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Lavorare lavorare, però è meglio il rumore del mare

Bruno da ragazzo stava in officina e passava lo stipendio ai genitori. Poi la scuola serale, gli autobus e la società di auto. Quattordici ore sull’asfalto. Con il lockdown, uno squarcio. Sommando le ore, l’usura, il denaro, i ristoranti del figlio, l’incattivimento, che cosa resta? Il calcolo del tempo

Bruno, il lavoro, siccome ci sta dentro fin da quando aveva quattordici anni, lo sa come funziona. Non un lavoro, ma il lavoro. Ci tiene a spiegarsi. Quando cerca di raccontarlo ai figli, fatica. Loro ridono, lo prendono in giro. Non possono immaginare che sia esistito un mondo così. Ma è tutto vero. A quattordici anni, quando cominciò a lavorare in officina, Bruno passava l’intero stipendio a casa e i suoi gliene restituivano una piccola parte per qualche svago.

Poi, dopo due anni, suo padre lo chiamò per fargli un grande regalo: gli disse che poteva tenere lo stipendio per pagarsi la scuola serale. Cominciava in officina alle otto di mattina, Bruno. Staccava alle sei. Passava un’ora a cercare di lavarsi le mani. Entrava a scuola alle sette e si vergognava perché le mani erano ancora sporche. I suoi figli adesso ridono. Sono racconti di un altro mondo ma era soltanto quarant’anni fa o poco più. E fortuna che ancora c’era la leva obbligatoria.

Appena maggiorenne mi arrivò la cartolina e partii. Mi sembrò una lunga vacanza, anche se ci si alzava all’alba e ti prendevano in giro e ti facevano scherzi non proprio da ridere. Un anno così. Poi sono tornato a casa un venerdì e il lunedì ero già di nuovo in officina. Una nuova officina, finché non ho cominciato a guidare gli autobus pubblici. Poi ho preso una macchina mia. Poi ho comprato altre macchine e ho creato la società. E adesso che quattro quinti della mia vita li ho passati lavorando incessantemente, due cose posso dirle: mi sento autorizzato, l’esperienza è abbastanza.

Bruno ha ben chiaro il cuore della questione. Non si può lavorare troppo. Ma non lo dice perché ha deciso di ribellarsi alla vita che ha passato o di sconfessarla. Niente affatto. È un semplice calcolo che infine, a furia di fare considerazioni e scontare errori, ha potuto mettere a punto. Forse lo hanno aiutato le ore a guidare portando in giro clienti che non ascoltano o non raccontano. Così ha avuto il tempo e la mente liberi per far bene i conti. Lavoro dieci ore al giorno? Non sono poche dieci ore, no? E guadagno mettiamo 50 all’anno. Però posso fare di più, le cose vanno bene, c’è richiesta. Allora lavoro quattordici ore al giorno. Se vai oltre, diventa difficile, soprattutto quando il tuo mestiere è guidare. Bene. Lavorando quattordici ore, arrivo – non so – diciamo pure a settantacinque all’anno. Mi tengo largo. Ma vedi, innanzitutto se guadagni di più, paghi più tasse, scatta l’aliquota, ti viene trattenuto di più. E quindi che lo fai a fare? Il punto vero però è che, nel frattempo, hai sottratto ore decisive alla tua famiglia e a te. Sei stanco morto, sei più affaticato e nervoso nelle dieci ore che ti rimangono, ore in cui vivi come un automa. E tutto quel che hai sottratto alla vita non vale gli spicci che sono arrivati a superare i 50 che guadagnavi prima. La domanda decisiva, così, arriva alla fine. Se anche guadagnassi molto di più (e non è così), che ci fai con quei soldi visto che non ti è rimasto il tempo per spenderli? Va a finire che li butti in robe inutili e costose che concentri nelle poche ore di libertà. Diventi un completo schiavo insomma. E ti accorgi che lavorare troppo non serve a nulla. E anzi diventa chiara una cosa importantissima, ossia che puoi e devi lavorare ancora di meno.

Bruno guida e l’asfalto sembra morbido e il sole lieve si frange sui finestrini perfettamente puliti e lui si lascia dietro anche i calcoli che confermano teorie e apre ragionamenti più complessi. Complessi perché si devono aggiungere e sottrarre elementi diversi fra loro: per esempio la fatica che usura e i probabili anni di vita eppoi i sentimenti e numeri come quelli del denaro – operazioni matematiche chiaramente impossibili. Allora parliamoci chiaro, dice. Il lockdown non è stato così nefasto. Non tutti i mali vengono per nuocere. Quando sembrava ancora che durasse poco, ne ho approfittato subito e ho preso mio figlio piccolo e ce ne siamo andati un mese nella casetta che abbiamo al mare. Che giornate! All’inizio lui faticava senza televisione e senza Play. Ma i giochi da tavolo, quando ci entri dentro, non li batte nulla e nessuno. Eppoi il tempo, tutto il tempo per noi due, proprio tutto il tempo solo per noi due. Ancora oggi, ogni tanto, viene e mi dice: ma non torniamo a fare un mese come l’altr’anno? Ecco come cambia un ragazzino. Ma anche la sorella che è più grande, non credere. Quando le cose si mettevano davvero male con le restrizioni, ho preso anche lei, le ho detto è venuto il tuo turno. Puoi studiare e seguire le lezioni da casa? Andiamo. Un altro mese pazzesco che mai se lo sarebbe immaginato, vista l’età. Neppure io però ci avrei mai pensato come a una cosa possibile. Sai, due mesi così, coi miei figli, senza lockdown, non li avrei potuti passare neanche per sogno. Giorni che mi hanno aperto definitivamente gli occhi. Mi hanno insegnato molto. Adesso tutto sta a ricordare, però. Vedi? Già quest’estate, siccome il lavoro era tornato alla grande, non ci siamo mai fermati e non sono mai andato giù al mare neanche un giorno solo, e dire che dista poco più di un’ora. Ma che vuoi che ti dica, non ho potuto dire di no perché certo non si poteva fare diversamente. Se il lavoro arriva dopo che stai fermo così a lungo non puoi sottrarti. Poi adesso è arrivata la guerra e tutto cambia di nuovo, la benzina e il gas, e come faccio a lasciar tutto e andarmene in vacanza? Però andiamoci piano. Devo ricordarmeli bene tutti i ragionamenti che ho fatto. Sennò ricomincio a lavorare troppo e sono fregato. Sfilano le montagne appena spolverate di neve e Bruno dice che la montagna gli piace ma preferisce l’aria di mare. E siccome gli domando di più dei due figli che ha portato al mare durante il lockdown lui mi spiega che ce n’è anche un terzo, di figlio. Un altro che il lockdown deve ringraziarlo, ma per motivi del tutto opposti. È una storia lunga, dice. Vuoi sentirla davvero? Vuoi conoscerla per intero? Se la vuoi conoscere tutta, devo partire dall’inizio. Dai, se vuoi lo faccio. Lo vedo che ti interessa. Sono pochi quelli che si interessano seriamente e tu mi pari il tipo. Ormai le capisco al volo le persone che mi entrano in macchina sai? Vabbè comunque la faccio breve. Bruno comincia a raccontare di quando la madre di questo figlio se ne andò. Non era felice, la ragazza. Lo ripeteva, senza spiegare perché, ma di fondo non le bastava quel che aveva. La cittadina con la sua calma le andava stretta. Voleva altro. Ma altro cosa? C’è sempre altro nella vita. Le ho detto calmati, poi che credi di fare, ma non c’è stato modo. E comunque se vuoi andare, se stai male, qui nessuno ti trattiene, nessuno ti obbliga. E così se ne andò. Dove? Difficile saperlo. Indagare non aveva senso. D’altronde Bruno era risoluto. La ferita andava chiusa al più presto, il più in fretta possibile. Perché a volte non si può perdere tempo in rimpianti e dolori. Così era risoluto: doveva dimenticare. Certo, proprio dimenticare completamente era impossibile. Soprattutto perché alcune cose finisci per saperle per forza. Scoprì, per esempio, dopo qualche mese, che lei era in Spagna, in qualche isola. Forse l’isola dove ora sta eruttando il vulcano? non so, comunque aveva aperto un ristorante o qualcosa del genere con il tipo che l’aveva conquistata per liberarla, al punto che di me e del figlio che mi aveva lasciato sembrava essersi completamente dimenticata. Finché un giorno tornò in paese e lo volle vedere, suo figlio, eppoi volle vedere Bruno e a lui disse che adesso poteva ricominciare tutto daccapo perché si sentiva meglio. E io chi sono? le disse lui. Io sono qui, lasci riprendi, sono un bambinaio? un custode? un pezzo di mobilia? No, non se ne parla. E lei ripartì per la Spagna. Forse ripartì, forse no. Del racconto che Bruno mi fa mentre guida con un’eleganza senza pari, io non riesco a capire davvero tutti i passaggi, ma non lo interrompo perché la strada di questa storia mi pare lunga e la strada che dobbiamo fare noi invece si accorcia sempre più e già le montagne sono scomparse e iniziano a vedersi agglomerati di case, preludio della periferia eppoi della città.

Bruno però ha il senso del tempo molto più di quanto io possa sospettare, e parla alla stessa velocità della sua guida. Sembra che abbia sempre raccontato e che non voglia smettere mai. Soprattutto se l’argomento principale della sua storia è la fatica. Faticavo? La fatica in quel caso devi misurarla con la mia giovinezza di allora, e soprattutto con l’amore per mio figlio e con l’orgoglio di un padre solo. I genitori di lei aiutavano un po’, ma poco, sai, avevano preso le sue parti, cosa altro dovevano fare? Dunque si tenevano sulle loro, non volevano avere troppo a che fare con me. I miei invece erano vecchi e non potevano fare granché. Quindi ho cercato altrove. Conoscevo una bravissima persona, una signora, madre di famiglia, era libera allora, poteva darmi una mano e ci mettemmo d’accordo. Fu un aiuto decisivo: io ero alleggerito per la presenza in casa, per certi compiti al pomeriggio e tutto quel che significa crescere un bambino. E infatti è cresciuto bene e adesso lo capirai. Il lockdown lo ha rivelato. Poco tempo fa è venuto, anzi è tornato da me e mi ha detto di aver capito.

Stava sbagliando, ci stavamo perdendo. Chissà se senza lockdown sarebbe accaduto.

Per un attimo è silenzio e lui scuote il capo. Fa un movimento con la mano sul volante e dice che no, non posso capire così. Deve spiegarmi bene, sennò non ha senso. Le storie non si possono tagliare. Molte cose dipendono (forse soprattutto per me, eh, dice Bruno ridendo, forse soprattutto per me) da quel che accadde quando mio figlio era ancora un ragazzino, era ancora piccolo e la mia ex moglie decise di riprenderselo. Terribile. Erano passati anni. Mi arrivarono le lettere dei legali. Gente aggressiva, sprezzante, che mia moglie aveva conosciuto in Spagna. Aggressivi a parole, però, sono buoni tutti. Poi ci devi mettere la faccia. Quando mi convocò il giudice dicendomi che dovevo iniziare un percorso con una psicologa, friggevo di rabbia, ma mi sono contenuto. Io costretto a frequentare la psicologa, mentre la madre che aveva mollato tutto se ne stava al mare? Dico ma stiamo scherzando? Considera che lavoravo tutto il giorno e dovevo anche prendere la macchina, andare fin dove sto portando te, quasi un’ora da casa mia, per parlare con questa ragazza da poco laureata, eppoi il resto era tutto un ordine legale che non mi piaceva: una settimana con mio figlio, l’altra settimana da solo. No, non mi piaceva nulla e però ho tirato dritto. Ho rispettato ogni richiesta. Mi sono messo in discussione. Mesi così. Alla fine non ce l’ho fatta più. La psicologa, poverina era una brava ragazza ma appunto era una ragazza. Le ho detto, un giorno, senti a me, cerchiamo di essere chiari, io vengo qui ogni settimana mentre mia moglie sta al mare a non far nulla, io ti rispondo, parlo di qualsiasi cosa, ho anche fatto disegni io che non ho mai disegnato, visto che attraverso un disegno pensi di capire chi io sia, va bene, rispetto ogni cosa, accetto tutto quello che mi chiedete, ma adesso basta, le cose sono due: se volete scrivere nella relazione finale che la madre è sempre meglio per il figlio, io smetto di venire, non serve a nulla; se invece volete condividere con me le vostre riflessioni, scriviamo insieme la relazione, ma non rimandiamo più, ormai sapete tutto di quel che penso, faccio e voglio nella vita, non possiamo continuare così. La ragazza mi guardava. Era sorpresa. Chissà che paure le ho messo. Ma no, credo di no. Non sono uno che mette paure inutili. È rimasta un po’ in silenzio e alla fine ha detto: va bene, io scrivo, poi la vediamo insieme, mi fido di lei.

E così è andata. La relazione era molto favorevole a me. E quando ci siamo trovati dal giudice, io e il mio avvocato eravamo tranquilli, ma l’avvocato della mia ex moglie no, era pieno di rabbia, e quando il giudice domandò se avevano qualcosa da dire, lui chiese una proroga, perché disse che dovevano riflettere sulla relazione. Be’ no, scusate – non ho resistito – io sono mesi che seguo un percorso molto complicato, e voi non avete avuto neppure il tempo di pensare bene alla relazione? Il giudice se ne stava zitto, poi ha detto vi do una proroga al venti settembre. E l’avvocato ha risposto: no ma il venti settembre è presto, non potremmo fare un altro giorno, per esempio non so un giorno di inizio ottobre? Parlava come se stesse a casa sua, io ero colpito, ma doveva esserlo anche il giudice e quando il tipo disse che a inizio ottobre era meglio, visto anche che aveva un’altra causa in città e poteva mettere le due cose assieme, e pure la mia ex moglie aveva tempo per tornare di nuovo dalle Canarie, il giudice fece una faccia così e disse che no, la proroga non la dava più e assegnava il figlio a me. Certi comportamenti sono più importanti di tante scartoffie.

La periferia della città è grigia. Gli stabilimenti automobilistici sono in abbandono. Tutto sta cambiando da queste parti e dopo la pandemia neppure Bruno sa immaginare cosa accadrà. Quel che sa è che ciascuno ha la sua strada da percorrere e proprio a questo voleva arrivare. Il figlio è sempre cresciuto con lui, ecco. Ha avuto anche un magnifico rapporto con la donna che poi Bruno ha sposato e da cui ha avuto gli altri ragazzi. Ma l’esempio di un padre che lavora tutto il giorno e che cerca sempre di capire come possa avere un senso la ricerca di una minima felicità in queste nostre strane vite, l’esempio non basta. Non ha mai dato problemi, il ragazzo, per carità. Anzi, un tipo consapevole, intelligente, studioso. Ha preso il diploma all’alberghiero e appena ha potuto ha iniziato a lavorare. Negli anni, mentre cresceva, ogni volta che andava a trovare la madre, tornava sempre deluso da quegli atteggiamenti, da una vita che gli pareva buttata. Poi quando ha cominciato a lavorare come cameriere in ristoranti d’élite, ha smesso proprio di cercarla, la madre, se non per quel che era necessario. Doveva fare la sua gavetta. L’inizio di una carriera. E voleva anche godersela. Faceva bene. Ma proprio prima del lockdown, Bruno vedeva sempre più spesso che il ragazzo postava foto sui social in compagnia di colleghi, tutti assieme a mangiare in ristoranti stellati, con bottiglie di vino da mezzo stipendio l’una. Non commentava, lui, non voleva fare il moralista. Lo aspettava al varco. Che poi cosa ci si trova in quei ristoranti stellati devono dirmelo. E comunque un giorno è arrivato e fa papà ho bisogno di un aiuto, lì le case costano troppo, gli affitti, sai com’è. E io: certo figlio mio gli affitti, proprio gli affitti vero? E invece i ristoranti stellati? Quelle bottiglie che vi vantate di quanto costano manco foste russi che scelgono sul menu a seconda del prezzo? Io non so come ti sia venuto in mente, ma non è che uno spende e spande eppoi chiede aiuto parlando di affitti. Se hai problemi, io sono sempre qui, ma per farti mangiare in quei posti del cavolo, no. Torna quando avrai bisogno davvero. Ma ho bisogno davvero, diceva lui. E io scuotevo il capo. Mia moglie se la prese. Anche se non è la madre, il ragazzo per lei è come un figlio e non poteva vederlo andar via in quel modo. Così lo allontani, mi disse. Non tornerà più. In parte aveva ragione. E infatti mio figlio non l’ho sentito né visto per un bel po’ di tempo. È stata dura, ma non potevo fare in altro modo, ero irremovibile. La vita è difficile. Non esistono scorciatoie. Si deve imparare sulla propria pelle. Se lo aiuto ora non imparerà la lezione. E la lezione è arrivata. Ho avuto ragione. Certo, avrà sofferto, il ragazzo, ma ho sofferto molto anche io. Abbiamo sofferto tutti. Sono stati tempi duri. Poi pian piano ci siamo riavvicinati. E quando è arrivato il lockdown anche lui ha avuto tempo per fare i conti con se stesso. Un giorno, quando si poteva girare un po’, con tutti quei colori che definivano le regioni e le cose da fare e da non fare, be’ è arrivato all’ora di pranzo, zitto zitto, umile, ha chiesto scusa e ci ha detto che aveva capito, che aveva riflettuto, che aveva sbagliato. Ero così felice che non sai. Non tutti i mali vengono per nuocere, hai proprio ragione tu. Mi fa piacere raccontarti queste storie.

Il centro della città è improvvisamente assolato. I binari scintillano. Ragazzi attraversano con cartelle e zaini in spalla. La scuola ha riaperto i battenti e tutto forse riprenderà come un tempo. O forse no. Non so se si impara davvero, dice lui alla fine. E così mi sporgo per ascoltarlo bene. Non mi aspettavo questo. Tutto mi potevo aspettare alla fine da Bruno ma non questo. Lui improvvisamente è malinconico. Sembra perdere il vitalismo che gli brucia dentro come un fuoco inestinguibile. Dici che ci dimenticheremo tutto in un attimo? Che anche io ricomincerò a lavorare come uno scemo? Che mio figlio piccolo morirà sulla Play e davanti a tutte quelle stronzate in tv? Lui che dice di non voler studiare e voler subito lavorare. È un pazzo, ha dieci anni. Irrefrenabile. Odia la scuola. E non ha senso che io gli spieghi quanto è stata importante per me, che me la potevo pagare coi soldi che mi guadagnavo, di sera, solo quando i miei me lo concessero, anche se pensavo solo a lavarmi le mani. Ridono se racconto quelle storie, credono siano favole, gli sembrano di un’altra epoca, ma mica era tanto tempo fa, be’ quasi mezzo eh, dio mio quasi mezzo secolo, ma dove finisce il tempo? Come funziona il tempo? Va davvero avanti o torna indietro? E noi impareremo? Mio figlio grande ricomincerà con gli stellati? E io e mia moglie troveremo il tempo di farci il viaggio che sogniamo da sempre? No, all’altra moglie non ci penso. Lei proprio non ha fatto nulla. Boh, sì, aveva messo su un ristorante, un posto sul mare, ma che ne so, non voglio saperlo in realtà. Quando mio figlio mi ha detto che lei adesso dopo tanti anni avrebbe voluto scrivermi e raccontarmi e spiegarmi le sue scelte, le scelte che la portarono lontano da me abbandonando anche quel bimbo che ora era diventato l’uomo costretto a far da tramite fra noi, be’ gli ho detto di riferirle: non mi scrivesse una lettera ché l’avrei cestinata prima di aprirla; né una mail ché avrei fatto lo stesso con il cestino del computer. Ma possibile che io debba sapere come lei ha buttato la sua vita? Già devo pensare a come butto io la mia, no? Questo devo pensare. Figuriamoci. Ora poi devo ricordare. Devo tenere a mente. Regolarmi di conseguenza. Se non lo farò, sarò un cretino. Certo però che noi esseri umani siamo davvero dei cretini, non pensi? Dei topolini. No, macché topolini, quelli ricordano tutto. Noi no. Zero. Vedo molta gente che ha ricominciato come prima. Anzi peggio di prima. Sembrano più selvaggi ancora. Più cattivi. Come se si fossero incattiviti. Come se la pandemia fosse stata cattività. Be’ queste parole le ho imparate a scuola. Vedi come è servita la scuola serale. La cattività. L’incattivimento. C’entrano le due parole? Dimmelo tu. Dimmi qualcosa tu. Mi piace che mi ascolti, ma adesso voglio sapere da te. Siamo quasi arrivati. Vedi? Lì è senso unico, poi giriamo di là. Superiamo la pedonale e siamo arrivati. Dimmi cosa pensi? Avrò imparato almeno io la lezione o finirò come prima, anzi peggio di prima?

Matteo Nucci (Roma, 1970), scrittore. I suoi ultimi libri sono “L’abisso di Eros. Seduzione” (Ponte alle Grazie, 2018), “Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno” (Einaudi, 2020) e “Sono difficili le cose belle” (HarperCollins), ora in libreria.