Cerca

L’esercito siamo noi e salviamo i vivi

La mattina del 7 ottobre, come ogni sabato, Jonathan stava organizzando la protesta contro il governo israeliano quando Hamas ha iniziato il massacro nel sud di Israele. Ora come tutti combatte per difendere il suo paese. Il cuore «strattonato e frullato» dell’unità esiste ancora: lo tiene insieme la determinazione assoluta a esistere

Jonathan sta preparando i banchetti, le bandiere bianche e blu, i volantini e i cartelli “Bibi go home” quando sente il trillo di una notifica sul suo telefono: i miliziani di Hamas hanno sfondato con i bulldozer la recinzione della Striscia di Gaza in otto punti e sono entrati in Israele. Non si sa ancora per fare cosa, ma è già abbastanza per capire che ci saranno morti da contare e da piangere, che le bandiere e i volantini vanno riposti subito dentro gli scatoloni. Per la prima volta in quarantuno settimane, sabato 7 ottobre non c’è un coro, un corteo o un comizio in tutto il paese. Jonathan è uno dei coordinatori di “Salvaguardare la nostra casa comune”, il gruppo che dà il tono e fa da ombrello agli altri movimenti della protesta cominciata a gennaio contro il governo più a destra della storia del paese e contro la sua riforma della Giustizia. «Funziona così: ogni sabato andiamo sotto la casa del presidente per dire che questo governo rompe l’unità israeliana e ci mette in pericolo. E ogni domenica mattina c’è qualcuno incazzato: ‘ È stato un sit in troppo religioso’, ‘troppo laico’, ‘troppo liberal’, ‘troppo di destra’, ‘con troppi pochi arabi’, ‘con più spazio alle minoranze che alla maggioranza’. Però sono incazzati a turno, e il sabato dopo ci sono di nuovo tutti». Sabato 7 ottobre, in poche ore, “Salvaguardare la nostra casa comune” converte le proprie forze, la propria rete di persone generose e disponibili, e crea una sala operativa a Gerusalemme.  È piena di studenti universitari e quando si riuniscono tutti assieme ancora non sanno neppure esattamente per fare cosa. Il silenzio di Israele è anche dentro questa stanza e, nelle ore del lutto in cui nessuno osa disturbare, se si sente la suoneria di uno smartphone è perché qualcuno deve ricevere una notizia tremenda. Di quale tipo si capisce guardando in faccia chi risponde. Chi piange ha appena saputo che c’è un proprio amico o un parente tra le vittime o tra gli ostaggi trascinati dentro Gaza da Hamas. Chi annuisce con lo sguardo serio è un riservista che riceve la telefonata da un numero fisso del centralino della Difesa: «Sei stato richiamato per servire il tuo paese». Capita a Tovah, che ha 23 anni e in un giorno è passata dalle aule della facoltà di Legge a fare la guardia in una base militare del sud. Il giorno della strage e quello dopo, trovare un volo dall’Europa o dagli Stati Uniti verso l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv era impossibile non soltanto per i razzi sparati da Hamas verso il centro di Israele, ma anche perché tutti i posti sull’aereo venivano occupati in fretta da ricercatori, filmmaker, commercianti, artisti, dipendenti della Silicon Valley, impiegati, modelle che tornavano in Israele per diventare soldati.

Questo contenuto è riservato agli abbonati

L'abbonamento a Review sarà attivato fra poco anche in formato digitale.
Compila questo modulo per ricevere comunicazione non appena l'abbonamento sarà disponibile.

* campi obbligatori
Sei già abbonato a Il Foglio Review?

Per favore, seleziona i campi sottostanti per ricevere le nostre comunicazioni.

Puoi annullare l'iscrizione in qualsiasi momento facendo clic sul collegamento nel piè di pagina delle nostre e-mail. Per informazioni sulle nostre pratiche sulla privacy, visita il nostro sito web.

Usiamo Mailchimp come piattaforma di marketing. Cliccando il tasto di iscrizione, accetti che i dati vengano trasferiti a Mailchimp per l'elaborazione. Leggi qui la privacy policy di Mailchimp.

Cecilia Sala (Roma, 1995), giornalista. Ha realizzato insieme a Chiara Lalli il podcast “Polvere” che è diventato un libro per Mondadori. È autrice e voce del podcast quotidiano “Stories” (Chora Media).