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La terra di mezzo che non ci addomestica

Donatella Di Pietrantonio racconta il Natale d’Abruzzo a Fabio Bacà, che ha lasciato il timballo con le pallottine per il veganesimo, e insieme confessano il tradimento della scrittura, la famiglia e la colpa. Il nucleo di dolore che si riconosce dal bagliore degli occhi

 

Caro Fabio, quando smetterò di essere figlia?

di Donatella Di Pietrantonio

 

 

Caro Fabio,

non so dirti per quale libera associazione ti ho pensato all’alba, gettando dalla finestra il solito sguardo verso il mare, come un riflesso per accertarmi che siano ancora lì, l’Adriatico con l’orizzonte a est e il sole quando ha voglia di sorgere. Devo averti pensato proprio per via del mare, che è dove vivi, un po’ più a nord. Abiti sulla terraferma, certo, nella fascia di mezzo che qualcuno voleva chiamare Marcuzzo, ma noi dalle colline guardiamo la costa e l’acqua come un’unica linea indistinta dove si mescolano sabbia e onde, gente e pesci. La foce del Tronto taglia più o meno a metà la distanza che immagino tu percorra spesso tra le tue famiglie, quella di origine e l’altra che hai scelto. Una in Abruzzo e una nelle Marche, ma lontane non più di mezz’ora, credo. Mi troverai forse indiscreta nel vederti fare la spola tra i tuoi affetti, ma è un vizio che da scrittore vorrai perdonarmi.

È che le famiglie come sai mi interessano, e anche la geografia microscopica in cui inciampiamo ogni giorno vivendo.

Oppure sarà stato questo vento gelido che agita le luminarie di Natale sospese al balcone del vicino, sarà stato il vento a convocarti tra i primi pensieri del giorno. Insomma, ti sto scrivendo per gli auguri, anche se mi suonano sempre un po’ imbarazzanti, sia nel darli che nel riceverli. Non ci credo alle feste, non a quelle religiose, non a quelle consumistiche, e poi mi consumo nel partecipare lo stesso ai riti collettivi, con questa svogliatezza di fondo.

Così mi infilo nei negozi ancora più affollati delle vigilie, dopo aver cocciutamente sostenuto che no, stavolta no, niente regali. E invece mi lascio contagiare dalla frenesia indotta, comincio con le deroghe, vabbè, qualcosa per i bambini ci vuole, e pure per gli anziani, ma solo un segno, niente di impegnativo. Per la vicina che ha una copia della chiave di casa ed è pronta ad aprirmi quando dimentico il mazzo in un’altra borsa. La badante di mia madre, dal cui lavoro amorevole dipendiamo tutti. Il benzinaio che mi ha salvata dal perdere il treno per una presentazione importante, la mattina in cui bolliva l’acqua nel radiatore della Cinquecento. E così via, per aggiunte successive e all’improvviso urgenti.

Tu come ti comporti, Fabio? Sei più forte, più integro di me? O ti ritrovi anche tu – rassicurami di sì, ti prego – in quell’ultimo giorno, davanti a commessi ormai disfatti da un mese di turni estenuanti per soddisfare la bulimia prenatalizia dei donatori compulsivi?

Presuntuosa, vorrei persino trovare dei regali intelligenti, non sfornati in serie dall’industria massificata bensì da mani artigiane, dei pezzi unici o almeno originali, i cui destinatari possano dire che li ho a lungo meditati ad personam. Allora sto lì, davanti agli scaffali depredati, con l’unico inconfessato desiderio di andare a trascorrere le feste sotto il piumone, con i libri e la tisana, in un’alternanza di veglia e sonno spontanea e anarchica, finalmente slegata dal succedersi di luce e buio, regredita al ritmo di una neonata che abbia scambiato il giorno con la notte. Il mio Natale di riposo e oblio. Invece arranco, negli acquisti, nelle consegne, e il peggio non è nemmeno quello.

Il peggio è la spesa alimentare, e dopo la cucina. Mi piace cucinare, non per le feste. Certi anni ho comprato già pronto e quando a tavola mio padre ha detto che il timballo con le pallottine era buono, mi sono vergognata per un attimo di non averle arrotondate io una a una, piccole piccole. Sai quella stilettata che ti vibra dal profondo. Ho confessato a testa bassa e lui, seduto di fronte, non ha commentato.

D’altronde la mia amica mi racconta con quanta trepidazione aspetta il giudizio di sua madre sulle arance che lei, Isabella, ha scelto al mercato del sabato con finta competenza. A casa, sua madre le guarda sospettosa rigirandole tra le mani, le annusa, ne sbuccia una e la spacca, assaggia uno spicchio. Isabella, sessant’anni, pende dalle labbra di Mariarosa. Se sorride, ce l’ha fatta, altrimenti deve sorbirsi la sequela dei difetti: troppo aspra, troppo asciutta, sembra una spugna. Come se fosse facile valutare la qualità di questa cavolo di frutta nascosta dentro la pelle. Certe volte piangerei, mi ha confessato Isabella. Piangerebbe quando Mariarosa scuote la testa e posa le due mezze arance meno uno spicchio sulla fruttiera di ceramica. Piangerebbe sulla bocca delusa di sua madre, su questi primi sessant’anni di disapprovazione. E io, che mi sento in colpa per il timballo pagato alla gastronomia del viale.

Ecco, caro Fabio, come siamo combinate le donne della mia generazione, io e Isabella, almeno. Sbagliamo quasi sempre, quasi sempre indegne delle nostre madri. Ci siamo laureate, svolgiamo lavori qualificati, ma quello conta meno agli occhi di chi ci ha gettate nel mondo, e noi stupide ancora ne soffriamo. E tu, maschio e più giovane, sei sfuggito a queste trappole? Ti chiedo scusa, ma questa lettera che voleva essere di auguri, si allarga e si perde, è partita indiscreta e prosegue invadente.

Per quanto mi riguarda, mia madre è allettata, ormai quasi vegetativa, e chi mi valuta è mio padre, in un continuo paragone tra le mie prestazioni e quelle passate di lei. Alla vigilia di Natale pago a caro prezzo il filettone di baccalà senza spine, ma come lo prendeva mia madre con la lisca era più saporito, perché si sa, anche il prosciutto è più buono intorno all’osso. Se lo cucino con il sugo e la cipolla come gli piace, racconta che però lei intanto ne arrostiva pure un pezzo con la mano sinistra, e ci metteva accanto i peperoni, nel piatto. Mi mortifica non l’insufficienza assegnata al prezioso filettone di Gadus Morhua, ma la mia vulnerabilità alla critica, mai del tutto superata. Sono anche affetta da un residuo edipico? Eppure la psicoterapeuta anni fa giurava di no. Saranno le feste che inducono alla regressione, allora.

Sarà la tristezza, caro Fabio, per lei di là in camera, mentre noi mangiamo, provando a distrarci dalla sua crocifissione in un letto ortopedico. Al posto dei chiodi ha i tubi: catetere vescicale, sondino naso-gastrico, un accesso venoso. E io impotente a guarirla, curarla, o liberarla. Con lei ogni obiettivo è irraggiungibile, resta solo questo guardarla scendere lenta la scala delle facoltà umane. Mio padre è insoddisfatto di me, lo vedo, lo sento: non è servito a niente sacrificarsi per mandarmi all’università se non sono capace di salvare mia madre, di renderla eterna. La sua sedia vuota alla tavola delle feste mi accusa.

Quando smetterò di essere figlia? Me lo chiedo evitando la risposta più ovvia. Diventare madre non ha allentato l’altro sofferto legame. Somiglio a quegli alberi con una chioma modesta e, sotto, un vasto apparato radicale.

E tu, Fabio, hai voglia di raccontarmi se ci sei riuscito? Nel caso ti mancasse, accetterò qualsiasi merce in cambio, anche uno sguardo sul mare d’inverno, con la tua scrittura.

Di sicuro ci accomuna il doppio lavoro, e qualcos’altro che dirò più tardi ed è forse il motivo per cui ti voglio bene. Dopo trentacinque anni avverto la fatica di esercitare come dentista, anche solo per metà settimana. Potrei lasciare e invece continuo. Mi sveglio alle cinque a scrivere, alle otto sono pronta per i miei pazienti, con il camice monouso addosso, e l’altra parte di me. Certa della mezza cartella lasciata aperta sul computer, posso passare alla prima carie. Alle otto di mattina non ho colpe, né verso la scrittura né verso quello che a volte ancora chiamo il vero lavoro. Ho concluso il mio breve tempo quotidiano con l’una, monto di turno con l’altro. Non ho debiti con nessuno, sarò solo molto stanca dopo pranzo, nonostante abbia ridotto le razioni per non appesantirmi. Se la mia famiglia si è sacrificata per mandarmi a studiare, ecco che l’investimento è tuttora valido e io ne sono degna. La soluzione che ho trovato ha del nevrotico, ma intanto non li ho traditi.

Non del tutto, almeno: scrivere è comunque un tradimento. Mio padre ha solo la licenza elementare, la scuola media era troppo lontana per arrivarci ogni giorno a piedi da una remota contrada pedemontana. La sua unica produzione scritta è la firma: quando deve ci si applica con impegno, i piedi ben piantati sul pavimento e la mano un po’ rigida che calca troppo.

Tiene i miei libri in casa, ma non li legge, dice che dopo qualche minuto lo sforzo gli fa venire il mal di testa. Leggiglieli tu, mi ha suggerito qualcuno. Non è possibile, ci sentiremmo entrambi in imbarazzo. Così stanno là, i romanzi, incomprensibili su un ripiano della credenza, come soprammobili, come le bomboniere dei matrimoni di qualche parente.

Tua madre sì che li avrebbe letti, dice controllando a stento la voce. Domenica a casa loro mi guarda digitare a volte sulla tastiera del portatile, osserva curioso i caratteri che si allineano a formare le righe e le pagine. Certo che voi volete passare proprio davanti al Padreterno, osserva riferendosi a tutta la mia generazione, pratica di questi “attrezzi”.

Vedi, Fabio, come la famiglia sotto Natale mi prende ancora più la mano, soprattutto mio padre. Da qualche tempo mi fa tenerezza, ormai vecchio e acciaccato non vuole mollare la terra che gli appartiene. Con i trattori, gli aratri, le falciatrici si è espresso in sedici ettari, la sua infinitesima frazione di mondo. I suoi campi hanno un ordine, una bellezza da cui io mi sento ancora lontana sulla pagina. Un sistema di solchi impedisce all’acqua piovana di inondare i coltivi. Sono le sue ultime opere. Immagina, lo so, le ortiche e i rovi che dopo di lui invaderanno la piccola proprietà contadina abbandonata all’incuria da me, l’unica figlia. Allora sì, sarebbe tradimento.

E io cosa lascerò a mio figlio? Pochi romanzi che non richiederanno nessuna manutenzione, né responsabilità. Un ingombro minimo, due o tre chili il peso della carta. Zero grammi in digitale. Spero che vorrà tenerli in una sua libreria un giorno, a impolverarsi in una piccola sezione riservata a me, sua madre. L’eredità che lascia mio padre ha consistenza, estensione e durezza, si crepa o si bagna, si secca o fiorisce. Appartiene alla nostra famiglia e per sempre al pianeta azzurro.

Il mio vicino è uscito sul balcone ad accudire le luminarie scompigliate dal vento. Le ha spente, prima, ieri sera se n’è dimenticato. Mi vede alla finestra e saluta con la mano, contraccambio. Quest’anno ha messo una cascata di lucine gialle abbastanza discrete, di certo più del Babbo Natale che si arrampicava alla ringhiera, di quelli alla moda qualche anno fa. Rientra, lottando contro il vento per chiudere.

Sul mare si addensano dei cremosi cumuli bianchi, forse porteranno la neve dai Balcani. Potrei approfittarne per seppellirmi davvero sotto il piumone, Fabio. Con la neve sarebbe più festoso e intimo, il Capodanno.

Da un rapido calcolo, io e te ci siamo incontrati soltanto due volte, però ci scriviamo spesso su whatsapp o su Instagram. Sorrido e anche rido a leggerli, hai tutta l’ironia che mi manca, anche sulla pagina. Mi sembra di conoscerti da molto tempo, eppure so così poco di te e la mia è solo un’illusione da lettrice dei tuoi romanzi. Ciò che subito ti ho trovato negli occhi al primo incontro è un certo bagliore di disperazione addomesticata, riflesso del mio. Smentiscimi pure, se credi. Gli scrittori (e le scrittrici, evidentemente) sono delle anime danneggiate, era Roth a dirlo? Lo hanno detto in tanti, ma mi piace quell’anime danneggiate. Mi ci riconosco. E tu? Comunque è per il bagliore nei tuoi occhi che ho iniziato a volerti bene e se anche dovesse rivelarsi una falsa percezione, continuerai a essere benvoluto da me. Auguri a te e a chi ami.

Cara Donatella, io voglio abituarmi solo al vento

di Fabio Bacà

 

Cara Donatella,

è simbolico che la tua lettera (che poi è una mail, come credo sia intuibile: ma se il gioco a cui ci hanno chiamati implica la necessità di essere il più possibile sinceri, allora evitiamo ogni finzione, persino la più irrilevante) mi arrivi proprio mentre sono a un paio di metri dalla riva del lago di Lugano, fermo come i capelli della ragazza cui allude il nostro amato conterraneo Ivan Graziani. Se sono davvero il mare o il vento ad avermi condotto fino a te, sappi che in vita mia, prima di questo momento, non ero mai stato così lontano da entrambi – dal mare e dal vento: sono a due passi da un cancello in ferro battuto oltre il quale il lago, le Alpi, gli sfilacci di nuvole e la luce incerta di questa mattina ticinese disegnano l’accesso a un improbabile mondo fatato. E, come ho appena scritto, il tutto – le tue parole, la visione incantata, lo strano senso di rimpianto che coglie uno scrittore quando si ritrova da solo dopo una serata spesa a parlare di sé, del suo lavoro, a firmare autografi, a ricambiare chiacchiere e sorrisi, a sfiorare vite che non sono la sua – mi appare smisuratamente simbolico. Sono a 600 chilometri da casa, eppure mi trovo dove sono sempre stato: in quella specie di terra di mezzo tra realtà e immaginazione in cui finisce per vivere ogni romanziere, residenza che mi è stata assegnata molto tardi, all’alba dei miei 47 anni, ma alla quale mi sono assuefatto senza troppi patemi proprio perché in una terra di mezzo, Donatella, io sono sempre vissuto.

E non mi riferisco solo alla predisposizione ad abitare un mondo alternativo, prerogativa di ogni scrittore, ma proprio alla geografia microscopica di cui parli tu.

Sì, perché nonostante l’allegra ostinazione con la quale ripeto agli intervistatori di non dover essere necessariamente considerato marchigiano solo perché sono nato a San Benedetto del Tronto (“altrimenti”, finisco sempre per chiosare, “Calvino sarebbe cubano solo in virtù dei suoi natali a L’Avana”), mi chiedo spesso che razza di abruzzese io sia. “Le radici sono importanti”, sentenzia un po’ retoricamente Suor Maria, la “santa” missionaria de La grande bellezza, e le mie sono evidentemente disseminate lungo i quindici chilometri che separano Alba Adriatica da San Benedetto. Era inevitabile che finisse così: per un ragazzino che vive in una cittadina di diecimila persone, la città oltre il confine esala la suggestione di una metropoli anche se arriva a malapena a cinquantamila. Le opinioni, in proposito, sono relative: ho un’amatissima cugina romana, Federica, alla quale l’urbe è sempre stata stretta, e non a caso è finita a vivere a Londra; ogni tanto ipotizza persino di trasferirsi a New York. Le mie ambizioni hanno connotati diversi: incline come sono a idealizzare, non ho avuto bisogno di sradicarmi, di rinnegare atavici campanilismi. Casa, per me, significa anche quel breve nastro d’asfalto che unisce due mondi, due regioni, due dialetti così simili, e da qualche anno le due famiglie a cui appartengo.

Abitante di una terra di mezzo, ho scritto: io e te, Donatella, come abruzzesi siamo per definizione tali. L’Abruzzo non è nord, naturalmente, e non è nemmeno sud; e a voi lettori, autorizzati a sbirciare nella nostra corrispondenza, prego di credermi sulla parola quando dico che non è nemmeno centro. L’Abruzzo è proprio mezzo, nel duplice senso etimologico di tramite e di intero diviso in due. Centro geografico sono le Marche, il Lazio, la Toscana, l’Umbria e forse, per indole e ideologismi assortiti, persino l’Emilia Romagna; ma nessuna di queste regioni è mai stata davvero l’involontaria mediatrice tra opposte filosofie (il tramite, appunto, tra nord e sud) come la nostra; e nessuna è mai stata dimezzata, equivocata, ignorata, obnubilata e poi improvvisamente divinizzata come l’Abruzzo. L’unico rimpianto è dover attribuire quella tardiva e immotivata esaltazione, in un afflato tipicamente italico, alle colossali disgrazie dell’ultimo decennio – dalle 309 vittime del terremoto dell’Aquila alle 29 della valanga di Rigopiano.

Ma non voglio indulgere in malinconie. Già mi rattristano le parole sulla malattia di tua madre – me ne avevi discretamente accennato in qualcuno dei tanti messaggi che ci scambiamo da un paio d’anni, ma io non avevo compreso la lenta irreversibilità della situazione – e allora eludo delicatamente la loro dolente poesia per spiegarti ancor meglio perché il tuo essere “di mezzo” non è comunque paragonabile al mio. Tu sei nata ad Arsita, minuscolo paese teramano ai confini della provincia pescarese, e vivi e lavori a Penne, che di quella provincia fa effettivamente parte: sei un’abruzzese a Denominazione d’Origine Protetta, amica mia, perché le tue radici sono tra le comunità montane a oriente del Gran Sasso, dominus e patrono d’Abruzzo; la tua cultura, il tuo dialetto, i piatti a cui alludi nella lettera, la tua letteratura e persino il titolo del tuo romanzo più famoso sono intrisi della nostra regione quanto i miei personali corrispettivi non lo saranno mai. Chi sono io, in effetti? Un abruzzese del nord, per giunta costiero, con dizione e inflessioni contaminate dalla prossimità geografica con le Marche e da decenni di frequentazioni con i turisti da tutta Italia: la montagna mi è stata praticamente ignota fino ai 26 anni, quando al servizio di leva ho preferito quello civile nel wwf di Teramo; a quel punto ho potuto finalmente godermi le escursioni in uno dei tanti parchi d’Abruzzo, procedendo accorto tra i sentieri dei monti della Laga, in coda ai gruppi di ragazzini che affollavano i campi estivi, badando che qualcuno non finisse con i piedi a mollo in qualche spumeggiante torrente o si perdesse tra i boschi – e ti giuro che mi guardavo intorno più affascinato e sbalordito di tutti quei dodicenni metropolitani . E la nostra invidiatissima gastronomia? L’ho rinnegata da decenni, Donatella, irretito dalle conturbanti malie della macrobiotica, del veganesimo, dell’illusorio salutismo, del non so più nemmeno bene io cosa. Sai da quanto tempo non assaggio il timballo con le pallottine di cui parli? Vent’anni, almeno: probabilmente molto di più. Quanto alla letteratura, le mie pagine parlano da sole: il primo romanzo ambientato a Londra, il secondo a Lucca, e dell’Abruzzo solo un vago accenno autoriferito quando alludo a un anonimo “bagnino abruzzese” per il quale la protagonista di Nova si prende una cotta “nell’estate dei suoi 17 anni” (e spero mi si perdoni questo goffo impeto di protagonismo).

E già, sono stato anche bagnino, e per otto lunghe estati. E ora lavoro come personal trainer e istruttore di ginnastiche dolci: mio padre dice che non ho mai fatto un lavoro serio in vita mia, constatazione di cui un po’ mi risento, lo ammetto, e un po’ vado cupamente fiero. I miei genitori mi hanno affettuosamente incluso per decenni nella categoria dei perdigiorno: il ragazzino asmatico che leggeva fumetti in continuazione, poi l’adolescente appassionato di sport e di libri, di musica e cinema (e nessuna di queste passioni pareva configurare l’ipotesi di un vero e proprio lavoro); poi l’universitario fermatosi a un esame dal diploma di laurea (sempre stato incline a non finire le cose: magari è per questo che nei libri amo i finali sospesi) e infine l’adulto dalle ambizioni smisurate, certo, ma gelosamente custodite dentro di sé. Nessuno dei miei familiari ha mai lontanamente intuito che volessi fare lo scrittore, almeno fino a quando non ho cominciato a chiudermi in camera davanti al computer: e chissà quali fraintendimenti a base di filmati porno e pratiche masturbatorie devo aver ingenerato. Poi capitava che dovessi uscire di fretta e dimenticassi il computer acceso: a quel punto mia madre ne approfittava per entrare a sbirciare, e leggeva cose delle quali, ha spesso raccontato in giro, “non si capiva nulla”. I miei primi racconti erano piuttosto cervellotici, in effetti.

Quasi inutile specificare la reazione collettiva quando la casa editrice più elitaria e prestigiosa d’Italia ha deciso di pubblicare il mio primo romanzo: Repubblica, nelle anticipazioni letterarie di fine 2018, scrisse che Adelphi si affidava “a uno sconosciuto istruttore di ginnastiche dolci” (mi è sembrato implicito che intendessero: “saranno mica impazziti?”).

Tutto quell’anno fu semplicemente irreale, Donatella. Incontravo mia madre sulle scale di casa che mi guardava sbigottita; mio padre, accanto a lei, distoglieva lo sguardo, sintomo di un analogo sbalordimento. Mia sorella era euforica, mentre io ostentavo un’apparente tranquillità. In realtà ero nervosissimo: talmente preoccupato dal fatto che da lì a pochi mesi avrei dovuto parlare in pubblico, incontrare lettori e concedere interviste, che all’inizio avevo persino chiesto ai responsabili della casa editrice di pubblicare con uno pseudonimo, azzerando sul nascere i contatti con pubblico e stampa. Niente in contrario, avevano risposto: considera solo che da una decisione del genere non si torna indietro. E allora io, che alle scelte irrevocabili sono geneticamente refrattario, cambiai idea.

E non me ne pento. Gestire gli incontri, le serate e i pomeriggi con i lettori non è stato semplice, ma ormai mi sono abituato, anche grazie all’aiuto di un formidabile analista ascolano. E ora ho l’impressione di aver sublimato in quella colossale sorpresa tutti i regali di Natale che da anni ho smesso di fare alla mia famiglia; che in cambio, almeno, ha rimpiazzato il turbamento iniziale con una specie di sensata, divertita presa d’atto che il gioco in cui è finito il loro secondogenito è poco meno che innocuo, e che gli articoli sui giornali, le recensioni sui social, le interviste al telefono, le serate nelle librerie o nei palazzi storici di mezza Italia, i vip che ti presentano ai premi letterari e i whatsapp scambiati con i grandi romanzieri sono solo i piacevoli effetti collaterali di un’attività fondamentalmente trascurabile come scrivere libri.

E ti confesso che non sono per niente sicuro di non essere d’accordo.

Da qualche mese, in attesa di comprare un appartamento a San Benedetto (le mie vicissitudini abitative meriterebbero una saga letteraria alla Knausgaard) sono tornato a vivere ad Alba Adriatica, nel piccolo cottage in legno che i miei possiedono nella campagne a ovest della città. Poco meno di mezzo ettaro di terra: un’ottantina di alberi trentennali (ulivi soprattutto), un corredo di nove gatti e le morbide colline vibratiane tutt’intorno. Amo gli alberi, Donatella, e i gatti li adoro proprio; eppure – improvvida gestalt di cui sospetto le origini – non riesco ad abituarmi a vivere qui. Anni fa mio padre ha ereditato questo piccolo rettangolo di terra e se n’è appassionato, tanto da costruirci una casa. Non dovrei lamentarmi di averne preso possesso, perché i vantaggi sono enormi: la campagna è deliziosa, non pago l’affitto e non ho praticamente nozione dei giorni dedicati allo smaltimento differenziato della spazzatura, perché comunque a depositarla oltre il cancello ci pensa qualcun altro. Ma evidentemente identifico il mio essere qui con il mio lunghissimo distacco dalla famiglia di origine: tardiva emancipazione alla quale ho sacrificato la mia faticosa rincorsa ad una vita da scrittore.

Per ora, almeno, mi godo i gatti.

Io e Silvia fantastichiamo spesso di andare a vivere lontano. Lei ama il sole e pensa spesso alle isole tropicali. Io sono un tipo più ombroso, alla lettera, e non mi dispiacerebbe una città di medie dimensioni, con un lago o un mare che le faccia compagnia, e dal quale si levi ogni tanto un po’ di vento a spazzare lo smog, le calure estive, le residue malinconie. Una città come Lugano, magari, i cui abitanti mi sono sembrati deliziosi, e che stamattina sembra davvero un luogo sospeso nel tempo. Scrivere ridimensiona la tipica aspirazione umana al cambiare paese, continente, lavoro, amicizie, un’intera esistenza – perché uno scrittore cambia vita ogni volta che si siede davanti al computer. Una volta mi hai detto che i romanzi nascono sempre da un nucleo di dolore, e io ho dissentito esattamente per i dieci secondi necessari a realizzare che il mio primo libro è nato dopo un anno e mezzo di depressione conclamata, e il secondo dagli oscuri rovelli che mi porto dietro da sempre. Quindi non ti smentisco, Donatella: quel bagliore di disperazione addomesticata evidentemente c’è. Però mi piace quell’ addomesticata: mi fa pensare che nel magma di quieta disperazione in cui annaspa la maggior parte dell’umanità, almeno secondo Thoreau, io abbia riconosciuto la mia, l’abbia tirata fuori e infine ammansita a forza di chissà cosa.

Forse proprio a forza di frasi, di paragrafi, di capitoli.

O più probabilmente grazie alle persone che la Sorte, l’Universo o il Dio delle luci di Natale mi ha posato accanto finora.

Te compresa.

Ti auguro ogni bene, amica mia.

Donatella Di Pietrantonio (Arsita, 1962), scrittrice e dentista pediatrica. I suoi ultimi romanzi sono “L’arminuta” (Einaudi, 2017, Premio Campiello), da cui è tratto il film di Giuseppe Bonito (2021) e “Borgo Sud” (2020), finalista al Premio Strega 2021. Nel 2022 Einaudi ha pubblicato una nuova edizione del suo primo romanzo, “Mia madre è un fiume”.

Fabio Bacà (San Benedetto del Tronto, 1972), scrittore e istruttore di ginnastica. Ha pubblicato con Adelphi i romanzi “Benevolenza cosmica” (2019) e “Nova” (2021).