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Le nostre estati senza Susanna Agnelli

Mio zio diceva a mia madre: a lei piace fare le cose da povera e voi le fate fare cose da ricca. Il desiderio di borsa frigo, le cameriere licenziate, le smanie di villeggiatura e la villa in affitto. Memorie di una ragazza senza lavasecco e senza tette, fino a Caracas
di Guia Soncini
illustrazioni di Makkox

Chi stirava? Me lo chiedo tutte le estati, quando i lavasecco fanno sei settimane di ferie, e le fanno adesso, nel secolo degli orari continuati e delle vacanze brevi, quando è impossibile avere un vestito presentabile da luglio a settembre, quando devi fare attenzione a centellinarli, perché metti che a fine agosto ci sia una qualche cena di rientro in città con gente alla cui opinione tieni abbastanza da non andarci con la maglietta con cui hai dormito, metti serva una seta non stropicciata e non macchiata, o ce l’hai pulita oppure peggio per te, o ce l’hai pulita o devi andare nei centri commerciali fuori città dove la leggenda dice i lavasecco non chiudano mai, devi farti accompagnare in macchina, devi affidare il tuo guardaroba a sconosciuti. Ma, se è così adesso, come facevamo negli anni Settanta, negli Ottanta? I nostri vestiti, quelli dei bambini, quelli si lavavano ad acqua, bastava una Vigiassa che li stirasse, ma le adulte come facevano, quando i negozi stavano chiusi molto più di ora, quando le città d’estate erano postnucleari molto più di ora, e quando noi facevamo tre mesi di villeggiatura; come facevamo quando, come Susanna Agnelli negli anni Venti o Trenta del secolo scorso, “Dopo gli esami partivamo per il mare”?

A casa nostra non c’è mai stata una Forte dei marmi – una casa di villeggiatura di famiglia, in cui si avesse la certezza di tornare tutte le estati – né una Vigiassa: una cameriera che i bambini e il resto della servitù potessero vessare. Le case arrivavano e duravano tre quarti d’ora: finché non arrivava qualche debito da pagare e toccava venderle di gran corsa e perdendoci sempre tantissimo. Le cameriere pure: arrivavano, poi a un certo punto succedeva sempre qualcosa di tragico. Tentavano di uccidere la mamma (il mélo a casa mia era sempre credibilissimo), pretendevano i contributi (screanzate). Da piccola non sapevo che Vestivamo alla marinara fosse uno dei romanzi più belli del Novecento italiano: per me, era il libro che leggevo sospirando, ah, vedi, è così che vivono quelli che non sono poveri o ricchi a seconda del semestre, che non devono temere che un giorno citofoni la Guardia di Finanza e sequestri tutto. Quelli che ogni anno sanno dove andranno in villeggiatura l’anno dopo.

Mio zio diceva a mia madre: a lei piace fare le cose da povera, e voi le fate fare le cose da ricca. L’illuminazione l’aveva colto osservando il mio sguardo incantato davanti alla borsa frigo che si portavano in spiaggia quando, per una parte delle vacanze, venivo smollata al sud, dai parenti materni, acciocché i miei genitori potessero divertirsi come si divertivano gli adulti quando gli adulti ancora esistevano: senza bambini tra le scatole. Nella borsa frigo c’erano le melanzane alla parmigiana e la lasagna (in molisano: ’a ’sagna, con la esse dura), ed era come essere al cinema: quindi c’è chi non vive di panini inutilmente costosi e quasi certamente cattivi del bar dello stabilimento. Quindi c’è chi cucina, talmente sempre che cucina anche quando c’è da andare al mare. Forse ho sottovalutato le doti diagnostiche di mio zio, fatto sta che una delle pochissime estati che non confondo con le altre è quella delle creme.

Doveva essere una stagione di cameriere licenziate, ed era uno degli anni in cui andavamo al Conero, dove tutti gli amici dei miei e molte mie compagne di scuola avevano ville di proprietà, tutte nello stesso villaggio. Noi, come al solito, no; noi la prendevamo in affitto, la villa in quel villaggio: eravamo ricchi in prestito, noi, ricchi a tempo determinato, ricchi per finta. Gli altri stavano tre mesi, come gli Agnelli al Forte; noi stavamo un mese o poco più, perché le smanie della villeggiatura prevedevano che prima di finire l’estate al Conero mamma volesse andare in posti in cui potersi dare maggiori toni da donna di mondo (papà stava in città, teoricamente a lavorare, plausibilmente a fare l’adultero; ci raggiungeva a un certo punto d’agosto). Mamma ripassava da Bologna, cambiava le valigie (con quali vestiti puliti? Aveva un triplo guardaroba? Questo mistero del lavasecco non mi fa dormire), e ripartiva per il Conero. E insomma un anno, l’unico di cui conservi ricordi indelebili, decise che era stufa della gestione della casa in villeggiatura, di portarsi la cameriera, di avere il problema della lavastoviglie: saremmo andate in albergo (retrospettivamente: doveva essere un anno in cui non poteva permettersi cameriere). Stare in albergo cambiava un dettaglio fondamentale: non potevamo ricevere. Quindi era sempre lei ad andare nelle case degli amici, e non aveva certo intenzione di portarsi dietro una bambina la sera. Per non parlare del fastidio di avere a che fare di giorno con una bambina che non solo era una bambina, quindi ontologicamente fastidiosa, ma anche un esemplare particolarmente fallato: odia il sole, odia socializzare, odia la conversazione degli altri bambini. (C’è una magnifica foto di una di quelle estati, scattata in Costa Smeralda. Mia madre è abbronzatissima, guarda l’obiettivo come chi nella vita ambisca solo a essere fotografata, e ha le tette di fuori – tette strepitose, mio padre le aveva detto di non allattare per non rovinarsele, e quella foto è in effetti la migliore pubblicità progresso a favore del latte artificiale. Io ho gli occhi strizzati per il fastidio del sole, sono bianca come una vergine suicida, e ho la prossemica di chi ambisca solo a tornare al chiuso, lontana da obiettivi fotografici e da quella fastidiosa voglia di vivere).

E insomma quella memorabile estate, in quell’albergo al Conero, con noi c’era la Ferina (la magnificenza del cui nome mi è divenuta chiara solo molti anni dopo: un’infanzia sprecata, se avessi preso appunti sai quanti romanzi). La Ferina era la suocera della mia zia preferita: una cugina di mia madre che, da zitella, si era occupata di me nei miei primi anni di vita; poi s’era sposata, con un romagnolo grasso che mangiava caramelle dietetiche. Come la madre del mangiatore di caramelle dietetiche fosse finita in vacanza con noi è un mistero che non saprei dipanare, fatto sta che mia madre andava a far la splendida in giro per ville e io cenavo in albergo, alle sette, con i turisti tedeschi e la Ferina. E la Ferina ordinava le creme. Quando lo racconto in questo secolo, nessuno mi capisce mai subito. Mi guardano un po’ perplessi mentre descrivo l’agnizione della crema di piselli, la comprensione del mio non essere niente di preciso, non avere appartenenze di classe neanche sul piano gastronomico, essere una poco ricca con velleità (i più cafoni mi correggono l’uso di “agnizione”). Ci mettono un po’, poi immancabilmente dicono: ah, ma intendi le vellutate. Sì, ma prima che cominciaste a darvi un tono anche mangiando minestre in busta si chiamavano creme; o almeno così, nell’albergo da poco ricchi del Conero, erano indicate sul menu le polverine che scioglievano nell’acqua e venivano servite per cena a bambine bianchicce con governanti non professioniste romagnole.

Facevo il bagno la mattina, perché la Ferina mica aveva il sovrano disinteresse dei miei genitori per il cibo, mica si dava un tono con l’insalata di cuori di palma del bar della spiaggia, lei; la Ferina risaliva in albergo e pranzava primo secondo e dolce, e io con lei, e poi le servivano ore di pisolino per digerire, ed ecco che il pomeriggio se n’era andato ed era l’ora della crema di piselli. Facevo il bagno la mattina, e lo facevo malvolentieri, perché il delizioso modo in cui mia madre aveva deciso di farmi sentire la sua vicinanza e il suo affetto era farmi un costume giallo all’uncinetto, e mi pareva ostile spiegarle che l’uncinetto non è una modalità adatta per i costumi da bagno, quell’affare era scomodissimo e appena lo bagnavi diventava rigido come una cintura di castità e non vedevo l’ora di levarmelo e andare ad annoiarmi nella stanza che condividevo con la Ferina, ad annoiarmi con la tapparella abbassata perché lei doveva riposare e non guidava: mica poteva portarmi in collina, dove le mie amichette giocavano nei giardini delle loro ville da vere ricche.

Ma ora basta con la mia schifa infanzia, e parliamo delle smanie del decennio successivo, le cui villeggiature ho trascorso intenta nell’unica attività cui reputo sensato un essere umano si dedichi tra i quindici e i trent’anni di vita: fornicare. In quel caposaldo della cinematografia che è Sapore di mare, c’è una napoletana che è la miglior rappresentazione di mia madre che abbia mai visto su schermo. Marina Suma ha un flirt estivo con Jerry Calà, lui è figlio di veri ricchi e lei di arrampicatori sociali. I due sono in camera a pomiciare, e arriva la madre di lei. Calà si nasconde sotto il letto, e la madre, ignara d’essere ascoltata, esorta la figlia a infilarglisi nel letto, dato che si è informata e le risulta il giovanotto abbia i soldi che gli escono dalle orecchie.

Noi marinesuma siamo destinate a morire d’imbarazzo (e a veder fuggire tutti quelli che ci piacciono, giustamente terrorizzati da quella che a Roma si chiama “l’attaccacappello”, colei che vuole sistemarsi, in proprio o a mezzo prole), fino a che non ci rifacciamo una vita a qualche centinaio di chilometri da casa.

Nelle villeggiature non familiari, tutto poteva accadere, e tutto è accaduto. Tizi di cui non sapevi il cognome ai quali ti trovavi avvinghiata dopo troppe bottiglie di Greco di Tufo (se eravate vivi nel Novecento, ricorderete quegli anni in cui sembrava che fosse l’unico vino esistente). Tizi senza una lira ma molto simpatici che ti facevano fare vacanze principesche perché tutti i veri ricchi li volevano al loro desco, nelle loro ville, sulle loro barche, a ravvivare le loro conversazioni. Tizi con la moglie in vacanza ai quali accompagnarti in città, perché pur di non diventare tua madre finivi per diventare l’amante di tuo padre. Tizi che si erano appena lasciati con la fidanzata, le cui gigantografie pubblicitarie certo avevi visto, ma il delirio d’onnipotenza era tale che ti sembrava il tuo stesso campionato e comunque siamo su una spiaggia a diecimila chilometri da casa, se mi trova troppo culona per sdraiarmi una seconda volta non lo saprà nessuno. Tizi ai quali ti vergognavi di dire che non ti piacevano i frutti di mare, per paura si capisse che eri poco ricca. E di ognuna di queste circostanze ricordo completini di Dolce e Gabbana con minigonne con le quali trent’anni dopo potrei farmi un polsino, e maglie di Romeo Gigli dalle quali le spalle sfuggivano con finta distrazione, e camicette scollate sulla schiena portate senza reggiseno perché la gravità ancora non mi era nemica; ma di nessuna di queste occasioni, serate, estati ricordo come diavolo facesse quella roba a essere pulita e stirata.

La prima vacanza in cui lavai magliette nei lavandini di stanze d’albergo brutte fu quella dopo la maturità. Prima d’allora non ero mai stata in posti da poveri che non fossero le spiagge sull’Adriatico con la borsa frigo dei parenti, o pensioni orrende in cui dormire due ore dopo essere andata con le amiche in discoteca in Romagna. Dopo la maturità andammo in Venezuela e poi in Giamaica, un gruppo di ragazze che non sapevano niente, figurarsi se sapevano viaggiare. Oggi qualche esperto su TikTok (o un genitore in videochiamata) ci direbbe che se ci cancellano il volo di ritorno abbiamo diritto a un rimborso, a un albergo, a un altro volo; noi invece dormimmo per terra davanti al check-in (avere diciott’anni quando i diciottenni non erano ossessionati dai loro diritti aveva degli svantaggi), e il giorno dopo ci lasciammo mettere su un aereo che però arrivava a Francoforte: tornare a Bologna erano poi fatti nostri. Ancora non so come ci arrivammo, come comprammo i biglietti di quel treno tedesco (e il pollo fritto del McDonald’s della stazione, per prendere il quale io rischiai di restare in Germania mentre le altre erano già sul treno), considerato che la vacanza era stata funestata da furti e smarrimenti: soldi, traveler’s cheque (dei pezzi di carta che si convertivano in denaro, prima che si diffondessero le carte di credito), persino mutande. Il penultimo giorno, la mia ex compagna di banco mi consegnò un paio di (mie) mutande e un (mio) traveler’s cheque: reperti trovati nella borsa di una di noi, evidentemente cleptomane. Mi vietò di fare una scenata, o di affogare la piccola ladra nel mar dei Caraibi. Trentun anni dopo, ce l’ho quasi più con lei che con la cleptomane: passi rubarmi i soldi, ma privarmi del mio diritto alla piazzata è inaccettabile.

La mia prima vacanza lunga senza familiari era cominciata malissimo: con tutti i dollari rubati in aeroporto. A Caracas nessuno faceva un plissé al racconto, anzi ci raccomandavano di accelerare al semaforo rosso: se rallentavi, ti puntavano una pistola e ti rubavano l’orologio. Per fortuna mi avevano bocciata alla patente. A Caracas pensavano che a derubarmi fosse stato qualche esponente del folklore locale, non potendo sospettare che una di noi fosse dotata di destrezza. All’ufficio dell’American Express di Caracas, dove mi mandò mia madre dopo una chiamata a carico del destinatario dal telefono a monete, mi chiesero se avessi una carta di credito. Certo che no, ma mia madre ce l’ha e mi ha detto che mi date i dollari. Se mi chiedessero una definizione di “gioventù”, direi: era quando ancora non sapevo dell’inesistente rapporto di mia madre col principio di realtà, e di come nella sua testa un “signora, la sua bambina non è titolare di carta, quindi l’assistenza ai titolari American Express nel mondo per lei non vale” si trasformasse agevolmente in “se la mando lì con un bagaglio di sicumera, quelli sicuramente s’impressionano e aprono la cassaforte”.

Chissà com’era ancora pulito e abbastanza stirato da essere mettibile il vestito che misi l’ultima sera a Negril. Era un vestito blu, di Katharine Hamnett. Una sottoveste di seta indossando la quale ero stata cacciata dagli orali di maturità di qualche compagna di classe: non riempivo la parte superiore, piatta com’ero, e il risultato era che la seta sballonzolava a fil di capezzolo. Due mesi, molti furti, e moltissimi platani fritti in chili di burro più tardi, lo indossai per la cena d’addio al mar dei Caraibi. Improvvisamente avevo abbastanza tette da riempirlo. La mia compagna di banco disse: mi sa che sei ingrassata. Ero partita con una seconda scarsa, tornavo con una quarta. Non erano spettacolari come le tette di mia madre a Cala di Volpe, ma erano tante.

Quarantott’ore dopo, eravamo a Bologna (via Francoforte). Erano state settimane talmente travagliate che mia madre mi venne a prendere in stazione (invece di dire, come suo solito: ti mando un autista, com’era convinta dovesse fare una vera signora). Andiamo da tuo padre che non ti vede da mesi. Arrivammo in clinica. Mio padre uscì dalla sala operatoria, mi guardò, si appoggiò a una barella in corridoio, guardò mia madre, e sospirò: oddio, è incinta. Non ricordo cosa indossassi, ma la stoffa tirava, sopra le tette della nuova me; le tette ripiene di banane fritte.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).