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L’acufene mi guida

Sul comodino niente podcast, tutto Osborne, molto Franzen e le serie sulla campus left americana (che non abita qui)

Non ascolto podcast, confesso, è un problema mio, naturalmente. Ho l’acufene, non sopporto i rumori né la musica mentre faccio qualunque attività che non sia guidare, e non ho la macchina. Se avessi una macchina da guidare, probabilmente, ne ascolterei (fornitori di podcast, dateci anche le auto). Da boomer riesco ad ascoltare solo Morning di Francesco Costa, che però è una rassegna stampa. Ma al di là dell’acufene mi viene in mente che non conosco nessuno che davvero ascolti podcast: e invece conosco solo persone che ne producono. Non riesco a capirne peraltro il business model; e anche quando mi è stato proposto di farne, è sempre finita che dopo due o tre riunioni e powerpoint anche molto articolati in cui si era finalmente d’accordo su tutto, ti dicono: “poi per la faccenda economica te ne occupi tu”; “ma come, pensavo ci pensaste voi”, e la cosa generalmente finisce lì.

Letto quasi tutto Osborne quest’estate. Un po’ Graham Greene un po’ Chatwin. Sembra seguire il vecchio sistema inventato da Edmund Wilson: articoli che diventano saggi che poi diventano romanzi. Più, pare, grande sbafatore (in tutti i suoi libri ci sono sempre molti ringraziamenti a chi l’ha ospitato, si immagina a lungo, in località amene, almeno isole greche o resort marocchini). Adesso finalmente leggo il nuovo Franzen, Crossroads, nella traduzione dell’amata Silvia Pareschi.

Scorpacciata tematica su cancel culture all’americana. Seconda stagione di The Morning Show, su Apple Tv, e la prima di The Chair su Netflix. Nel primo, la storia partita da un presentatore di massimo successo, Mitch Kessler (Steve Carell) che viene accusato delle solite turpi cose da MeToo, e scacciato, è lo spunto per parlare di quel che succede nel mondo dell’informazione americana. Il maschio bianco scacciato è una persona orrida: tradisce infatti molto la moglie anche con diverse stagiste, esercitando il suo potere, ma non si arrende al fatto che questo faccia di lui un violentatore. Come Andrew Cuomo dimessosi recentemente sembra dire: io non penso di aver fatto qualcosa di male, non ho mai superato una certa soglia, solo che è la soglia che si è spostata.

Invece in The Chair si sfotte il politicamente corretto laddove esso alligna, nella famigerata accademia americana. Una docente di origine asiatica ci mette un sacco di tempo a far carriera, subendo gli ovvi razzismi, e finalmente ce la fa a diventare capo cioè appunto “chair”, dipartimento di Letteratura inglese di una piccola ma prestigiosa università con l’edera. La professoressa Ji Yoon (interpretata da Sandra Oh, nota per Grey’s Anatomy) si trova a gestire un ateneo praticamente fallito (sorge il dubbio che l’abbiano affidato a una donna, oltretutto asiatica, proprio perché è fallito). Tra professori anzianissimi che nessuno studente vuole vedere nemmeno dipinti, l’unico giovane e cool, e con largo seguito, è Bill Dobson, interpretato da Jay Duplass (che fa sempre il ruolo di sensibile scappato di casa, dopo il magnifico Transparent). Però un giorno, lui, ubriaco, sbrocca, e, ovviamente per scherzo, fa il saluto romano a lezione. Da lì il dramma, il video finisce sui social, nessuno capisce l’ironia, lui e velocemente anche lei vengono accusati di nazismo aggravato.

La serie sfotte insomma la vituperata “campus left” americana laddove nasce, a km zero, e necessiterebbe forse di un’avvertenza, come The Morning Show: “Attenzione, questo non succede in Italia”, già, il paese, dove, scrisse Anselma Dell’Olio, il MeToo viene a morire (trovare qualcuno rovinato dalle accuse di molestie in Italia è più difficile che avere ragione sull’Agenzia delle Entrate). Se qualcuno poi è preoccupato di una “campus left”, qui, e magari di veder aboliti i corsi su Carducci a favore di teorie gender infestanti, tranquilli, anche la stessa idea di “campus” da noi pare inattuabile; qui ci si iscriverà all’università telematica Pegaso o al massimo in atenei anche scrostati, e senza edera, ma vicinissimi a casa.

Michele Masneri (Brescia, 1974), scrittore e giornalista del Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui” (Adelphi, 2020) e “Stile Alberto” (Quodlibet, 2021).