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Le mille dosi di New York

Ogni tre ore a New York City qualcuno muore per droga: eroina e Fentanyl si sono accucciati in ogni angolo. Il legame tra creatività e dipendenza, un alibi quasi, oggi non esiste più. Viaggio musical-letterario nei quartieri dove lo spaccio è invisibile, ma regge la regola di sempre: qui è meglio non morire per strada

Ricorda Richard Lloyd, chitarrista dei Television di Tom Verlaine: «Nei primi anni Ottanta, in giro per Alphabet City vedevi delle file come ai botteghini dei grandi cinema. In fondo però c’era solo una porta con una fessura: in alto infilavi i soldi e dicevi quel che volevi, eroina o cocaina, e la droga usciva dal buco in basso. Incolonnati c’erano vecchie signore, yuppies con la ventiquattrore, drogati terminali, facce anonime, rockettari, tipi che pensavi di conoscere. La fila era sorvegliata da guardiani forzuti che ripetevano a cantilena: ‘Allineati per uno… Niente banconote da un dollaro, solo da cinque o dieci… dite che volete, pagate e levatevi di torno’».

Nel 1990, a New York la metà dei consumatori di droghe per via intravenosa era infettata dall’Hiv. L’Accademia nazionale delle Scienze stima che più di 100 mila di loro siano morti di Aids, dopo essersi contagiati con gli aghi infetti che circolavano nelle shooting gallery, gli edifici abbandonati controllati dagli spacciatori che, oltre a vendere le sostanze, affittavano aghi col supplemento di un dollaro. L’ago doveva essere restituito, per essere riusato. E l’Hiv è dilagato.

Oggi il parco di Washington Square, col suo maestoso arco romanico in fondo alla Quinta Strada è infestato dalla droga. L’angolo nord-ovest è pieno di crack ed eroina e le aiuole sono disseminate di siringhe e buste vuote di droga. Basta sostare un attimo e un ambulante ti offre una dose di crack a venti dollari, o sei per cento dollari. Ma questo ormai è quasi folklore. La vera industria della droga in città adesso è completamente sommersa. E sterminata.

Nel South Bronx, al famigerato angolo di St. Ann’s Avenue con la 139esima, opera Harm Reduction, l’organizzazione no profit per il sostegno dei tossicodipendenti, coi suoi camper, uguali a quelli che a Roma mette in strada Villa Maraini. Offrono siringhe pulite, supporto medico e psicologico, ma soprattutto hanno pronto il Narcan, ogniqualvolta se ne richieda l’uso, salvando così dozzine di vite.

Sciccheria e degradazione di drogarsi a New York City. La Grande Mela è da sempre la capitale della droga d’America e del mondo occidentale. Eppure il movimento e lo sviluppo della droga per le strade della città è sinuoso come quello d’un lungo serpente, che rimanda allo sfinimento il momento in cui stringere la presa che annienta. Intanto il rapporto tra New York e la droga rimane sempre intimo, tollerante e curioso, acquattato nelle pieghe delle ondate repressive e del moralismo ansioso che periodicamente investe questa titubante società.

La coltivazione della marijuana iniziò negli States attorno al 1600 tra i coloni di Jamestown, che coltivavano cannabis sativa per sfruttarne la fibra forte, buona per fare corde, vele e vestiti. Durante il XIX secolo piantagioni di marijuana fiorirono in Mississipi, Georgia, California e attorno a New York. All’epoca fumare hashish, la preparazione derivata dalla resina essiccata della pianta, era popolare in Francia, ma molto meno negli Stati Uniti. A partire dalla metà dell’Ottocento però la marijuana viene utilizzata negli States come medicinale e può essere acquistata facilmente negli empori. I Tea Pads, dove si acquista e consuma marijuana a prezzi modici, vengono su come funghi nelle grandi città. Nel 1930 a New York City ci sono almeno 500 di queste “sale da tè”, ritrovo di artisti e bohémien. Fino al ’37, quando il Congresso approva il Marijuana Tax Act che criminalizza l’erba come sostanza proibita.

Quanto alle droghe oggi vengono classificate “pesanti”, la relazione con la Grande Mela affonda le radici in un conflitto, la Guerra civile, capace di produrre una crisi esistenziale così diffusa e profonda che la dipendenza dall’oppiaceo chiamato morfina, usato come antidolorifico per i feriti rientrati dal fronte, diviene un problema reale, allorché il suo uso slitta dal campo di battaglia alla società civile. È l’oppio, da cui derivano sia morfina sia eroina, la prima droga contro la quale il governo americano legifera, con l’atto del Congresso del 1890 che impone tasse gravose sugli oppiacei. Nonostante ciò, introdotto dalla Bayer nel 1898 come sciroppo per la tosse e come alternativa “che non crea dipendenza” rispetto alla morfina, l’oppio continua a essere venduto al banco, prima che nel 1906 venga introdotta una vera regolamentazione federale sui farmaci. Fino ad allora chiunque può entrare nella farmacia di quartiere e acquistare lo sciroppo Bayer o i tonici alla morfina pubblicizzati come panacea praticamente per tutto, dall’indigestione all’insonnia, o lo sciroppo Winslow, a base di morfina e alcol, venduto alle madri come lenitivo per i bambini in dentizione. Autentici successi commerciali, vanamente contrastati dal divieto d’importazione di oppio da fumare entrato in vigore nel 1909, che comunque rappresenta lo stigma di questo consumo. Una volta che l’uso viene criminalizzato e gli oppioidi diventano droga da mercato nero, tutti i consumatori si trasformano istantaneamente in criminali – procedimento sociale non indolore, a ben pensarci. Negli anni Venti e Trenta, sono gli immigrati bianchi della classe operaia a pagare per primi il prezzo della scomunica. Subito dopo tocca ai neri.

Nel secondo Dopoguerra l’eroina appartiene alle economie quotidiane del South Bronx ed è diventata un modo per guadagnarsi da vivere nel quartiere noto come il miglior posto per comprare droghe. Nel 1969 la droga è un’emergenza nazionale per la quale il presidente Nixon elabora un piano in dieci punti per ridurne il consumo illegale, scegliendo New York come banco di prova dell’esperimento: «La sola New York City ospita 40 mila eroinomani, numero che sale di 7-9 mila unità ogni anno», dice ai connazionali. Peccato che la cura arrivi quando ormai il malanno si è capillarmente diffuso in tutti i rivoli della metropoli: nel 1978, Sterling Johnson, procuratore speciale di New York City, definisce Harlem «centro del traffico di droga della nazione», luogo dove gli spacciatori vendono apertamente «ai neri che camminano per le strade e ai bianchi che nemmeno scendono dalle loro auto». La gente arriva da cinque stati per comprare eroina a Harlem. E le altre droghe da tempo hanno aperto fiorenti botteghe a ogni angolo.

Dagli anni Quaranta ai Sessanta l’abuso di droghe nella comunità del jazz ha già raggiunto proporzioni epidemiche e l’uso di stupefacenti è sdoganato. Molti jazzisti dipendenti razionalizzano l’uso di eroina, cocaina e morfina come ménage esistenziale, sostenendo che le droghe migliorano la loro creatività, offrendo stimoli, senso di appartenenza e soprattutto una via di fuga dalle pressioni della difficile vita del musicista (quasi sempre) di colore. Del resto il meraviglioso suono di Charlie Parker, Miles Davis e Chet Baker, tutti tossicomani, rafforza questa convinzione e ancor’oggi ci si chiede come il devastante abuso di stupefacenti abbia influito sulla loro produzione. Negli anni Cinquanta lo psicoanalista Charles Winick conduce un’indagine al riguardo, illustrata in How High the Moon – Jazz and Drugs (1961), in cui descrive come i rigori della vita del jazzista siano spossanti e cerchino sollievo nelle droghe. Winick ipotizza che la natura stessa del jazz spinga alla sperimentazione anche in altri aspetti della vita, come l’uso di droghe. Inoltre il talento di musicisti dipendenti come Parker, Billie Holiday, Miles Davis provoca l’imitazione da parte dei musicisti più giovani, convinti che sballarsi possa migliorare le loro prestazioni. L’autore stima che all’epoca a New York siano attivi circa cinquemila jazzisti, di cui non meno di 700-800 consumatori abituali di eroina. Tra il 1954 e il 1955 Winick intervista 409 musicisti sull’uso di droghe, età media 33 anni, il 69 per cento bianco, il 31 per cento nero. Le interviste rivelano che il 53 percento di loro ha fatto uso di eroina e il 16 per cento è consumatore fisso. Il consumo di cocaina è invece ridottissimo, a causa del suo costo elevato. Molti sperimentano combinazioni di farmaci e sostanze, alla ricerca della massima soddisfazione. Quando a sedici anni Charlie Parker inizia l’ascesa ai vertici del mondo del jazz, è già un eroinomane. Morirà a trentaquattro anni. E comunque sarebbe riduttivo parlare solo di jazz. Per gran parte del Ventesimo secolo in molti altri ambiti espressivi l’abuso di droghe è silenziosamente considerato un prerequisito per la grande arte. Qualsiasi elenco di autori e poeti del Ventesimo secolo, habitué dei salotti di Manhattan, include un numero impressionante di tossici: Lucia Berlin, Raymond Carver, John Cheever, F. Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, Jean Rhys, William Styron, John Williams – tutti, a vari livelli, dipendenti. La figura apicale, il prototipo del moderno artista intossicato, ha del resto abitato ai margini del Bronx e si chiama Edgar Allan Poe, mitico per l’“ebbrezza bestiale” da Rufus Wilmot Griswold, esecutore letterario del patrimonio di Poe ma anche suo acerrimo rivale, attento a presentarlo come un degenerato. Di fatto la dipendenza è stata a lungo una specie di medaglia, una valuta culturale in libera circolazione tra gli intellettuali d’oltreoceano: fino al 1962, dei sette americani che avevano vinto il Nobel per la letteratura, cinque – Faulkner, Hemingway, Sinclair Lewis, O’Neill e Steinbeck – sono dipendenti da sostanze, anche se poi le cose miglioreranno, con l’avvento degli ebrei Singer e Bellow, meno interessati alla questione. Ma nei bollenti Sixties il teorema è ben in voga: quando chiedono a Bill Burroughs perché usi l’eroina, lui risponde: «Per sopravvivere». Ed è singolare pensare quanto il pubblico sia disposto a perdonare gli artisti per questa trasgressione, se Norman Mailer, lo stesso che, sotto effetto di alcol e droghe, ha quasi ucciso la moglie durante la festa in cui ha annunciato la sua candidatura a sindaco di New York City, si vede attribuire due premi Pulitzer.

Ovviamente è un discorso a doppia velocità: la droga apparentemente necessaria per reggere la pressione del produrre arte costituisce solo il florilegio del consumo “normale” di droga, quello anonimo della gente qualsiasi, esente da scusanti creative. Anche per costoro New York è sempre stata il luogo deputato dell’eroina – la droga diffusasi parallelamente all’aumento delle diseguaglianze a partire dagli anni 20 – travolgendo per primi i poveri e i diseredati. Eppure, in questa altalena d’alti e bassi nella liaison con le droghe, a un certo punto, a cavallo tra anni Settanta e anni Ottanta, la New York sporca e peccaminosa del sindaco Dinkins riesce a rilanciarsi con una reputazione e una suggestione irresistibile tra coloro che cercano nelle sue strade l’ispirazione per la migliore arte irregolare. Warhol e Basquiat, John Lennon, le Dolls di Johnny Thunders e Jerry Nolan, Syd Vicious, Richard Hell, Mapplethorpe e Jim Carroll, Lou Reed, Nan Goldin, la scena del Cbgb e di St. Marks Place e la moltitudine di sconosciuti talenti/non talenti, tutti convivono sotto lo stesso cielo e desiderano la fama con ogni possibile mezzo. In tanti si convincono che la scorciatoia sia lo stravolgimento tossico, seriale e sistematico. E New York riassume le vesti di laboratorio della creatività, oltre i compromessi. Ci vorrà il superlavoro dei medici legali, la proliferazione dei certificati di morte e la falce dell’Aids per seppellire questa nuova ondata di devastanti droghe-chic nella Grande Mela. Alla fine restano pochi superstiti e una sensazione di caos. Ma i venti dell’attrazione sociale sono già cambiati: il nuovo verbo è arricchire. Anche perché i ricchi si sanno drogare meglio, o almeno s’illudono di saperlo fare. Nell’inferno della New York della droga, pieno di anime in pena, un giorno decide di discendere Satana, anche se il suo nome lo fa sembrare un eroe manga: Fentanyl. Tutto cambia. In peggio, molto in peggio. A metà marzo scorso, nella stessa notte, tre giovani professionisti muoiono dopo aver acquistato dallo stesso spacciatore droga a base di Fentanyl. Tre dosi fatali, mascherate in quella che le vittime pensavano fosse solo cocaina. Le analisi rivelano che si trattava sì di cocaina, ma mescolata a Fentanyl. La notizia fa scalpore e finisce nei notiziari, perché si tratta di tre insospettabili impiegati in grandi aziende, bianchi e istruiti.

In realtà ogni tre ore a New York City qualcuno muore di droga. Le morti per overdose negli ultimi anni sono aumentate vertiginosamente proprio a causa dell’avvento del Fentanyl contenuto nelle droghe. Il Fentanyl è un oppioide sintetico economico, infinitamente più forte dell’eroina. Se l’overdose di un adulto viene provocata da 30 milligrammi di eroina, bastano 3 milligrammi di Fentanyl per ucciderlo, l’equivalente di pochi grani di sale fino. La potenza del Fentanyl ne fa una sostanza facile da contrabbandare, ma difficile da distribuire uniformemente nelle dosi messe in vendita. Per questo si muore. Un recente test mostra come su 29 dosi di eroina analizzate, soltanto tre non contengono Fentanyl.

Adesso chi usa droghe illegali a New York può scoprire cosa c’è dentro ciò che ha acquistato grazie a un servizio offerto dall’amministrazione cittadina, utilizzando un semplice reagente. Pochi purtroppo hanno voglia di sottoporsi alla procedura. Molti acquirenti inesperti credono di aver comprato ero o coca, ma in realtà assumono Fentanyl mescolato ad altre sostanze chimiche, come la xilazina, un sedativo per animali. L’overdose è dietro l’angolo e c’è un brevissimo lasso di tempo per salvare la vita a chi ci finisce. L’overdose costituisce oggi l’80 percento delle morti accidentali a New York, inclusi incidenti automobilistici e sul lavoro. E il Fentanyl, mescolato all’eroina e alla cocaina, è coinvolto nell’80 percento delle overdose accidentali.

L’ondata di morte sollevatasi durante la pandemia è ora la “nuova normalità”, secondo l’ufficio del medico legale di New York City. Un mercoledì qualsiasi di qualche mese fa 39 persone sono morte in ogni angolo della città: numeri così, pochi anni fa, sarebbero stati aberranti. Oggi sono solo il sintomo che è in circolazione una partita di droga tagliata male col Fentanyl. Nel 2021 a New York ci sono stati 2.700 decessi per overdose, nel 2022 già a fine di agosto si sono superati i 3.000. Spesso le vittime vengono trovate con gli aghi ancora nelle braccia, perché il Fentanyl li fulmina. Il lasso di tempo per intervenire col Narcan è brevissimo, anche se la versione spray nasale è acquistabile ovunque.

La rivoluzione nel mercato dell’eroina proviene dalla forza più potente del contemporaneo: la tecnologia. Oggi c’è una montagna di eroina disponibile, dal Lower East Side ad Harlem, ma la vendita è diventata invisibile. Il passaggio dallo street market con lo spacciatore all’angolo della strada, ai servizi di consegna a domicilio ha preso le mosse a fine millennio. Adesso, 24/7, basta un messaggio sul cellulare dello spacciatore e arriva la consegna tramite franchising di tipo aziendale. Menù completo: erba, coca, ero, crack, pasticche, droghe chimiche. Questi metodi di marketing hanno dei vantaggi: ad esempio riducono drasticamente la violenza perché non c’è più un’area di spaccio da contendersi e gli spacciatori sono perfettamente mimetizzati, il che tiene a bada i livelli di allarme delle famiglie e di interi quartieri. Inoltre i rischi per i clienti sono minori: acquistando dallo stesso rivenditore aumenta la fiducia, viene garantita la qualità del prodotto e diminuisce la probabilità di imbrogli.

Unica variante, secondo i soliti cicli degli stili: adesso l’artista drogato non tira più, è visto con riprovazione e sospetto. Quindi drogarsi a New York, se si può dire così, è meno figo di prima. La cosa non scalfisce ovviamente né i consumi né le attitudini della moltitudine di habitué. Soltanto è come se le droghe, a cominciare dalla regina, l’eroina, si fossero accucciate negli angoli e nei vicoli anonimi della metropoli. Adesso chi non ne fa a meno, a patto gliene freghi qualcosa, non dispone di alibi culturali, o scuse del genere. Ci si fa per mantenersi in equilibrio sul sottile sentiero che oscilla tra la vita e la morte, perché non si sa scegliere da che parte buttarsi. E a New York, cosa nota, non conviene morire per strada, perché gli altri sono tutti troppo occupati a inseguire la linea delle proprie ambizioni.

Stefano Pistolini (Roma, 1955), giornalista, scrittore e autore. Collabora con il Foglio. A febbraio esce il suo romanzo “La Scienza di Noi” (Elliot). Tra i lavori più recenti, ha diretto il documentario “Ciao, Libertini! Gli anni Ottanta secondo Pier Vittorio Tondelli” e prodotto i docufilm “Sisters” e “Chiamatemi Tony King”.