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Le elementari più pazze del mondo: scuola-città

Fondata a Firenze dai coniugi Codignola, questa scuola sperimentale era organizzata con un sindaco, un giudice, gli assessori, le schedine colorate con le materie (che potevi ignorare) e un gran senso di comunità. Il ricordo di uno studente malinconico che faceva sparire le uova

Con me la mamma e il babbo le provarono tutte. Prima l’asilo della Scuola svizzera di Firenze, vicino a casa: a tre anni e mezzo, dopo una settimana di immersione nella incomprensibile lingua tedesca e nei rigidi sistemi educativi elvetici, una mattina mi barricai in camera e minacciai di buttarmi dalla finestra se mi avessero ancora mandato là. Nell’asilo comunale, davanti alla ferrovia, resistetti un po’ di più, forse un mesetto, perchè mi piaceva guardare, dalle ampie finestre, passare i treni; poi scelsi inappellabilmente di stare con la nonna e accompagnarla tutte le mattine, molto incuriosito, nei suoi giri questuanti tra creditori, strozzini e banchi di pegno. Quando arrivò il primo giorno delle elementari ero già un bambino edotto sulle disgrazie umane ma molto isolato, essendomi perso la socializzazione degli asili e le partite di pallone all’ultimo sangue nel cortile della parrocchia rionale, della quale ignoravo persino l’esistenza e la funzione. Così finii in un banco da solo e, durante la ricreazione, tentai un goffo approccio a un bambino alto il doppio di me indicandogli dove si erano andati a nascondere gli altri che, da lontano, mi sembrava stesse cercando disperatamente. L’ingrato mi dette un pugno e chiamò gli altri a darmi una ripassata per «impropria interferenza nel gioco a nascondino». Ai miei poveri genitori, che vennero festanti a prendermi all’uscita, dichiarai in lacrime, ma risoluto, che a scuola non ci sarei più andato. Si prospettava loro un figlio-Pinocchio ostile a ogni forma di apprendimento istituzionale. Ero infatti assai sveglio, ma per le cose inutili.

A pranzo, la mamma, più emotiva ma soprattutto insegnante di inglese e quindi ontologicamente dalla parte dei miei “nemici”, mi disse che sarei diventato un delinquente perché nel giro di qualche giorno due carabinieri sarebbero venuti a prendermi per portarmi in una scuola-carcere. La cosa non mi impressionò affatto e pensai seriamente di fuggire di casa la mattina seguente e recarmi nella loro (della mamma e della nonna) Viareggio, imbarcarmi col vecchio zio Oreste e campare facendo il pescatore. Nel pomeriggio, forse pentita, come le capitava spesso, per le parole troppo dure, la mamma mi portò a giocare tra le antiche porte di piazza della Libertà (ex piazza Cavour). Mentre me ne stavo seduto sull’asfalto a disegnare mostri con i gessetti colorati, arrivò un’amica della mamma con la figlioletta mia coetanea, di nome Olga, dalle lunghe trecce. Scambiandosi i pareri sul primo giorno di scuola la mamma si abbandonò a un triste lamento su di me che, con un orecchio ben spalancato stavo ad ascoltarla (l’altro orecchio me lo stava attorcigliando Olga per dimostrarmi la sua superiorità fisica e forse anche un po’ di affetto). La mamma di Olga decantò le meraviglie della scuola dove andava la figlia e consigliò alla mamma di provare a iscrivermi là, fuori tempo massimo ma grazie ai buoni uffici di Sacerdoti, un loro comune conoscente molto addentro alle faccende pedagogiche. La mamma aveva sentito parlare di quella scuola nel quartiere di Santa Croce, con un grande giardino alle spalle della Chiesa.

La scuola statale sperimentale “ScuolaCittà Pestalozzi” era stata fondata nel 1945 da Ernesto Codignola (1885-1965), pedagogista, collaboratore di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice nella stesura della Riforma Gentile, animatore della casa editrice La Nuova Italia, e dalla moglie, insegnante, Anna Maria Melli (1989-1976), per i bambini poveri del quartiere e con innovative ambizioni educative: «Questa scuola deve la sua origine alla persuasione che i vigenti metodi di educazione, in Italia, come del resto altrove, sono antiquati e sterili, non più in grado di parlare alle anime del nostro tempo, non più rispondenti alle nuove esigenze sociali. (…) La scuola è imperniata sul concetto che deve essere l’organizzazione stessa della vita collettiva, in tutti i suoi molteplici aspetti, a educare spontaneamente alla disciplina sociale e morale e al sapere. Essa vuole essere una collettività, che si educa da sé all’autogoverno imparando l’esercizio della libertà col sottomettersi spontaneamente alla propria legge. Più che una scuola, nel senso tradizionale della parola, essa vuol essere una comunità di lavoro in cui tutti, a turno, partecipano a tutti gli aspetti della vita collettiva» (Ernesto e Anna Maria Codignola, Scuola-Città Pestalozzi, La Nuova Italia, 1975).

Scuola-Città era l’unica scuola allora a tempo pieno (si mangiava lì e si usciva alle cinque) e rispondeva ai più moderni criteri educativi ispirati al pedagogista e filosofo svizzero Johann Heinrich Pestalozzi (17461827). Era organizzata appunto come una città: con un sindaco e il suo vice; alcuni assessori (alle finanze, alla cultura, all’igiene e alla “ricreazione”); un tribunale (chiamata Corte d’onore: con un presidente e quattro giudici); una vasta cucina. Tutto gestito dalle bambine e dai bambini. Agli inizi degli anni Sessanta, alcuni esponenti della sinistra intellettuale fiorentina avevano iniziato a mandare là i propri figli. Per questo la mamma e il babbo, dopo essersi consultati con i loro amici, decisero di fare questo “ultimo tentativo” per farmi diventare un bambino civile e ben istruito, nonostante il mio carattere ribelle e asociale.

La mattina seguente la mamma, più emozionata di me, mi accompagnò in via di San Giuseppe e solennemente varcammo il grande portone che immetteva in un’alta scalinata dell’antico palazzo proprio davanti a via dei Macci. Non ho mai saputo se la mia accoglienza fosse stata organizzata o facesse parte dello spirito della scuola: varcata la soglia della classe i bambini proruppero in un lungo applauso. La maestra si interruppe e venne verso di me abbracciandomi affettuosamente. Altra roba! Mi sentii subito a mio agio e mi sedetti nell’unico posto libero accanto a una bambina bionda con una simpatica faccia punteggiata di lentiggini (Benedetta sarebbe diventata una grande e famosa cuoca). Dopo aver parlato con la maestra, la mamma con un tono mieloso che non era da lei, e che tradiva una forte preoccupazione, mi sussurrò in un orecchio:

«Allora ti andrebbe di rimanere qui a Scuola-Città?». Senza attendere una mia risposta se ne andò arretrando lentamente senza voltarsi e continuando a salutarmi come se fossi al finestrino di un treno in partenza. I miei compagni di classe si dimostrarono anche nei giorni successivi simpatici e pieni di premure nello spiegarmi come funzionava quella strana “citta”. Ovviamente Olga fu la mia Virgilio (sarebbe diventata poi un’impiegata delle Poste, piena di interessi politici, artistici e culturali).

Scoprii che in classe c’erano anche tre “stranieri”. Americani: due bambinoni e una graziosa ragazzina, figli di giornalisti corrispondenti dall’Italia che erano felici di far fare loro un’esperienza, seppur temporanea, in una scuola così speciale. Anche loro, come me dagli svizzeri tedescofoni, erano stati gettati in un ambiente dove non capivano una parola. Il mio ruolo, in quanto figlio di una professoressa d’inglese, divenne fondamentale come mediatore linguistico. Finché, dopo qualche mese, mentre stavo arrabattandomi a tradurre in simultanea, alla maestra e alla classe, cosa stesse dicendo Kim, lei non mi tradì esclamando in un buon italiano: «Ma io non ho affatto detto quello che ha tradotto Francesco!» (Kim era del Colorado, non ho mai più saputo niente di lei, ma non mi stupirei di scoprire che, tornata in patria, ha lavorato per la Cia). I due bambini americani, enrambi muniti di vistosi apparecchi dentali, dovevano essere figli di gente importante perché spesso ci invitavano a feste nel Consolato statunitense, sui lungarni, con tavolate di barocchi dolci al cioccolato e crema, bottiglioni di Coca-Cola (che la mia famiglia, per ragioni ideologiche, mi vietava) e nugoli di bambine della comunità americana fiorentina sempre vestite con vezzosi abitini di tulle dai colori pastello.

Uno dei compagni col quale legai subito si chiamava Mauro, detto “cicciobomba”. Abitava in una struttura chiamata “casa-famiglia” poco lontana dalla scuola. Mauro era grassissimo, sempre vestito di grigio, con i pantaloncini corti, modello a mutanda, e un baschetto blu, costantemente calcato sulle ventitrè che lo faceva assomigliare un po’ a un bambino della campagna francese. Dalla sua sacchetta blu (tutti dovevamo avere una sacchetta blu, con il nome ricamato sopra, dove tenevamo assieme posate e spazzolino da denti, caramelle e figurine dei calciatori), durante la pausa per la merenda del mattino, cavava fuori una grossa michetta che racchiudeva la pasta avanzata della cena del giorno prima (in genere gnocchi al pomodoro). Era molto attratto dal mio panino col burro, una fetta di insalata e il prosciutto. Mi proponeva sempre di fare a metà in cambio di mezzo del suo. Finì che io mi feci preparare dalla mamma due panini, uno più generoso per lui, ma non osai mai assaggiare quell’ammasso di carboidrati che mi offriva.

Cambiavamo spesso compagne o compagni di banco perchè l’organizzazione delle aule era a geometria variabile, come anche il programma delle lezioni. La maestra spiegava quasi senza che ce ne accorgessimo e nei luoghi e nelle occasioni più impensate, ma il fulcro del nostro apprendimento era assolutamente libero. Entrati in classe ci dirigevamo verso degli schedari di legno che contenevano schedine di colori diversi (gialle per la matematica, celesti per l’italiano, arancioni per gli esercizi di lettura e comprensione del testo). Ognuno sceglieva quello di cui, quel giorno, aveva voglia, faceva i suoi esercizi sul quaderno e poi lo portava a far correggere alla maestra o al maestro (erano sempre almeno in due). Se c’erano degli errori o qualcosa di non chiaro venivano spiegati e poi, una volta autocorretto, si scriveva il proprio nome dietro la schedina e si passava ad altro. Questo sistema non creava nessuno stress ma si prestava ad alcuni fraintendimenti. Io, ad esempio, le schede gialle con le addizioni e sottrazioni nemmeno le prendevo in considerazione e, per italiano, mi ero fatto furbo: invece di applicarmi nello scrivere un lungo pensierino avevo scoperto in me una feconda vena poetica ermetica che mi permetteva di sbrigarmela in poche righe.

Grande importanza veniva attribuita al canto (in coro), alla musica e al teatro. Avevamo un laboratorio dove costruivamo le nostre marionette con il legno, la stoffa e la creta. Ma a me piaceva di più calcare le assi del palcoscenico, scrivermi i monologhi, scegliere la musica, discutere col bidello delle luci. La mia grande passione per il teatro è nata allora. Le recite di tutte le classi si concentravano nella settimana prima del 25 aprile. In quel giorno poi venivano invitati tutti i genitori a un ricevimento nel giardino, attorno alla secolare quercia che ci volevano dieci bambini per abbracciarla in girotondo. Il discorso celebrativo spettava al vecchio professor Codignola, che ormai aveva affidato la scuola ad altri. Mi impressionava il fatto che ogni volta dicesse con passione: «Ricordatevi bambini che l’Italia ce la siamo liberata da soli!» (il mio babbo, che era stato partigiano comunista, mi aveva però sempre raccontato dell’eroismo degli alleati, dei suoi rapporti con i soldati angloamericani, basati soprattutto sullo scambio di sigarette).

La biblioteca della scuola era una stanza grandissima tutta foderata di libri a scaffale aperto. Il re di quel luogo, dal quale mi aveva spedito la maestra per togliersi di torno per almeno un’oretta un malinconico rompiscatole, era un ometto secco secco. Si chiamava “maestroandreotti”. Avendo constatato dal suo ordinato schedario che non avevo ancora mai preso in prestito un libro, mi scrutò a lungo in silenzio, deglutendo pensieroso e facendo andare su e giù nervosamente il pomo d’Adamo. Poi, come colto da un’illuminazione, scattò in piedi e prese dallo scaffale rosso un libro. Ma esitava a consegnarmelo. Me lo sfogliava sotto il naso e io vedevo in rapida sequenza le immagini di un castello in fiamme con un cavallo di legno, navi in mezzo alla tempesta, un gigante furente, una fanciulla poco vestita, una donna al telaio (che assomigliava alla paziente maestra…). Alla fine me lo diede pronunciando una frase che mi lasciò perplesso: «Leggilo in fretta, riportamelo entro una settimana: ti farà capire tutto della vita». Lo divorai in un sabato: mi piacque molto, ma capire la vita non era la mia preoccupazione principale di allora (e nemmeno di oggi, a esser sinceri). Comunque l’Odissea è il primo libro che ho letto da solo. Pur abitando in una casa strapiena di libri, quello, in una versione ridotta per ragazzi, è stato il mio libro. Lo restituii ma lo riebbi quasi subito indietro perché la maestra, forse influenzata dall’entusiasmo col quale ne parlai in classe, decise di dedicare la recita di quell’anno a una messa in scena tratta dall’Odissea. Pretesi per me il ruolo di Ulisse, ma non la spuntai: toccò a Marcello, un furbone che, da grande, avrebbe fatto l’assicuratore.

A volte facevano la loro comparsa nelle classi alcuni adulti che se ne stavano in piedi in silenzio a osservarci. Prendevano molti appunti. Durante la ricreazione parlottavano in inglese con i nostri maestri. Da tutto il mondo venivano a imparare come si insegnava nella nostra strana scuola. Ricordo una donna con un bellissimo sari verde e rosso e un puntino nero appena sopra l’attaccatura del naso tra i sui bellissimi occhi; un messicano sorridente che ci stupiva con giochi di prestigio con una pallina che ricompariva sempre nella sua tasca; un cinese basso e rotondetto, che ci osservava annuendo continuamente col capo e, tornato nella sua scuola di Shanghai, ci fece preparare dai suoi dotatissimi alunni dei coloratissimi aquiloni a forma di drago che ci vennero spediti in un pacco con meravigliosi francobolli che ci giocammo nella lotteria di fine anno. Con un ingegnoso maestro svizzero albino, che rimase più di un mese con noi, costruimmo un razzo utilizzando la punta della scopa della bidella, segata a dovere, attaccata a una cartuccia da caccia piena di polvere nera e stoppa collegata a una lunga miccia. Posizionammo la rampa di lancio nel giardino, al lato del campo di pallacanestro, e lo facemmo partire. Il razzo colpì la campana del campanile della chiesa di Santa Croce che si mise a suonare a un’ora impropria.

In una scuola così capitavano di frequente tipi strani. A metà del terzo anno arrivò un bambino dai tratti molto delicati, la pelle bianchissima e due grandi occhi acquosi che sembravano sul punto di piangere. Gian Maria era figlio di un pittore. Non parlava volentieri perché si vergognava della sua “lisca”, la dislalia alveolo-dentale consistente nell’alterata pronuncia del fonema S. Il suo cognome ne conteneva parecchi. Gian Maria aveva un’aria sognante, accentuata da una sfumatura di sorriso. Sembrava saper far fruttare alla perfezione le possibilità che quella scuola gli offriva. Nell’anno che rimase con noi non compilò nemmeno una schedina. Qualsiasi cosa gli venisse richiesta lui la traduceva in disegni bellissimi. Nelle ore dedicate al disegno però cambiava stile. Se il maestro chiedeva di riprodurre un vaso di fiori lui, in pochi minuti, dipingeva un vascello volante pieno di crocifissi. Invece del richiesto ritratto della compagna di banco, produceva un coloratissimo minotauro sbuffante. E lei, vedendo il proprio nome sotto quel mostro, inevitabilmente scoppiava in lacrime.

Fondamentale per la nostra formazione extrascolastica fu l’arrivo, in quinta, di un pluriripetente dalla limitrofa, e rivale, elementare Vittorio Veneto. Massimo si considerava già un uomo e vantava ripetute frequentazioni con prostitute del quartiere. Diceva di conoscere tutti i segreti del sesso. La nostra curiosità di maschietti era enorme. Così lui si organizzò per trarne un certo guadagno. Durante la ricreazione Massimo si andava a sedere dentro uno dei gabinetti. Noi ci mettevamo in fila, bussavamo, venivamo ammessi uno alla volta nell’angusto locale e, a fronte di una merenda, figurine o, ancor meglio qualche spicciolo, si aveva diritto a una sola domanda (col giuramento di non divulgare ad altri ciò che si era venuti a sapere). Le risposte erano ovviamente vaghe e sibilline: «Se non capisci, arrangiati!». Io lo misi in difficoltà perché ero interessato a comprendere come facessero a uscire le uova dalle galline. Mi liquidò con una bestemmia dandomi del pervertito.

Sempre in quinta comparve una novità: l’ora di religione. Non so come mai quella scuola, tenacemente laica, avesse introdotto tra le materie di studio l’insegnamento della religione cattolica. Ricordo che ci furono accese discussioni tra maestri, genitori e la direttrice didattica. Fatto sta che un giorno arrivò un prete che, a causa delle lunga tunica nera, sembrava ancora più alto. La maestra, un po’ imbarazzata, disse che Olga, Gabriele e io dovevamo uscire e stare seduti buoni, buoni per un’ora su delle seggiole collacate appositamente nel corridio. Guardai perplesso Mario che stava con gli occhi bassi (molti anni dopo mi disse che i suoi genitori, ferventi socialisti e laici, avevano deciso di farlo stare in classe perché non si sentisse ulteriormente emarginato). Olga e Gabriele erano un po’ affranti; io ero stato preparato dalla mamma e mi sentivo perciò un po’ “speciale” anche se mi rodeva la curiosità di sapere che cosa venisse detto là dentro. Ma nessuno dei miei compagni volle poi informarmi: erano molto evasivi nelle risposte. Mi feci l’idea che quell’uomo vestito di nero, dalla faccia bonaria, che all’uscita ci salutava sempre con un sorriso e una carezza sulla testa, fosse una specie di mago e che in classe si compissero dei riti di una setta angelica. In quelle ore trascorse in corridoio Gabriele mi insegnò l’alfabeto ebraico e, con l’ausilio di un piccolo libretto con illustrazioni di Chagall che portava sempre nella sua sacchetta, mi raccontò chi fossero gli ebrei. Il mio migliore amico, al quale devo tra l’altro la passione per il Milan (baldanzosi andammo un giorno assieme, col suo babbo, a farci firmare il pallone da Gianni Rivera in trasferta a Firenze), era un bambino romagnolo che una malattia contratta da sua mamma in gravidanza gli impediva di crescere. Mario era intelligentissimo, amante della musica, insofferente a qualsiasi imposizione, orgoglioso dei suoi capelli rossi. Sensibile scrittore e precocemente politicizzato. Sapeva di avere gli anni contati e proprio per questo amava la vita in modo spasmodico. Nessuno lo trattò mai come un “diverso”: se c’era da fare una rissa non veniva risparmiato e fu sempre coinvolto quando si organizzava un furto in cucina. Odiavamo entrambi le uova sode e una volta alla settimana ci ingegnavamo a trovare il modo di farle sparire senza doverle mangiare (l’unico intransigente obbligo della scuola era infatti quello di mangiare tutto quello che ci veniva propinato a pranzo, cucinato da un manipolo di corpulente e spietate signore, affiancate a rotazione da un gruppo di pasticcioni alunni per classe). Ci siamo continuati a frequentare anche dopo, fino alla fine dell’università, ricordando con nostalgia gli anni trascorsi assieme alle elementari. Si laureò brillantemente in Scienze politiche e poi morì.

Quando fui in quarta elementare mi ammalai gravemente e persi tre mesi di scuola. Allora compresi veramente quanto fossi affezionato a quel luogo (tanto che, l’anno seguente, quando mi veniva la febbre, scuotevo di nascosto il termometro per abbassare la temperatura e poter andare comunque a scuola). Era quasi Natale, fuori faceva buio e pioveva. Ingannavo il tempo contando le goccioline che scivolavano sul vetro appannato della finestra. Cristiano, il bambino coi riccioli eletto ripetutamente “giudice” (futuro giornalista), che stava seduto nel banco di fronte al mio, alzò gli occhi dal quaderno, mi guardò perplesso e disse ad alta voce:

«Maestra, Francesco è tutto blu, come un Puffo!». Ci fu una grande confusione e in pochi minuti mi ritrovai nell’infermeria, tra le grinfie della signorina Buffi, quella dei vaccini e delle punture, intabarrata nel suo candido camice abbottonato fino al collo. Lei riuscì a rintracciare mia madre nella scuola dove insegnava e la fece venire d’urgenza. Mi consegnarono a lei con un misto di paura e ribrezzo. Nel delirio per la febbre alta invocavo Maurocicciobomba e i suoi panini con la pasta. I miei due zii medici diagnosticarono una leucemia: per fortuna poi venne fuori che forse era una forma di avvelenamento del sangue. Durante la lunga convalescenza, una volta alla settimana, la scuola mi faceva recapitare a casa, tramite un bidello, i compiti e le letture da fare, assieme a pacchetti di bigliettini colorati scritti e disegnati dai miei compagni. Tornai a scuola in primavera smunto e pallido. E forse fu per pietà che, nelle elezioni, fui eletto assessore alla cultura e di conseguenza direttore del giornalino autoprodotto e ciclostilato Il nostro piccolo mondo.

Scuola-Città non contemplava i tre anni delle medie, ma un triennio post elementare chiamato “Avviamento al lavoro” dove gli alunni passavano il tempo a piallare, saldare, smontare, collegare, sciogliere, incollare… Tutti sognavamo di andare a divertirci lì. Ma se uno come me, meschino, aveva il destino segnato sin da prima di nascere, di fare il liceo classico, non c’era altra strada che, per le medie, cambiare scuola e andare in una “normale”. Il primo anno dovetti imparare amaramente che cosa fossero i voti, la competizione (che portava i compagni fino al punto di passarsi i compiti sbagliati per fare migliore figura), il dover sempre stare seduti nel banco assegnato. Fu il mio ritorno del principio di realtà. Soffrii molto e non mi normalizzai mai del tutto, tantomeno al liceo.

L’editore Roberto Calasso era di Firenze e nipote proprio di Ernesto Codignola. In uno dei suoi ultimi bei libri, Memè Scianca (Adelphi 2021), racconta che i nonni gli fecero visitare, nel 1948, quando era all’inizio delle elementari, Scuola-Città: «Non ricordo bene le mie reazioni, certamente piuttosto fredde (…). Ero parecchio critico. Preferivo stare dov’ero».

A me invece è rimasto il ricordo dei cinque anni tra i più belli e felici della mia vita.

Francesco Cataluccio (Firenze, 1955), scrittore e saggista. Ha vagabondato a lungo in Polonia e nel Centro Europa. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Tra i suoi libri: “Immaturità. La malattia del nostro tempo” (Einaudi, 2004), “Vado a vedere se di là è meglio” (Sellerio, 2010), “Chernobyl” (Sellerio, 2011), “La memoria degli Uffizi” (Sellerio, 2013), “In occasione dell’epidemia” (Casagrande, 2020).