Cerca

L’ottava vita nel futuro della Georgia

La passeggiata per Tbilisi parte dagli orrori sovietici e finisce alla funicolare che rappresenta le ambizioni di chi guida questo paese tra Russia ed Europa. Il magnate che controlla tutto, le connessioni francesi che sfiorano il romanzo di Carrère. Nostalgia per Barbara D’Urso

Il ricco Museo della Georgia, sul lungo ed elegante viale Rustaveli che sbuca in piazza della Libertà, con al centro un’alta colonna dove un tempo troneggiava la statua di Lenin e ora brilla al sole un dorato San Giorgio che infilza il drago, presenta all’ultimo piano, come fosse la tragica tappa finale di un percorso storico millenario, l’esposizione degli “orrori dell’occupazione sovietica”: un vagone merci dove venivano ammassati gli oppositori, o presunti tali, e crivellati dall’esterno con una mitraglietta; le foto segnaletiche con gli occhi sgranati dalla paura; i rapporti dei cekisti stringati e definitivi; sbiadite immagini di montagne di teschi e cadaveri. Dopo la Prima guerra mondiale, la giovane Repubblica democratica di Georgia resistette soltanto fino al 1921, poi fu inglobata, con la violenza, nel grande stato sovietico. Lavrentij Pavlovic Berija (nato nel 1899 a Sukhumi, in Abkhazia, capo della polizia politica in Georgia ma anche, nel 1925, centrocampista della Dinamo Tbilisi) portò a termine gli ordini di Lenin e Stalin di “normalizzazione” violenta del paese caucasico: 80.000 ammazzati, 400.000 deportati (ai quali si aggiungono 400.000 mila uccisi durante la Seconda guerra mondiale), su una popolazione di nemmeno quattro milioni di abitanti (dei quali circa la metà abita oggi nella capitale). Al piano terra c’è l’inizio della Storia: appoggiati su supporti trasparenti, sono esposti una ventina di teschietti che risalgono a 1,75 milioni di anni fa. Sono i più antichi reperti umani scoperti fuori dall’Africa. Entrando nella sala, l’insieme di quelle calotte craniche sembrano una planimetria di Tbilisi, con i rilievi delle colline, le grotte, i burroni a precipizio e le precarie dentature delle vecchie case.

La natura collinare di Tbilisi, che la fa sembrare una specie di scodella incrinata al centro dall’infossato e tortuoso fiume Mtkvari (in russo, più semplicemente, Kura), fa sì che dalla parte pianeggiante caracollino verso l’alto oscillanti cabine delle funivie. Ce n’è una, modernissima e più alta delle altre, che non funziona ancora e che collegherà un enorme albergo di cristallo azzurrognolo con la cima della collina di Sololaki, dove svetta l’orrenda statua in alluminio della Madre della Georgia: un donnone con una coppa di vino in una mano e uno spadone nell’altra. I due simboli di un paese «che accoglie con calore gli ospiti e combatte spietatamente i nemici».

Poco più a destra, leggermente più sotto, c’è un’enorme costruzione orizzontale in vetro e cemento, simile a un base spaziale, che domina la città, anche metaforicamente. Progettata dall’architetto giapponese Shin Takamatsu, è la residenza del magnate Bidzina (Boris) Ivanishvili (1956), l’uomo più ricco della Georgia, e uno tra primi 600 al mondo: ha un patrimonio stimato di sei miliardi di dollari (il pil della Georgia è di 18 miliardi di dollari l’anno). Ingegnere ferroviario con studi a Mosca, là si è arricchito con la telefonia, i computer, l’industria farmaceutica, e operazioni finanziarie spericolate. Tornato in patria nel 2003 ha fondato il partito Sogno georgiano, che ha vinto le elezioni nel 2012 (per un anno Ivanishvili è stato primo ministro), e da allora governa il paese, seppur per interposte persone: dal 2021 il primo ministro è il suo fedelissimo Irakli Garibashvili e il segretario del partito è l’attuale sindaco di Tbilisi, l’uomo d’affari ed ex ministro dell’Energia e delle risorse naturali Kakha Kaladze (1978), noto in Italia per esser stato un valente terzino del Milan dal 2001 al 2010. Tornato in Georgia, nel 2012, dopo aver convissuto per anni con la tragedia del lungo rapimento in patria di suo fratello Levan (alla fine ammazzato perché non fu pagato l’esorbitante riscatto richiesto), Kaladze decise di entrare in politica: «Da noi prima non esisteva la democrazia, vigeva la dittatura. Ero preoccupato. Volevo aiutare il mio popolo che viveva in una situazione tesa e difficile. Da politico non devi perdere mai: le decisioni influiscono sulla gente. Nel calcio può capitare che la tua squadra perda o pareggi. Quello che sono oggi lo devo al vostro paese e al Milan. Quella mentalità vincente che avevamo da calciatori in rossonero voglio trasbordarla in politica».

Ivanishvili è un vorace imprenditore edile e collezionista d’arte. Molti moderni palazzoni che si stanno innalzando in città sono suoi, compreso l’albergo con tanto di funicolare privata per portare i turisti ad ammirare il panorama in collina. Il suo partito Sogno georgiano rappresenta gli interessi politici ed economici della Russia e lui è personalmente molto legato a Vladimir Putin, ma anche alla Francia: nel 2002 ha abitato a Parigi, è stato insignito della Legion d’onore e, per un anno, nel 2010, ha avuto anche la cittadinanza francese (alla quale ha dovuto rinunciare, oltre a quella russa, per poter avere quella georgiana). Uno dei suoi figli, Bera (1994), è un modello, cantante e rapper franco-georgiano di un certo successo: il suo aspetto insolito (è albino) e la ricchezza lo hanno reso famoso. Bera, come tutta la famiglia, è molto attento a esaltare le tradizioni e le credenze georgiane. Il suo matrimonio, nel 2018, con la bellissima designer, stilista e influencer Nanuka Gudavadze (il loro account su TikTok ha oltre 7 milioni di follower) è stato celebrato nel più importante centro spirituale del paese (dove, nel 337, il re Mirian adottò il cristianesimo come religione della Georgia): la cattedrale di Svetiskhoveli, nell’antica capitale Mtskheta, «là dove, rumoreggiando, si fondono in abbraccio fraterno le acque dell’Aragvi e del Kura» (Mikhail Lermontov). Alla presenza delle principali autorità e personalità del paese i due sposi hanno indossato abiti tradizionali georgiani, che per l’uomo significa una lunga palandrana militaresca con due cartuccere parallele sul petto. In questo miscuglio di tradizione nazionale, profonda fede religiosa, discreta e interessata amicizia con la Russia e modernità pop, diversi georgiani intravedono la possibilità che Bera possa presto affiancare in politica il partito di suo padre e del suo segretario ex calciatore.

Il vecchio centro di Tbilisi è pieno di simpatici cani randagi, marchiati con una placchetta gialla all’orecchio destro che significa che sono sterilizzati, controllati e in buona salute. Sono ben tenuti e nutriti dalla gente. Dormicchiano nei giardini o sui marciapiedi all’angolo delle strade. Un bastardone nero, con qualche traccia del cane lupo, decide di affiancarmi e, al prezzo di qualche carezza sul capo e due biscotti al cioccolato, mi accompagna su per la vecchia via Kotetishvili, costeggiata da vecchie case con i caratteristici balconi-verande con le decorazioni di legno come merletti. Cascano quasi tutte a pezzi. Le poche che hanno restaurato, giù da basso, hanno subìto una metamorfosi che le fa sembrare torte con troppo sciroppo colorato. In generale vengono o abbandonate al loro degrado, per mancanza di soldi, con le facciate, gli infissi e le scale condominiali che sembrano la deformazione di una scenografia da luna park; oppure vengono impietosamente abbattute e sostituite da improbabili e più lucrosi edifici moderni a più piani.

Anche la casa natale del grande regista Sergej Paradžanov (1924-1990), che sta sulla sommità della collina, tanto che sembra quasi di trovarsi in un borgo di campagna quando si voltano le spalle alla città là sotto, è stata restaurata alla bell’e meglio e ora, oltre che un piccolo museo (con qualche foto sbiadita, un pianoforte e dei ricordini di viaggio), è diventata una specie di alberghetto con qualche camera e una rivendita di vino artigianale. Paradžanov era figlio di antiquari appartenenti alla grande comunità armena, che ancora oggi costituisce una porzione significativa della popolazione di Tbilisi. Un museo a lui dedicato, più ricco e strutturato, si trova a Erevan, dove è sepolto. Studiò all’Università statale pan-russa di cinematografia di Mosca e lavorò a lungo in Ucraina (Rapsodia ucraina, 1961). Il film che lo fece conoscere è Ombre degli avi dimenticati (1965), seguito da Il colore del melograno (1969) e dal capolavoro La leggenda della fortezza di Suram (1985). Pochi come lui hanno saputo restituire l’affascinante e poetico mondo perduto caucasico. Spesso attaccato dalla censura, fu arrestato nel 1973 per omosessualità e propaganda antisovietica (per aver difeso alcuni intellettuali ucraini) e rinchiuso in un campo di lavoro in Ucraina fino al 1977.

Paradžanov fu pure accusato, per i suoi film, di essere profondamente religioso. Ma poteva essere diversamente per un uomo sensibile nato e cresciuto in una città piena di luoghi di culto che trasudano di antica, tenace e autentica mistica? Il panorama di Tbilisi è tutto un fiorire di guglie di chiese. In centro, nel raggio di un paio di chilometri, si trovano una vicina all’altra: la Chiesa armena di San Giorgio; la Cattedrale cattolica dell’Assunzione (durante l’epoca sovietica trasformata in un magazzino); la Grande Sinagoga in mattoni rossi; il Museo della storia ebraica (fondato nel 1914, chiuso dai sovietici nel 1952 e riaperto nel 1992); la moschea (dove pregano assieme sunniti e sciiti) e i resti dell’Ateshgah (in persiano: “tempio del fuoco”), antico luogo di culto zoroastriano. Tra le molte chiese georgiane ortodosse, come le antichissime Chiesa di Sioni e la Basilica di Anchiskanati, ce ne sono due dedicate entrambe alla Santa Trinità, alle opposte rive del fiume, che sembrano stare unite da un’immaginaria teleferica celeste: l’imponente Cattedrale di Tsminda Sameda (Santa Trinità), moderno simbolo, in stile tradizionale della rinascita religiosa postsovietica della Georgia, edificato tra le polemiche sul terreno di un antico cimitero armeno, e la più piccola e vecchia (detta Patara Sameda), affrescata dal pittore italiano Ludwig Longo (1831-1914).

Su una panchina, di fronte alla piccola Sameda, sta seduta una vecchina che spiluzzica del pane nascosto in una brillante borsa di tela blu. Quando mi sente parlare con un amico in italiano, sorride e ci dice di chiamarsi Tamar e di aver abitato dal 1991 al 2001 a Polignano a Mare, dove lavorava come badante. E’ poi dovuta tornare in patria «perché mio figlio abita da solo e non sa farsi da mangiare». Ha una grande nostalgia dell’Italia. Si è portata dietro delle cassette con le canzoni di Celentano e Al Bano: «La sera mi metto in poltrona, ascolto Azzurro e mi metto a piangere». Non ha la televisione («non mi interessa la politica») ma in Puglia la guardava spesso nella casa dove abitava. Ci chiede con aria sognante:

«C’è ancora Barbara D’Urso? Era così bella! La ricordo sempre». Si commuove, abbozza un malinconico sorrisetto e inghiotte un altro pezzo di pane.

Di fronte al Museo della Georgia c’è l’imponente palazzo del Parlamento (costruito sulle rovine della cattedrale militare di Aleksandr Nevskij demolita negli anni Trenta del secolo scorso), teatro delle manifestazioni, anche sanguinose, degli ultimi trent’anni. Le più recenti sono state contro la legge che limiterebbe le imprese straniere e le fondazioni e per la liberazione di Mikheil Saak’asvili (1967), riformatore filo occidentale e protagonista della Rivoluzione delle rose (2003) ed ex presidente della Georgia dal 2004 al 2013. Con un’opposizione divisa, e metà della popolazione spaventata da un possibile nuovo intervento militare russo (che già si è annesso il 20 per cento del territorio georgiano), l’unica che resiste alle tentazioni autoritarie del Sogno georgiano è la presidentessa della Georgia, la scrittrice e diplomatica francese naturalizzata georgiana Salomé Nino Zourabichvili (1952), cugina della storica e accademica di Francia Hélène Carrère d’Encausse (1929), autrice del profetico Esplosione di un impero? (1978; trad. it. e/o 1979), nonché madre piuttosto arrabbiata dello scrittore Emmanuel Carrère che, nel libro Un romanzo russo (2007; trad. it. Adelphi 2018), ha raccontato la «storia segreta» del nonno georgiano, Georges Zourabichvili, profugo a Parigi, ammiratore di Hitler e Mussolini.

Davanti al Parlamento sta una giovane donna, tutta imbacuccata di nero, che vende bandiere georgiane, dell’Unione europea, girasoli, dolci e popcorn. Lì vicino ci sono decine di venditori di vecchi libri russi (una parte appartenuti alle migliaia di profughi dell’ultimo anno). Il malinconico e indaffarato georgiano Ivan, che ha i volumi più interessanti, sa molte lingue e faceva l’insegnante. La sua pensione non gli permette di sopravvivere. È stato lui a consigliarmi il più importante romanzone georgiano degli ultimi anni: la saga di una famiglia di fabbricanti di cioccolato, scritto in tedesco e pubblicato nel 2014 (edito da Marsilio nel 2020): L’ottava vita (per Brilka), della scrittrice Nino Haratischwili, nata a Tbilisi nel 1983. L’ultimo capitolo (da pagina 1.131 in avanti) promette di parlare del futuro, ma è composto solo da pagine bianche, ancora da scrivere.

Francesco Cataluccio (Firenze, 1955), scrittore e saggista. Ha vagabondato a lungo in Polonia e nel Centro Europa. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Tra i suoi libri: “Immaturità. La malattia del nostro tempo” (Einaudi, 2004), “Vado a vedere se di là è meglio” (Sellerio, 2010), “Chernobyl” (Sellerio, 2011), “La memoria degli Uffizi” (Sellerio, 2013), “In occasione dell’epidemia” (Casagrande, 2020).