scrive Leonarda, “quel libro mi schiuse le porte del Paradiso, quel libro calmò ogni mio disturbo”. Come non struggersi di curiosità?

Dopo anni di ricerche a tempo perso, un libro con quel titolo non l’ho ancora rintracciato. Ma forse ho scoperto qualcosa di altrettanto interessante. Anzitutto, che non è affatto un libro giallo; e poi, che quasi certamente non è neppure un libro. Torniamo al memoriale. Siamo tra il 18 e il 20 dicembre del 1939. Leonarda ha da poco ucciso la settantatreenne Faustina Setti, che si era presentata in casa sua tutta incipriata con la promessa di trovare finalmente marito, e ha comprato dal droghiere Morini una scorta di soda caustica, allume di rocca e pece greca per il suo macabro saponificio casalingo: “Ritornando a casa mi fermai davanti ad un piccolo banco o bancarella per acquistare dei frutti – legni santi o cachi – la proprietaria era Ermelinda Fiore; dopo aver acquistato i frutti che tanto piacevano alla mia Norma, la Fiore mi pregò di comperare un poco di romanzetti cinematografici”. L’aggettivo non è irrilevante. I romanzi cinematografici, infatti, non erano propriamente libri. Diffusi già dalla fine degli anni Venti, quando fu inventata la tecnica della stampa a rotocalco, erano racconti romanzati e illustrati ispirati alla trama di un film, antesignani dei fotoromanzi. Insomma, fascicoletti di poche pagine fatti per lo più di immagini – dettaglio coerente con le abitudini di una donna che, a detta dei vicini di casa, al di là delle millanterie su Omero, Virgilio e Alfieri, non fu mai vista leggere, solo sfaccendare. Dopo aver messo la figlioletta a dormire, la Cianciulli si ritira con i suoi nuovi acquisti, e vale la pena riportare qualche passo: “Qui non ricordo se il romanzo che attirò la mia attenzione lo avevo comperato io oppure lo aveva portato il mio Biagio assieme ad altri, che sempre si scambiavano con i compagni (…). In quel libro si diceva che uno specialista e nobile scienziato americano, un barone o duca, dopo immensi studi era riuscito a disfare e rifare il corpo umano. Ad aiutarlo nella scienza contribuivano le Reverende Suore di un Orfanotrofio, dandogli dei fanciulli orfani e senza nessuno, e lui studiava sui corpi dei fanciulli la forma di rinascimento; la forma di disfare e rifare il corpo umano. (…) Credo che lessi diverse volte questo romanzo, ed anche un altro; non ricordo bene, se l’intitolazione era La più grande scoperta oppure Il segreto del Gran dottore. In questo libro si diceva che un dottore americano era riuscito a far pulsare un cuore umano di persona morta da 115 a 120 ore per la durata di 48 ore”. I riferimenti – titoli, trame, dettagli – potrebbero essere tutti imprecisi, inventati o strampalati, Leonarda scrive in un manicomio criminale basandosi solo sui suoi ricordi di lettrice ed è una bugiarda cronica, ma una cosa è subito chiara: non siamo nei terreni del giallo, bensì in quelli della fantascienza. Il barone che studia come disfare e rifare il corpo umano ricorda troppo da vicino Viktor Frankenstein; il dottore americano che fa pulsare il cuore dei morti, invece, è sospettamente simile a Herbert West, lo scienziato “rianimatore” di un celebre racconto di H. P. Lovecraft. In effetti, Frankenstein era nell’aria – il film di James Whale era uscito pochi anni prima, e i due sequel – La moglie di Frankenstein e Il figlio di Frankenstein – erano arrivati entrambi in Italia proprio nel 1939. Volendo, esiste anche un cine-romanzo che potrebbe far tornare un po’ di conti: L’evaso n. 7481 di Giove Toppi, il cui protagonista, il dottor Valdineff, è appunto un incrocio tra Frankenstein e Herbert West, pubblicato nel 1936 come supplemento della rivista di fumetti L’Avventuroso: chissà che non sia finito nelle mani della Cianciulli (non è inverosimile che fosse tra le letture del terzogenito Biagio, che allora era un ragazzino). A leggerlo, la trama non corrisponde quasi in nulla, ma mi son fatto l’idea che la Cianciulli abbia messo insieme trame da fumetto – la nascente fantascienza italiana pullulava di scienziati pazzi, dal mago Virus al dottor Maleficus – impastandole con la macabra farina del suo sacco. Ma tutto questo rischia di farci affaticare per meandri antiquari e filologici distogliendoci dall’essenziale: Leonarda Cianciulli, la madre stregonesca dalle diciassette gravidanze, dice di ispirarsi per i suoi crimini alla storia archetipica della nascita senza gravidanza, la nascita in laboratorio. Quella donna che, scrisse il suo psichiatra, nell’aspetto faceva pensare all’“incontro di una testa d’uomo col corpo di una donna”, osservazione di per sé molto frankensteiniana, non si affida al suo corpo tozzo e rotondo (era alta appena un metro e mezzo) di eterna madre, ma alle fantasie della sua testa di maschio, che aspira a generare la vita con i mezzi di una scienza prometeica. Se il parto naturale porta per lo più lutti e sciagure, per ottenere dei corpi sani, perfetti e gloriosi bisogna imboccare la via della creazione artificiale. L’ultima madre arcaica è anche la prima madre post-umana. O forse non la prima: un’altra donna era stata molte volte incinta e aveva perso tutti i figli, salvo uno, tra aborti e morti premature. Era Mary Wollstonecraft Shelley, la madre di Frankenstein.

Leonarda Cianciulli, durante il processo, disse che immaginava per questa sua scoperta fantascientifica un’applicazione eugenetica. “Parlando del tentativo di trasformare le esalazioni dei cadaveri in creature vive”, riferisce sul Corriere Lombardo il grande cronista Tommaso Besozzi, che poi scriverà per L’Europeo, e ai cui articoli devo il mio primo incontro con il caso Cianciulli, “essa prospetta la possibilità di uno sbalorditivo sfruttamento industriale. Se questo metodo riesce – esclama – si rivoluzionerebbe il mondo. E spiega che potrebbe far cuocere nella soda l’intera umanità, poi gli uomini per magico influsso riprenderebbero corpo dai gas e resterebbe sempre il sapone”. Non dimentichiamo che il processo a Leonarda Cianciulli si sovrappone, cronologicamente, ai processi di Norimberga. La creazione di un’umanità pura e indistruttibile per mezzo dei gas e di un residuo di sapone – il Lebensborn e Auschwitz ricapitolati in una sola cucina dell’Emilia-Romagna – risuonava in modo fin troppo eloquente con le notizie e le voci di quei mesi, e con una stampa che tentava di addomesticare gli orrori industriali del nazismo nel più rassicurante sensazionalismo della cronaca nera, o in una grande favola da fratelli Grimm. È probabile che la geniale Cianciulli, in grado di rimescolare nel suo pentolone mentale melodramma, fantascienza, letteratura, cronaca e magia, giocasse deliberatamente su questo doppio registro. Del resto, la leggenda del sapone prodotto con i cadaveri si era diffusa ben prima di Norimberga, e si riallacciava a una leggenda precedente, nata negli anni del primo conflitto mondiale. E non è escluso che nel manicomio di Aversa le voci di fuori arrivassero, tramite quelle infermiere che Leonarda descrive, in una specie di allegoria dantesca, come “diavolesse vestite di bianco”. Il 29 marzo del 1943, alla vigilia di un nuovo aprile, di nuovi trilli di uccelli, di nuovi fremiti di foglie e di nuove risatine di polli, Leonarda Cianciulli scrive l’ultima pagina del venticinquesimo quaderno del memoriale e lo consegna a Saporiti. Che cos’aveva scritto, esattamente? Non è facile dirlo. È un testo troppo astuto per essere analizzato come fosse la registrazione di un delirio, e allo stesso tempo troppo smaccatamente menzognero perché lo si affronti come un’autobiografia. C’è chi ha suggerito che non fosse altro che un cumulo di invenzioni dettate da una strategia processuale per raggirare lo psichiatra (con successo) e la Corte (con meno successo). Eppure, leggerlo come una lunghissima arringa difensiva in forma di romanzo, un po’ come quella di Humbert Humbert in Lolita, rende ragione solo delle sue ovvie menzogne, non della sua meno ovvia verità.

“Fatemi linciare dalla folla, ma fate uscire mio figlio che è innocente”, dirà Leonarda Cianciulli in aula nel giugno del 1946. Il suo Peppino, l’adorato primogenito, è in cella dai primi di aprile di cinque anni prima, un aprile meno dolce degli altri, con l’accusa tutt’altro che campata in aria di essere suo complice. E probabilmente la verità più profonda del memoriale è tutta in questo grido lanciato alla Corte, una verità che va cercata al di là della lettera, su un piano che coinvolge la genesi e la forma del racconto. I delitti di Leonarda Cianciulli non furono sacrificali, e la tesi delle immolazioni rituali arrivò sospettamente tardi nelle sue confessioni per non essere artefatta. La scelta delle vittime non sembrava discendere da logiche sacerdotali: ebbe cura di agganciare donne abbastanza danarose e soprattutto sole al mondo, che nessuno avrebbe reclamato (come i “fanciulli orfani e senza nessuno” del suo cineromanzo), e di fare in modo, mediante lusinghe, promesse e mercanteggiamenti, di impossessarsi dei loro averi. Leonarda prometteva a queste poverette una vita migliore in un’altra città – come rettrice di un collegio femminile, come sposa senile, come donna dell’alta società – e poi le mandava a miglior vita in un altro mondo, spacciando la loro sparizione per una partenza improvvisa. Non ci sono prove che abbia mai incontrato zingare chiaroveggenti, che abbia letto Omero e Virgilio in cerca di ispirazione, che abbia preparato torte e marmellate con il sangue e le ossa delle sue vittime, che abbia fabbricato sapone con il loro grasso; forse tentò di farlo, in cerca di un metodo casalingo per sbarazzarsi dei cadaveri, ma di certo non ci riuscì, non avendo i mezzi né le conoscenze scientifiche adatte. I delitti di Leonarda Cianciulli non furono sacrificali, dicevamo, ma il memoriale di certo lo è: una teatrale, istrionica autoimmolazione in forma di romanzo-fiume per salvare il primogenito non già dalla guerra, ma dalle patrie galere. Sta tutta qui, la sua elefantiasi materna. Per ottenere l’unica cosa che le stesse veramente a cuore, Leonarda era pronta a scrivere uno straripante romanzo d’appendice e a rappresentarsi come una strega con il pentolone, attirando su di sé tutto l’orrore, la riprovazione e lo sgomento delle folle. Impresa magnificamente riuscita, sacrificio carico di frutti: la sentenza del 1946 assolverà Peppino per insufficienza di prove. Intanto, il 20 aprile del 1943, Leonarda aveva scritto un’appendice al Quaderno, una paginetta appena, incalzando Saporiti, l’“Ill.mo e scienziato uomo che leggete i miei scarabocchi” – vergati in realtà in una grafia tutt’altro che rozza, piena di quegli svolazzi leziosi che i grafologi chiamano “ricci dell’ammanieramento” – di sbrigarsi con la perizia e di affrettare la sua condanna. “Tre buone creature furono immolate: tre martiri. Volete o non volete vendicarle? Che importa a Voi il motivo per cui furono sacrificate! Esse mancano e mai più verranno, chi deve pagarle se non io. Oppure tutto ciò che ho scritto è una favola, la lettura di qualche romanzo giallo, o l’incubo di un terribile sogno?”.

Guido Vitiello (Napoli, 1975), scrittore, ricercatore e docente universitario. Insegna Cinema alla Sapienza di Roma. I suoi ultimi libri sono «Una visita al Bates Motel» (Adelphi, 2019) e «Il lettore sul lettino» (Einaudi, 2021).