Cerca

L’ultima volta che hai visto un film al cinema

Tutti elogiano la magia della sala buia, ma nessuno ci va davvero. Lettere senza struggimento, ma con speranza, tra Mariarosa Mancuso e Andrea Minuz: storia e stato del grande schermo nell’epoca delle piattaforme. Ci salveranno la commozione e le risate

Caro Andrea,
ma tu conosci ancora gente che va al cinema? Io da anni sento fare l’elogio delle sale buie (vuoi mettere con i film visti in tv?) e prima ancora l’elogio dei cinema sotto casa (vuoi mettere quei brutti multiplex di periferia?). Però alla domanda “quand’è l’ultima volta che hai visto un film al cinema?”, le risposte sono vaghe. E’ un periodo faticoso, ho poco tempo, il gatto diventa nervoso se lo lascio a casa da solo, e perché non fanno più i bei film di una volta? Per carità, mica è un obbligo, al cinema si va per divertimento. Ma le sale si riempiono se la gente esce di casa, parcheggia, compra il biglietto. Non possono restare aperte per beneficenza, in attesa del pubblico vero – in questi anni attirato quasi soltanto dai supereroi che a me provocano sbadigli da slogare la mascella, ma sono gli unici titoli che ancora fanno girare la macchina industriale. Gli spettatori italiani con la pandemia hanno proprio perso l’abitudine. Mentre il resto d’Europa sta recuperando bene.

Cara Mariarosa,
peggio dei discorsi sulla “crisi della sinistra” da noi ci sono solo i discorsi sulla crisi della sala. Tutto un birignao di languori, struggimenti, indici ammonitori puntati contro il nemico: colpa delle televisioni commerciali, delle perfide videocassette, della pirateria, della distribuzione, del cinema americano, delle serie tv, delle piattaforme e, infine, della pandemia. Non è mai, dico mai, colpa dei film. Non viene mai il sospetto che le nostre sale, in tutti questi anni, abbiano fatto pochino per trascinarci fuori da casa. Per esempio, farsi un giro su Tripadvisor leggendo le recensioni dei cinema scritte prima della pandemia può essere molto istruttivo (“spifferi dalle porte laterali”, “diffusa puzza di morte”, “un televisore di 42 pollici mi avrebbe dato sensazioni più forti” e così via). Pesco anche io tra i ricordi un po’ di film a caso visti in sala prima del lockdown. Ricordo un Revenant in esclusivo cinemino arthouse di Roma, risolutamente minoritario e off-off, dunque senza bar e popcorn: fine dicembre, freddo, riscaldamento rotto, personale antipatico (come sempre negli arthouse cinema) e persino scocciato delle timide proteste degli spettatori. Sullo schermo Di Caprio s’infila nella carcassa di un cavallo per non congelare, noi sprofondiamo dentro i piumini, battendo i denti, accovacciati nelle poltrone (scomodissime). A suo modo una proiezione “immersiva”, da realtà virtuale. Mi viene in mente un Dunkirk, lanciato come “grande esperienza audiovisiva”, visto al cinema per far contento Nolan, ma davanti a uno schermo grande come le smart-tv negli alberghi, audio catastrofico, in stereo, tipo anni Settanta. Oppure un Suburra, visto in gigantesco multiplex di Ostia, dunque in lingua originale. Sicuramente meglio con la proiezione e i servizi e il tex-mex a portata di mano. Ma in una wasteland raggiungibile solo con macchina e navigatore. Con gli spettatori che facevano il tifo come al derby: commenti, urla, invettive, scalciando anche come cavalli imbizzarriti contro la poltrona dove sedevo. Sicuramente più divertente dei Dardenne visti in un monosala della Ztl, ma comunque faticoso. Ecco, diciamo che da noi, non era così difficile perdere l’abitudine.

Caro Andrea,
un critico spiritoso – uno di quelli che cominciano le recensioni dicendo “Not boring, buy tedious” – ha inventato un nuovo metro di misura per giudicare il film. “Quanto tempo passa, prima che tiriamo fuori il secondo schermo, e cominciamo a smanettare sullo smartphone? (Va detto che era peggio, molto peggio, quando potevamo solo guardare l’orologio, e i minuti passavano lentissimi, davamo colpettini al vetro, mica si sarà fermato?). Al cinema in sala si va solo se c’è un valore aggiunto, penso per esempio ai film comici: ogni risata rumorosa moltiplica le altre. Ricordo la proiezione a Cannes di Up, eravamo tutti con gli occhialini del 3D, migliaia di persone in sala. Nei cinque minuti che rievocano la vita di Ellie e Carl – il bambino perduto, la montagnetta del picnic sempre più faticosa da raggiungere, la malattia, il letto d’ospedale – la commozione era palpabile. E si sa che i critici sono gente cinica.

Cara Mariarosa,
questa cosa dei film comici con la risata che si moltiplica, riverbera nella sala e ti fa sentire parte di una risata gigantesca mi fa venire in mente Billy Wilder. Diceva che è più complicato fare una commedia che un film drammatico perché col film serio-drammatico-artistico il pubblico può anche pensare ai fatti suoi, sonnecchiare, insomma restare in silenzio, e tu, regista, critico, puoi sempre credere che il film li abbia travolti e incatenati alla poltrona. Ma se in una commedia non si ride, e non si ride tutti insieme nel punto esatto in cui bisogna ridere, hai la prova inconfutabile che non funziona. Qualche anno fa tornò al cinema To be or not to be di Lubitsch. Finì incredibilmente terzo o secondo al box-office di quella settimana, vicino a grandi blockbuster. Andai a vederlo in una sala strapiena. Risate a scena aperta. Applausi. Anche lì, come dici tu, la commozione era palpabile. E’ bello ridere tutti insieme con Lubitsch (ma sarebbe già qualcosa trovarlo nelle piattaforme). Sarà banale ma insomma ci vogliono prima di tutto i film. Perché come diceva un signore che ha inventato la Paramount, “il pubblico non ha mai torto”.

Caro Andrea,
siamo arrivati al punto: ci vorrebbe un film come Up, ed è difficile ora che la Pixar non è più la Pixar. Non è nostalgia, parlano i fatti. Hanno cacciato John Lasseter, la Disney che era conservatrice è diventata woke, perdendo perfino i benefici fiscali che aveva con la Florida. Non è la prima crisi, da un momento di stanca uscirono gli Easy Rider, Raging Bulls: la generazione sesso-drogarock& roll che salvò Hollywood. Abbiamo l’iPhone in tasca e le piattaforme, e gli schermi giganti in casa. Non possiamo atteggiarci a Calvino, quando diceva “ci sono stati anni in cui il cinema è stato per me il mondo”. Nei cinema si fumava, si entrava a film iniziato, si passava mezz’ora e poi basta, quando si era in anticipo per un appuntamento. Un pomeriggio di prima della pandemia – ormai tempo remoto, ingigantito e ingentilito dal ricordo – non mi hanno fatto entrare perché il film era cominciato (commedia italiana di quelle che si recitano a memoria senza vederla, ma bisogna vederla per ripararsi dalla permalosità del regista italiano). Abbiamo patteggiato, sono entrata con un biglietto per la proiezione precedente, e pure il posto assegnato. In sala c’erano quattro persone.

Cara Mariarosa,
hai ragione. Non solo quei film, ma quel “moviegoing”, come dicono gli americani, è irripetibile e non possiamo farci niente. Sarebbe come ripristinare il caffè letterario, ma con scrittori e filosofi che prendono il “frappuccino” da Starbucks. Il fatto è che prima si andava al cinema, non a “vedere un film”. Ricordo di aver visto Star Wars partendo dalla fine, aspettando che si liberasse un posto per la proiezione successiva. Quando lo racconto ai miei studenti restano esterrefatti. Però poi mi dicono: “Beh è come vederlo a pezzi su YouTube”. Li mando ogni tanto a intervistare anziani per ricostruire una storia orale dei cinema romani del dopoguerra. Quelli raccontano le loro peripezie nelle sale di seconda o terza visione e esce fuori di tutto. Col favore delle tenebre, come direbbe Batman, succedeva qualsiasi cosa. Il film era un’appendice, una coreografia sullo sfondo, meritava la stessa attenzione dello scrolling su Instagram. Nel frattempo, sesso nelle ultime file, contrabbando, smercio di refurtiva, adescamento di minori. Si mangiava, si fumava, si stava lì, si passava il tempo. “Sembrano i nostri pomeriggi, il sabato, al centro commerciale”, dicono i miei studenti quando sentono questi racconti, “noi andiamo lì per passare il tempo, incontrare gli altri, poi magari guardiamo anche le vetrine dei negozi, ma non è per quello che c’andiamo”. Forse il cinema di oggi è il centro commer- ciale, mentre i film si vedono a casa. Peraltro, sono posizionati sicuramente meglio delle sale e hanno il parcheggio.

Caro Andrea,
il cinema funzionava come i libri, per chi non è cresciuto con lo smartphone in mano e internet che ti porta tutto in casa (però, che invidia! Invidia sconfinata, non sanno la noia che abbiamo patito). Leggere e andare al cinema era la cosa più divertente da fare. Più divertente delle interminabili chiacchierate tra ragazze “e poi io gli ho detto…”, “e poi lui mi ha risposto…”, decifrate e chiosate fino all’ultimo palpito e bacetto. Il guaio è cominciato quando il cinema si è fatto Arte, da spettacolo da baraccone che era (avete presente La fiera delle illusioni di Guillermo del Toro? A poca distanza dal mago che leggeva il pensiero poteva stare un proiettore con un telone bianco, non fosse che in quegli anni il cinema era già diventato grande e aveva le sue lussuose sale in stile cinese o Déco). Arte, quindi va ammazzato di analisi e interpretazioni. Dicevi che la risata è segno sicuro che il film comico funzioni – Alfred Hitchcock pensava che con i progressi della tecnica un paio di elettrodi sarebbero stati sufficienti per la Paura. Non aveva considerato il film “artistico”, con attrici e attori che per farsi dire “intensi” non muovono neanche un sopracciglio – se lo facessero, si capirebbe che non sanno recitare. Provassero invece a rifare la scena acrobatica di Tim Robbins in Short Cuts: tutta una chiacchierata con uno stuzzicadenti rigirato in bocca.

Cara Mariarosa,
proprio Hitchcock, infatti, quando esigeva che gli spettatori di Psycho non entrassero a film iniziato (cosa all’epoca impensabile), non lo faceva per trasformare la sala in un museo, con file ordinate di gente che s’avvia a contemplare opere d’arte, ma per far funzionare meglio la trappola di suspense che gli aveva preparato. Dopo “l’Arte”, in un’escalation implacabile, c’è stata la trasformazione del cinema in “cultura” e del film in “bene culturale” (da proteggere, sovvenzionare, tenere al riparo dalle smanie degli spettatori). Così qui oggi ci si infiamma se nel testo della “Legge cinema” si scrive “prodotto audiovisivo” anziché “opera”, per dire “film”. Quindi, via con “opera prima”, “opera seconda”, “giovani autori”, eccetera. Con l’idea che fare il regista non è mai un mestiere ma una vocazione, come il sacerdozio. Mamma, papà, sento la chiamata, divento “autore”! “L’arte” e la “cultura” applicate a una cosa popolare come il cinema non sarebbero un problema se sai venderle bene. Prima, quando c’era un’industria, sapevamo farlo. L’anno scorso a Marienbad di Resnais da noi fu lanciato con annesso gioco da tavolo e quiz a premi sui giornali (“Marienbad”!). Antonioni scriveva a Rizzoli, “caro Angelo, ti prego di darmi una mano coi tuoi giornali: tutti i film hanno bisogno di pubblicità, ma i miei in modo particolare”. Per promuovere Deserto rosso a Milano, tra una proiezione e l’altra, c’erano sfilate di alta moda con omaggi floreali alle signore e Monica Vitti testimonial Givenchy. Si diffondevano nelle riviste i “consigli agli esercenti”, prendendo a modello le sale americane (da una rubrica del 1953: “distribuzione gratuita di caffè ai clienti che aspettano nel foyer”, “programmi musicali o televisivi nelle sale d’aspetto”, “sorridere ai clienti”). Insomma, ci si impegnava. Poi è passata l’idea che, invece, a impegnarsi dovesse essere lo spettatore.

Caro Andrea,
i consigli agli esercenti italiani del 1953 sono uno spasso. Anche se un po’ stringe il cuore. In un mondo non globalizzato prendevano a esempio il Chicago Theatre e il Roxy di New York. Un capolavoro di “servizio al cliente”, per fare la differenza tra un cinema e un altro. Oggi si chiamano “esperienze”. Diverse dai film con l’intervallo che li spezza brutalmente, per vendere bibite e popcorn: fonte di reddito accessoria e non trascurabile quando le sale sono piene. Brutalmente vuol dire che il cartello dell’intervallo deve averlo messo l’algoritmo, calcolata la metà esatta del minutaggio. Altro che “la sala paese delle meraviglie”. Perfettamente condizionata estate e inverno? (oggi si gela, riscaldamento e aria condizionata sono tarati sulla sala piena, e lo spettatore solitario pensa “la prossima volta sto a casa”.

Cara Mariarosa,
evochi un’altra parola-chiave: “esperienze”. Si prova a contrastare la crisi della sala ispirandosi ai percorsi termali e ai centri-massaggi: i cinema coi lettoni al posto delle poltrone, i movie-restaurant, gli hotel di lusso con la stanza-cinema per vedere film a mollo nella jacuzzi (ce n’è uno a Parigi, “un format che mette insieme cinema, gaming, feste, per vivere in maniera diversa la settima arte”. Mah). Si arriva al paradosso: le sale cinematografiche che inseguono la comodità e l’intimità del salotto di casa. Una battaglia persa in partenza. Resta poi quel solito dettaglio del film. E torniamo alle sale vuote (non è che un brutto film italiano visto a letto o nella jacuzzi diventi elettrizzante, però certo si riposa meglio).

Caro Andrea,
le sale sono vuote anche perché il tipo di pubblico che dovrebbe riempirle (tra un blockbuster e l’altro) non trova film adatti. Storie per spettatori adulti – formula meravigliosa, nata per indicare i film scollacciati – fatte per allietare il pubblico, non per punirlo (“allietare” vale anche per film che finiscono male come il Titanic). Sono sempre meno, parlando di cinema internazionale. Parlando di cinema italiano, la situazione è più grave. Per anni ha sfornato commedie su commedie, che non facevano ridere, fino a inventare la “commedia garbata” (Flaiano commenterebbe: “un sano erotismo è come dire una bella dentiera”, e la commedia garbata sta da quelle parti). Quante attrici del cinema americano sono passate alla regia, negli ultimi anni? Da noi sono di più, solo negli ultimi mesi. Siamo arrivati al paradosso. I titoli da grande pubblico dovrebbero incassare e finanziare i film con un pubblico più ristretto. Netflix non fornisce i dati, e ha standard di visione ridicoli (pochi minuti e il film risulta “visto”). Ma La mano di Dio di Paolo Sorrentino, calcolando a occhio, ha avuto più spettatori dell’ultimo film di Lillo e Greg. Il contrario di quel che dovrebbe succedere, e di fatto succedeva, quando le sale erano piene. Ma indietro non si torna, chi ha voglia di buttare via lo smartphone, le piattaforme, una meraviglia assoluta come I Soprano?

Cara Mariarosa,
casomai, come dicevi prima, possiamo solo invidiare chi è cresciuto con smartphone e piattaforme. Avessimo avuto i Soprano all’epoca di Dallas, l’avremmo visto doppiato in italiano e con la pubblicità (mi piace pensare che dai e dai le piattaforme alzeranno l’asticella dell’inglese anche qui, nonostante una resistenza tenace, eroica, pronta a tutto pur di restare “fluent” solo sul curriculum). Dicono che Netflix “uccide il cinema”. Ma in quanti avrebbero visto Sanpa e Don’t Look Up in sala? Le polemiche, la mole di editoriali, dibattiti, letture, l’“effetto-comunità” che hanno generato sarebbero stati impensabili se fossero andati uno a Venezia e l’altro solo al cinema, lanciato male e distribuito fuori-stagione. Se c’è una cosa che non perdoniamo a Netflix, casomai, è l’avere generato un’ennesima figura mitologica del cinema italiano: il regista sconosciuto, con un film e mezzo di nicchia alle spalle, che ora ti dice, “il mio film è stato visto in oltre centonovanta paesi”.

Caro Andrea,
scrivo una parola proibita, “talento” (già in Italia il merito è visto con sospetto, quindi figuriamoci…). Ho anche notato una cosa: quel che davvero non viene perdonato è il successo che deriva dalla bravura – l’altro fa pensare: ci potevo arrivare anch’io. Comunque: le serie erano strepitose quando i talenti rimasti fuori dall’industria cinematografica – le barriere d’ingresso sono piuttosto alte – lavoravano per la televisione. Sono passati vent’anni, tutti i bravi scrittori di allora hanno trovato lavoro – le piattaforme sono affamate di contenuti – e siamo di nuovo da capo. Servono talenti e idee nuove, non la ripetizione dell’identico. Per questo il cinema soffre: circolano più soldi che idee, e le piattaforme finora (non sempre, ma spesso) sono state molto generose. E molto poco consapevoli del fatto che i produttori migliorano i film, non sono tremendi cerberi che vogliono sbarrare la strada ai giovani artisti (“Non bisogna aiutare i giovani artisti” diceva Thomas Bernhard). E poi, basta con il “contenuto”: pare qualcosa da tagliare a metri, una pezza di stoffa.

Cara Mariarosa,
da noi il produttore non c’è quasi mai, perché si fa tutto in automatico tra Rai e Medusa. Oppure è ancora visto come dici te: un businessman, col sigaro in bocca, seduto dietro un’elegante scrivania (magari!). Uno che non capisce nulla di arte, ma pensa solo agli affari (ma quali?). La verità è che a domanda “cosa fa il produttore?” in pochi qui saprebbero rispondere. Servono talenti e, hai ragione, i soldi semmai sono anche troppi. Non è elegante riportare qui le cifre di soldi pubblici che ogni anno spendiamo per cortometraggi, documentari, web-serie e ora anche gaming (sì, c’è la playstation di Stato). E quando sento “più investimenti alla cultura!” viene quella solita voglia di rivoltella. La verità è che da noi il cinema è un gioco a somma zero: nessuno ci guadagna molto, nessuno ci perde nulla. I film si fanno perché si devono fare. Sembra la prosecuzione di Alitalia con altri mezzi. A volte sembra proprio non ci sia la minima idea del tipo di spettatore cui dovrebbero rivolgersi. Non si può pretendere che esca di casa, vada in una sala, magari lontanissima, non per divertirsi ma per “sostenere il cinema italiano”.

Caro Andrea,
ci sarebbe anche la questione woke. Una volta c’erano le co-produzioni europee, un attore italiano e un’attrice francese, detti europudding quando l’Europa non era tanto cool. Ora si riconoscono subito i film che vogliono evitare mugugni e censure. Biancaneve non si può più fare – non che sentissimo il bisogno di un altro live action della Disney – perché Peter Dinklage ha detto no ai nani minatori. Il film su Barbie è stato preventivamente massacrato. Chissà cosa succederà agli Oompa Loompa in La fabbrica di cioccolato con Timothée Chalamet. Ogni volta che leggo queste storie mi vengono in mente i mastichini del Mago di Oz e le loro feste sesso droga e rock roll. Potrebbe essere una leggenda, ma la racconta anche Salman Rushdie nel suo bellissimo libretto su Dorothy e le scarpette rosse (da bambino a Bombay aveva la cameretta con i personaggi della Disney dipinti sui muri: il fondamentalismo e la rivendicazione identitaria sono venuti dopo). I “mastichini” erano di bassa statura, sudditi della Strega Cattiva dell’Ovest. Finite le riprese, gli attori davano fondo alle paghe organizzando festini.

Cara Mariarosa,
questo sì che sarebbe un gran film: Boogie nights coi “mastichini” e magari Kenneth Anger consulente alla sceneggiatura. Caro Andrea, di questi tempi la parola magica è “finestre”. Finestre di sfruttamento esclusivo. Ovvero: “se vuoi quel certo film lo devi vedere al cinema adesso, oppure aspettare tanti mesi per vederlo a casa”. Eccellente tecnica di marketing, se i film fossero merce rara e non qualcosa che possiamo avere in abbondanza, con un abbonamento mensile meno costoso di un biglietto. O se fossero gli anni in cui negli Usa avevano già sparato a J.R. (la serie Dallas, vi ricorda qualcosa?) e in Italia si guardavano le puntate dell’anno prima, il colpo di scena poteva attendere. Quanti sono in un anno i film di cui lo spettatore dice “questo proprio me lo segno”, e lo andrebbe a vedere anche se il cinema più vicino fosse a un’ora di macchina? Pochissimi: gli altri fanno come quando in pasticceria son finiti i cannoli, comprano altri dolci e sono felici così, non hanno l’impressione di essersi persi qualcosa.

Cara Mariarosa,
è l’“All you can eat” applicato ai film. Un’abbuffata che in effetti viene meglio a casa, come col delivery. Ma per tornare alla tua prima domanda (conosci ancora gente che va al cinema?): ecco, conosco molti adulti che si struggono per la magia della sala, ma pochissimi che ci vanno. Poi ci sono i miei studenti che dicono: “Professo’ c’andrei anche al cinema, però poi mi isolo, non trovo mai nessuno che m’accompagna”. Restano i supereroi, da vedere in sala una o due volte l’anno. Come il circo quando eravamo piccoli (in genere si andava sotto Natale, che supplizio).

Mariarosa Mancuso legge libri. Vede film e serie, da quando la televisione racconta le storie meglio dei registi e dei romanzieri. Scrive sul Foglio dal primo numero (o forse era lo zero). Ha fatto radio e televisione. Ha tradotto Edgar Allan Poe e pubblicato con Rizzoli “Nuovo Cinema Mancuso” (2010). Non ha un romanzo nel cassetto.

Andrea Minuz (Roma, 1973), giornalista e professore di Storia del Cinema all’Università la Sapienza di Roma. Tra i suoi libri: “La Shoah e la cultura visuale” (Bulzoni, 2010), “Quando c’eravamo noi” (Rubbettino, 2014), “L’attore nel cinema italiano contemporaneo” (Marsilio, 2017, con Pedro Armocida) e “Fellini, Roma” (Rubbettino, 2020).