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L’unica cosa che si può fare con la vita è ingannarla

La vicinanza con il tragico ha protetto Teresa Cremisi dalla nostalgia e le ha dato una favolosa ilarità. Conversazione a tappe con la principessa dell’editoria europea, tra Garzanti, Gallimard, Adelphi. I sodalizi con Cioran, Kundera, Yasmina Reza, Houellebecq e il profumo di Arbasino. La saggezza di sporgersi dal ciglio del burrone, con un sorriso e un caffè

Quando era poco più che bambina, Teresa Cremisi ha visto crollare una civiltà durata secoli: «Sono nata e cresciuta ad Alessandria d’Egitto, nel medio oriente ancora cosmopolita. Ci si immagina che un mondo non possa sbriciolarsi in breve tempo. Invece, tutto nella vita può precipitare di colpo, senza allarmi inequivocabili. Quella era una civiltà moribonda, ma ancora elegante. Fatiscente, eppure ricca di fascino. Era un mondo pieno di mescolanze, in cui si parlavano diverse lingue, dove le persone avevano in tasca più passaporti, e non sentivano alcuna appartenenza esclusiva. Quasi di colpo, con la crisi di Suez del 1956, franò. E non ne rimase più nulla. Quelli che appartenevano a quel mondo se ne andarono. Chi in Australia, chi in Canada e negli Stati Uniti, molti altri in Europa. I miei genitori ripararono in Italia. Ma mentre io, che ero giovane, ho avuto dalla vita un secondo tempo, per mia madre e mio padre è stato diverso: la loro vita si fermò lì».

Principessa dell’editoria italiana ed europea, Cremisi è una donna a cui il tu per tu con il tragico ha dato protezione dalla nostalgia e una favolosa ilarità. «Ma perché le dovrei raccontare i fatti miei?». Inizia così, con una risata avvolgente, questa intervista che si rivelerà un percorso a tappe. Al primo appuntamento, un’inutile attesa nella hall di un hotel di Torino: «Le devo delle scuse. Mi sono completamente dimenticata del nostro incontro». Al secondo tentativo, un altro malinteso interrompe la discussione: «Sto facendo aspettare una mia amica lì a quel tavolo, e non mi sembra molto carino farla attendere ancora. Del resto, lei si è presentato mezz’ora in ritardo, cosa vuole?». Il terzo appuntamento è una lunga conversazione all’aperto, che si interrompe tuttavia sul più bello. «Non se la prenda, ma ora devo andare a prepararmi per la cena». L’ultima tappa è una telefonata, quando ormai entrambi abbiamo cominciato a giocare al gioco del persecutore e della perseguitata. «Ma cosa vuole ancora da me?».

Il fatto è che Teresa Cremisi, che presiede la casa editrice Adelphi dal settembre 2021, dopo la morte del leggendario Roberto Calasso, è una donna che si lascia avvicinare, ma non prendere. Venticinque anni da Garzanti, in tutti i ruoli che si possono ricoprire in una casa editrice. Sedici anni direttrice editoriale di Gallimard, a Parigi, chiamata nel bel mezzo di una furiosa faida familiare. Poi undici anni a capo di Flammarion. Michel Houellebecq e Yasmina Reza sono autori che le devono molto. Ma anche Milan Kundera ed Emil Cioran hanno avuto le sue cure.

«L’editoria per me non è stata una vocazione chiara, l’ho scelta perché era quanto di più vicino ci fosse all’arte della parola scritta». Oltre che editrice, Cremisi è romanziera (La Triomphante), saggista (Cronache dal disordine) e una curiosa osservatrice della realtà (per cinque anni, una rubrica sul Journal du Dimanche). «Tutto quello che ho fatto nella vita, me lo hanno chiesto. Cambiare casa editrice. Lavorare a un romanzo. Scrivere sui giornali. Chissà, forse non ho abbastanza autostima per iniziare una cosa da sola».

Chi le ha chiesto di iniziare a fare editoria?

Quella l’ho scelta. Ma per approssimazione. Avevo all’incirca diciotto anni. Non ancora studentessa di lettere e letteratura straniera. Avevo bisogno di lavorare. I miei, di punto in bianco, si erano ritrovati senza un conto in banca, senza un’auto, senza una casa. Avevano perso tutti i punti di riferimento. Io non potevo permettermi di andare a zonzo. Pensavo di non essere un’artista, allora ho cercato un lavoro che mi facesse vivere il più vicino possibile agli artisti. In particolare, i più affini a me, cioè gli scrittori.

E cosa ha fatto?

Mi presentai a tre case editrici diverse: Rizzoli, Garzanti e Bompiani. Le prime due mi mandarono delle lettere di assunzione, dall’altra non ho mai ricevuto risposta.

Perché scelse Garzanti?

Per comodità. La sede era più vicina alla casa dove abitavo, mentre per raggiungere Rizzoli avrei dovuto fare un lungo percorso in tram. Ma le cose si complicarono subito. Dopo il colloquio, arrivò a casa una lettera che mi comunicava un ripensamento: «Signorina, lei è ancora troppo giovane». Non ebbi neanche il tempo di essere delusa che ricevetti a casa una telefonata: «Butti via quella lettera. Abbiamo bisogno di gente giovane come lei, venga, la aspettiamo». Avrei scoperto più tardi che gli sbalzi d’umore erano un fenomeno tipico dell’editore.

Cioè?

Livio Garzanti era un uomo intelligente e urticante. Amava la filosofia, Platone in particolare. Ma è stato un editore controvoglia. Incostante. Puntava tutto su un autore, poi si stufava e lo abbandonava per strada. Il segno più chiaro di un editore non affidabile. Era tormentato, e tormentava gli altri. Gianni Vattimo, Giovanni Raboni, Tullio De Mauro, Paolo De Benedetti: non facevano altro che lamentarsene. E li capivo, era tecnicamente insopportabile.

Esempio?

Una volta, mentre lavoravamo all’Enciclopedia Europea, un redattore riuscì a ottenere da Henry Kissinger – parlo dell’Henry Kissinger all’apice della carriera – la stesura della voce: “Politica”. Tutti eccitati dal colpo, attendevamo il testo. Ma quando arrivò, sentimmo Garzanti inveire dal suo ufficio. Era fuori di sé. «Sarà pure un gran politico, ma nella scrittura è un cane». Tentammo in ogni modo di fargli capire che non c’era casa editrice al mondo che avrebbe rifiutato un testo di Kissinger sulla materia di cui era uno dei maggiori esperti al mondo. Ma lui: «Basta. Non ne voglio più sentir parlare. Chiaro?». E calpestò lo scritto. Non metaforicamente.

Era così anche con lei?

Era capace di dire qualsiasi villania. Che non valevi niente, che eri negata. Ma allo stesso tempo mi diede la possibilità di imparare ogni aspetto di questo mestiere. Ho cominciato lavorando a un dizionario italiano francese. Poi ho fatto tutto quello che si può fare in una casa editrice, anche comprare la carta, migliorare i tempi tecnici e i rapporti con la tipografia, scrivere le quarte di copertina, selezionare i testi, dirigere il lavoro di produzione. Senza dimenticare i personaggi che ho potuto conoscere: Gadda, Pasolini, Arbasino.

Cosa ricorda di loro?

Dell’ingegner Gadda conservo ancora il libro che mi autografò. Di Pasolini non dimenticherò mai la volta che mi fece guidare la sua Ferrari bianca. Aveva un cambio molto duro. Facevo fatica a innestare le marce. Glielo dissi. E lui che s’incendiava anche per le auto, mi rispose: «Più è duro il cambio, più potente è il motore. Vai, spingi!».

E Arbasino?

Gli devo racconti indimenticabili delle sue avventure parigine, londinesi e americane. Da New York tornò un giorno con una boccetta di essenza di rosa molto particolare, si chiamava Tea Rose, disse che era il must del must. Quarant’anni dopo è sempre il mio profumo preferito.

Il Sessantotto come lo visse?

Ne fui vagamente contagiata. Partecipavo alle manifestazioni. Andavo alle assemblee. Nella mensa della casa editrice ricordo letture delle opere di Ho-Chi-Min. Assistevo, seppur con un po’ di distacco, alle dispute tra operaisti e no. Col senno di poi, devo ammettere che aveva ragione Garzanti. Ci osservava e diceva: «Siete una banda di scemi. Davvero credete che il mondo si possa fare daccapo?».

Lei ci credeva?

Io avevo una riserva rispetto ai miei coetanei: sapevo che il mondo poteva sbriciolarsi e trascinarti nella frana, mentre loro avevano l’ingenuità di credere di poterlo fare migliore.

Quelli erano anche gli anni del femminismo.

A quello ci ho veramente creduto. E oggi ne sento anche la mancanza. Parlo del femminismo che voleva emancipare le donne, dar loro accesso alla formazione e all’indipendenza reale, quello che lottava per il lavoro, un salario, un conto in banca, anziché il femminismo che pensa si possa cambiare la realtà modificando il genere dei sostantivi.

Ce l’ha con la schwa, con chi scrive “tuttә”?

Penso che il mondo sia diviso in due. Da una parte ci siamo noi occidentali che crediamo di includere ogni diversità declinando le parole al neutro, e dall’altra parte c’è il mondo in cui una donna può essere uccisa perché una ciocca di capelli esce fuori dal velo che le copre la testa. È destabilizzante pensare che qui ci si concentri con ossessione sui soprusi della lingua ma si rimane quasi indifferenti alla morte di una donna appartenente all’altra parte del mondo, quella che nega ogni libertà alle donne.

Ma non è inevitabile che il linguaggio cambi nel corso del tempo?

La lingua è un organismo vivente, è naturale che si modifichi e si adatti alle epoche. Il problema è quando un gruppo dominante decide di manometterla, di cambiare il senso delle parole, di deformarlo per farlo aderire alla propria ideologia. In fondo è l’ambizione di ogni tirannia. Ed è pericolosissimo.

Lei cosa cambiò quando andò a Gallimard?

Mi chiamò Antoine. Era il 1989. Il padre, Claude, aveva scelto lui come erede. Benché fosse il terzogenito. Ma i suoi fratelli gli scatenarono una guerra feroce. La cosa più difficile però non fu districarsi nel conflitto familiare, bensì farmi rispettare come editrice. Ero una donna, e in più venivo da un altro paese. Che c’entravo con loro? Questo era l’argomento di chi diffidava di me. E da un punto di vista logico, non potevo che capirlo.

Ma era più un problema l’essere donna o italiana?

Be’ io non so se mi definirei italiana.

Perché no?

Perché penso che la vera patria di una persona risieda nella lingua. E la mia prima lingua è il francese, poi viene l’italiano. Dunque, direi che il problema più grande era l’essere donna.

Però ce la fece.

Sì. Ma non fu semplice. I miei figli mi avevano seguita a Parigi. Temevo di fallire, di mandare tutto in fumo. E ricordo che in quei momenti Cioran diceva sorridendo: «Teresa, tranquilla, non c’è al mondo città migliore di Parigi dove rovinarsi la vita».

Incoraggiante.

Era un uomo speciale, Cioran. Vivevamo vicinissimi. Lui in rue de l’Odéon, io in rue Monsieur le Prince. Era sempre stato povero. Per anni rinnovò l’iscrizione all’Università per poter avere i pasti gratis alla mensa. Era innamoratissimo della moglie, Simone Boué, con cui viveva in simbiosi. Nella loro giovinezza, avevano percorso tutta la Francia in bicicletta, come Lawrence d’Arabia. I suoi libri non lasciano scampo, sono senza consolazione. Basta scorrere i titoli: Al culmine della disperazione. L’inconveniente di essere nati. La tentazione di esistere. Ma poi capitava di accompagnarlo a comprare i pomodori sotto casa, e notavo che li sceglieva a uno a uno per scartare quelli troppo maturi. Pensavo: «Non può essere davvero disperato un uomo che si preoccupa dei pomodori ammaccati».

E Houellebecq?

Quando lo conobbi si era andato a rintanare da solo con il suo cane in Irlanda, una casa a schiera vicino all’aeroporto di Shannon. Mi preparò una bistecca e iniziammo a parlare. Ho capito, conoscendolo, che bisogna imparare a rispettare i suoi lunghi silenzi. A volte, si stufa di tutti e precipita nel pozzo. Ma ogni volta che riemerge dà prova della sua acutezza visiva, la sua più grande dote. È capace di avvertire ogni mutamento e vigliaccheria che attraversa la società. E mostrare, attraverso la scrittura, dei fenomeni che già esistono in forma caotica o per noi ancora indecifrabile. Ha visto l’imam che prega nell’Università di Torino? BÈ, non le sembra una scena di Sottomissione?

Potrebbe.

Lui crede di assomigliare a Pasolini. Forse per il lirismo. Ma io penso sia un romanziere più notevole. In molti lo considerano nichilista. Invece negli ultimi anni ha centrato la sua vita sulla coppia, guidato da una visione idealizzata e totalmente romantica dell’amore, cosa che a me fa tanto ridere.

Perché lei non è romantica?

Per niente. Io nell’amore percepisco più la comicità che il trasporto. Ha presente Amori ridicoli di Milan Kundera? Ecco io di fronte all’assolutezza dei sentimenti amorosi provo una, forse inopportuna, ma incontenibile ilarità.

Anche Calasso la faceva ridere?

No. Lui mi dava grandi gioie intellettuali. Provava l’eccitazione, il piacere puro del sapere. Quando arrivava a Parigi, andavamo a visitare sempre il Museo Guimet. Ogni volta trovava qualcosa che lo esaltava. Una statua, un frammento. Per lui la conoscenza era qualcosa di dionisiaco. Una festa. Niente a che fare con la figura tradizionale dell’erudito.

E Milan Kundera?

Della sua vita personale da me non saprà nulla. Il suo segreto è stato la reinvenzione del picaresco. La sua arte era contro tutto: il totalitarismo comunista, il nichilismo occidentale, e anche contro l’Europa che ha abbandonato i poeti per affidarsi alle celebrità televisive.

A casa sua c’erano più poeti o più tv?

Più poeti. Ma quando i miei genitori mi vedevano per più di mezz’ora sui libri a studiare, si preoccupavano: «Ma cos’ha che non va questa ragazzina? Perché non va fuori a giocare?».

Chi erano i suoi genitori?

Mio padre era un imprenditore. Mia madre era un’artista. Anzi: una grande artista.

Grande?

Sì. Era una grande scultrice. Aveva esposto alla Biennale e, quando ancora vivevamo ad Alessandria d’Egitto, godette di una buona notorietà. Poi ho visto il suo essere spegnersi. Aveva trentanove anni quando arrivammo a Milano. La sua vita si è spezzata. Il giorno in cui morì ero al suo fianco. Le stringevo le mani. Mi disse: «Un caffè, per favore, vorrei ancora un caffè». Fu l’ultimo desiderio che espresse. «Un caffè». La nostra droga preferita.

È stata la storia di sua madre a farle pensare che era meglio non essere artista?

Può darsi. Di certo non mi ha lasciato indenne. Ma è una cosa su cui non mi sono mai soffermata troppo.

È curioso.

Perché mai? Sono una donna che ha avuto molto dal lavoro, dalla famiglia, dai figli, dalle amicizie, dalle relazioni. La mia vita è trascorsa, non la cambierei.

Ma io mi riferivo al senso.

Ma lei crede davvero che esista un senso chiaro nell’esistenza?

Lei pensa di no?

Quando ho letto L’insostenibile leggerezza dell’essere sono stata folgorata. Proprio all’inizio del romanzo Kundera dice che si vive ogni cosa subito, come un attore spinto sul palcoscenico senza aver studiato la parte. E che la vita non è che «uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro». Una volta disegnato, non si può più correggere.

Tanto vale mettersi a scarabocchiare?

No. L’unica cosa che si può fare con la vita è cercare di ingannarla. Giocare. Non prendersi sul serio. Conosco pochi altri modi per non finire nel baratro che sporgersi dal ciglio del burrone, guardare giù con calma, e sorridere.

Nicola Mirenzi (Catanzaro, 1982), autore tv e giornalista. Il suo ultimo libro è “Nuove mappe del paradiso” (People, 2020), con Marco “Makkox” Dambrosio.