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L’uomo dei piattini

I miei fratelli mi prendevano in giro, ma la mia è stata una scelta. Non ne faccio cadere nemmeno uno. La mia vita vera, senza applausi. A cosa serve? Perché lo faccio? Perché il soffio della speranza è un’altra cosa, e lo sapete anche voi. La risposta è nel cartello

Io sono l’uomo dei piattini. Tutti mi avete visto. I miei fratelli mi prendevano in giro, dicevano che mi ero messo a fare i piattini per paura ma non è così, la mia è stata una scelta. Dicevano che ero malato, un ramo secco, ma ormai per loro è finita, mentre io sono salvo.

Nascere in un circo, figlio e nipote di artisti del circo, è una condanna: devi fare come tuo padre, come i tuoi nonni, ma meglio. Gli acrobati devono fare un avvitamento in più, altrimenti sono dei falliti. I giocolieri devono inventarsi un numero più difficile, arrivare un passo più avanti, altrimenti sono dei falliti. Io ero destinato a fare l’acrobata e per anni ho lavorato con quegli obiettivi, in una continua competizione con i genitori e con i fratelli, finché un giorno mi sono fermato. Ma non è stata la paura. Io non so cosa sia, la paura.

Non ero affatto male, come acrobata, anzi c’è stato un tempo in cui si diceva che ero il migliore di tutti, e che sarei diventato un fenomeno. Avevo sei anni e saltavo prodigiosamente sul tappeto elastico, riproducevo le acrobazie di mio padre e di mio zio senza nemmeno avere studiato la tecnica, con naturalezza. Potevo diventare quello che volevo, dicevano, e naturalmente io volevo diventare un trapezista, come mio padre e come mio zio – come tutti: e mi allenavo, e lavoravo, e la scuola, quella strana scuola che facevamo noi, un mese qua e un mese là, senza compagni, senza pressione, se va bene bene e sennò pazienza, me la facevano saltare con ogni pretesto. Eliminarla dalla mia vita non potevano perché era scuola dell’obbligo e se uno mancava per un certo tempo gli ispettori del Ministero venivano a controllare di persona, e io ero contento che mi obbligassero a tornarci, perché a me la scuola piaceva: anche così, senza compagni, senza pressione, solo compiti e voti in pagella, a me piaceva. Invidiavo gli altri bambini che venivano accompagnati dai genitori o dai nonni, e si invitavano a casa a vicenda, al pomeriggio: io sempre solo sul pulmino, che faceva lunghissimi giri per raccogliere quelli che vivevano lontano da tutto, come me. I miei mi hanno anche picchiato – non dovrei dirlo – perché insistevo a fare i compiti invece di star lì a saltare e a fare esercizi tutto il giorno. Mi misuravano i muscoli, i bicipiti, i dorsali, gli addominali, e io crescevo come un puledro destinato a vincere tutte le gare. I miei fratelli si sfondavano di allenamenti per superarmi, erano assatanati, e questo per loro è stato un bene: senza l’ossessione di superarmi non sarebbero diventati bravi, anche se questo non lo ammetteranno mai. E poi il clan aveva già in mente con chi farmi fidanzare (Brunella, una seconda cugina), e poi sposare, per fare dei bambini da tirare su in modo che cercassero di superarmi e garantire un futuro al nostro circo. Era già tutto previsto.

A quindici anni ero uno dei migliori trapezisti del mondo – o almeno così dicevano. Io ero contento: voglio proprio conoscerlo quello che non è contento se gli ripetono ogni giorno che è il migliore di tutti. Ma, cercate di capirmi, non

ero così contento: c’era qualcosa che non mi tornava, già allora. Volavo, perché questo facevo, volavo dalle braccia dello zio a quelle di mio padre, e in quel volo sentivo il controllo su tutto, come immagino debbano sentirlo gli uccelli, e perciò riuscivo a frullare, carpiare, avvitare con grande naturalezza, e anche con stile (così dicevano), e tuttavia questo non mi appagava, perché non ero un uccello. Gli uccelli hanno un cervellino piccolo come un fagiolo, per loro tutto è normale, non hanno modo di fare paragoni – ma io un cervello ce l’avevo, i paragoni li facevo e il mio cervello mi diceva che non ero soddisfatto. A cosa serve, mi chiedevo, tutto quello che sto imparando a fare? Perché lo faccio? Non l’ho mai rivolta a nessuno dei miei, questa domanda, perché sapevo benissimo – figuratevi – quale sarebbe stata la risposta: come a cosa serve? Serve al nostro circo, per andare avanti; serve ai tuoi fratelli per trarne ispirazione, e migliorarsi; e soprattutto serve al pubblico che paga il biglietto e vuole vedere cose che non si vedono da nessun’altra parte, cose impensabili, cose impossibili. Ma non era quello il senso della mia domanda. Perciò stavo zitto e continuavo ad allenarmi, a chiedere di più al mio corpo scolpito e a ottenerlo, mentre il mio cervello continuava a indebolire la mia volontà di farlo.

Finché un giorno questa volontà se n’è andata. Così, di colpo. E’ successo al Festival del circo di Monte Carlo, che è il festival più importante di tutti, dove ero stato invitato per misurarmi con i più grandi trapezisti del mondo, e la mia famiglia si era anche fatta delle illusioni di vincere un premio, perché alla fine di ogni edizione vengono assegnati i premi ai tre artisti migliori di ogni specialità, chiamati clown d’oro, d’argento e di bronzo, secondo il giudizio di una giuria tecnica e anche del pubblico – fu là a Monte Carlo che la mia vita cambiò.

Fuori dal tendone che ospitava il festival, che si chiama Espace Fontvieille, c’era l’uomo dei piattini – però non dalla parte del pubblico, dall’altra, quella per la quale entravamo noi artisti. Era truccato da clown, e si comportava da clown – inciampava, cadeva, si rialzava – mentre i piattini cinesi giravano sulle asticelle e lui riusciva sempre ad arrivare in tempo prima che cadessero e dar loro un’altra carica per farli ricominciare a frullare. Solo che, appunto, lì davanti a lui passavamo solo noi, giocolieri, acrobati, trapezisti, tutti concentrati sul numero che avremmo dovuto fare di lì a poco: nessuno, letteralmente nessuno, lo guardava – tranne me. Io ero l’unico che lo guardava. I piattini continuavano a frullare, senza mai cadere, e lui, il clown, continuava a fare il proprio numero come se avesse davanti il pubblico, e inciampava, si rialzava e saltava da una parte all’altra per rianimare i piattini che stavano finendo la carica. Faceva anche ridere. Io non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso: c’era qualcosa di ipnotico in quel suo dannarsi, qualcosa di segreto, di prezioso, e di sicuramente vantaggioso nel suo essere lì anziché dentro al tendone o anche solo fuori ma dalla parte del pubblico. Quell’uomo parlava di cose completamente nuove, per me, non più di talento e vocazione e prestazioni ma di una bellezza che non capivo ancora di quale sostanza fosse fatta anche se era chiaro che mi riguardava. La sua mi parve una lingua meravigliosa.

C’era un cappello, per terra. Il ragionamento sembrava questo: “Mi metto da questa parte e non da quella del pubblico perché so che voi che entrate qui, oggi, prendete un ingaggio piuttosto alto, e quindi potete lasciare qualche moneta nel mio cappello senza nemmeno accorgervene. Mi fossi piazzato dall’altra parte sarebbe magari sembrato che volevo mettermi in competizione con voi, far vedere il mio numero al pubblico che viene qui per voi, e giustamente vi sareste potuti risentire. Ma mi sono messo di qua, faccio il mio numero per voi, e dunque vi prego, lasciatemi una moneta”. Ma se quello era il ragionamento, be’, non aveva funzionato, perché come ho detto nessuno lo guardava e il cappello non conteneva nemmeno uno spiccetto. Vuoto. Allora pensai che il ragionamento potesse essere un altro, o che non ci fosse nessun ragionamento.

Forse, semplicemente, quell’uomo era lì per me.

Non saltai, quella sera. Lo dissi nel camerino (c’erano i camerini), dissi che non avrei saltato mai più, e che era inutile insistere. Non mi spogliai nemmeno. Mio padre e mio zio s’inalberarono e mi presero a schiaffi, per quella loro mania di risolvere sempre tutto con la forza, convinti che il mio fosse un attacco di paura –ma non era paura: poi, impossibilitati a riempirmi di cinghiate lì davanti              a tutti, si rassegnarono: andarono dall’organizzatore, uno di quei tipi coi baffi che ti pare sempre d’avere già visto, e gli restituirono l’ingaggio appena intascato, dicendo che “il ragazzo”, cioè io, si era sentito male. Da lì in poi, per tutto il viaggio di ritorno mi ignorarono completamente, e continuarono a ignorarmi anche una volta rientrati al campo, per giorni, per settimane – per sempre. Mio fratello Flavio fu reclutato a sostituirmi al trapezio e nessuno mi disse più niente. Nemmeno la nonna, ormai molto vecchia ma ancora a capo di tutta la tribù – il circo portava il suo nome. Nemmeno la mamma. Nessuno volle veramente sapere cosa mi era successo.

Cominciò così la mia vita vera, quella che avevo scelto. Avevo qualche soldo da parte, e andai in città da quello che ci forniva di tutti gli  attrezzi.

Era un omone grasso col naso incagnato che era stato domatore di leoni per vent’anni prima di rimetterci un braccio – dopodiché si era messo a fare il rappresentante di attrezzi da circo. Fu lui a procurarmi le asticelle e i piattini: in alluminio le asticelle, e in plastica, per cominciare, i piatti cinesi. Dodici, anche se, mi disse, sarebbe stato meglio cominciare con quattro e con otto. Disse che quello dei piattini cinesi era un numero insidioso: tanto era difficile quanto poco lo sembrava, e per quello erano sempre meno gli artisti che vi si dedicavano. Sapeva chi ero, e sicuramente sapeva anche della mia débacle a Monte Carlo (nell’ambiente tutti lo sapevano), ma anche lui non mi fece nessuna domanda: per lui che passassi dal trapezio ai piattini cinesi era normale.

Imparai tutto da solo, questo ci tengo a dirlo. I nostri due giocolieri e le nostre due giocoliere avevano ricevuto l’ordine tassativo di ignorarmi, e lo rispettarono. Una era Brunella, la seconda cugina che prima dovevo sposare e ora non potevo nemmeno parlarci. Il fornitore aveva ragione, era un numero difficile, ma siccome ero bravo anche come giocoliere riuscii in pochi mesi a metter su un buon numero con otto piattini. A quel punto si trattava già di piatti in ceramica, di quelli che quando cadono si rompono, ma poiché ero bravo i miei non sono caduti. Mai. Nemmeno uno. In vent’anni, perché ormai sono vent’anni che faccio l’uomo dei piattini. E ora voi vi chiederete: vent’anni? Ma come, vent’anni? E cos’hai fatto in vent’anni oltre a far girare i piattini sulle aste? Niente. Non ho fatto nient’altro. Ho solo sviluppato il mio numero, da otto piattini a dodici, da dodici a sedici, da sedici a venti e da venti a ventiquattro. Che io sappia solo un artista al mondo è arrivato a ventiquattro piattini – il giocoliere francese di origine armena Atanesyan, che per quel record ha vinto il clown d’oro per l’appunto al Festival di Monte Carlo. Be’, come lui io facevo girare contemporaneamente ventiquattro piattini cinesi di ceramica in equilibrio sulle aste senza mai farne cadere nemmeno uno. Venti-quat-tro. Così, come niente. (Anzi, non come niente: costruendo il numero giorno per giorno con tutto l’impegno e tutta la pazienza che potevo metterci – “come niente” l’ho detto per fare il bullo, dato che nel mio sangue è rimasta la sbruffoneria della mia famiglia).

Il fatto che nessuno lo guardi, il mio numero, non mi scoraggia – anzi, per me è un vantaggio. Dato che non sono mai andato a chiederlo, non ho mai ottenuto il perdono per quel mio rifiuto, e quindi non sono mai stato reintegrato nella famiglia. Ma non sono nemmeno mai stato espulso, perché avevano tutti paura che andassi a fare il trapezista in un altro circo, fregandogli il pubblico. Quando dico che di me non hanno mai capito nulla. E dunque stavo lì, dalla mattina alla sera, fuori dal tendone, sul retro, dietro anche alle gabbie degli animali, per non essere visto nemmeno dal pubblico che portava i bambini a visitare quella specie di zoo nell’intervallo degli spettacoli; mi allenavo il fisico due o tre ore alla mattina e poi partivo con il mio numero, prima quattro piattini, poi otto, poi dodici, e quando tutti e ventiquattro i piattini frullavano sulle asticelle andavo avanti senza fermarmi per il resto della giornata fino alla fine dello spettacolo, quando tutti rientravano nei camper. Allora smontavo tutto e andavo a dormire anch’io. Viaggiare viaggiavo sul camion con gli inservienti. Quasi tutti indiani, cingalesi, filippini, erano gli unici che ogni tanto si fermavano a guardare il mio numero. Penso si sentissero in obbligo: senza che nessuno me lo avesse mai chiesto li aiutavo a montare e smontare le tende e le gabbie per gli animali – ma anche con loro non c’era dialogo, per via della lingua. Solo uno era italiano, un uomo magro pieno di tatuaggi che sembrava averne passate parecchie, solo con lui ogni tanto scambiavo qualche parola. Loriano, si chiamava. Lui è stato l’unico che me lo abbia chiesto, un pomeriggio: “Perché ti alleni tanto con quei piattini, se il tuo numero non va mai in scena?”. Io l’ho guardato, gli ho sorriso, e gli ho detto la prima cosa che mi è venuta in mente: “Perché non sono ancora pronto”, gli ho detto. In realtà, contrariamente a quando a frullare ero io, e volavo come una piuma da mio padre a mio zio, quella domanda – perché? A cosa serve? – non me l’ero mai rifatta. Sapevo solo che quel dannarmi da un’asticella all’altra aveva una sua bellezza, mi sembrava di vivere la vita che avrei vissuto se non fossi nato in un circo e avessi potuto andare a scuola e scegliermi un mestiere. La vita che fate voi, più o meno, sempre di corsa a svegliarvi presto, fare la doccia, accompagnare i bambini a scuola, correre al lavoro, sbagliare, rimediare, andare a riprendere i bambini, portarli dai nonni, o a danza, o a karate, fare la spesa in fretta, correre di nuovo al lavoro, sbagliare di nuovo, rimediare di nuovo, preparare la cena, rimettere a posto, addormentare i bambini, al sabato fare l’amore piano per non svegliarli, alla domenica portarli al cinema, o al circo, e dormire sempre troppo poco. A me sarebbe piaciuta una vita così, l’avrei fatta volentieri, e non mi sarei mai chiesto perché. Allo stesso modo non mi ero mai chiesto perché facevo girare i piattini cinesi, a cosa servisse, perciò siete liberi di non crederci ma quella domanda mi colse di sorpresa, e risposi in quel modo. A Loriano comunque la risposta sembrò sensata, non commentò, e ricominciò a farsi gli affari suoi. Non ho mai nemmeno lontanamente sospettato – spero mi crediate – che fosse un ufficiale delle guardie zoofile, e quando sono arrivati i Carabinieri e hanno sequestrato il circo sono rimasto anche più sorpreso degli altri. Cioè, non si chiamava Loriano, i tatuaggi erano finti, e finta era anche quella sua aria patita che mi aveva fatto fantasticare: si era infiltrato e sacrificato per mesi (vi assicuro che le condizioni di lavoro per gli inservienti erano molto dure), per un’inchiesta che riguardava tutti i circhi più importanti d’Italia. Era una questione legata agli animali, naturalmente, al maltrattamento degli animali: per settimane quel demonio aveva filmato col telefonino gli addestramenti dei cammelli, dei cavalli, dei cani, che ovviamente erano a base di bastonate, e aveva documentato la detenzione delle tigri “in condizioni incompatibili”, diceva l’ordinanza di sequestro, “e produttive di gravi sofferenze”. Aveva tenuto nota del tempo che tutte le bestie passavano stipate nei camion, delle ore di viaggio nelle tappe di trasferimento, del sovraffollamento delle gabbie, della qualità del cibo e della quantità di acqua che ricevevano, tutto. E quando i magistrati hanno deciso di chiudere l’inchiesta, è partita l’azione che ha sequestrato otto circhi, tra i quali il nostro. Sequestrati significa che gli animali sono stati affidati alle associazioni, gli spettacoli interrotti e tutti sono rimasti senza lavoro, compresi gli inservienti cingalesi. Chiuso. Finito. Kaputt.

Io, al contrario, sono stato liberato. Il falso Loriano, bontà sua, mi ha tenuto fuori dalle accuse che si sono abbattute sulla mia famiglia, ragion per cui i miei parenti, per via di quelle quattro parole in croce che ci scambiavamo, hanno creduto che io fossi suo complice nell’intento di rovinare il circo che portava il mio cognome da tre generazioni, e hanno trovato il coraggio di buttarmi fuori. Tanto erano sotto sequestro anche gli altri circhi nei quali, dopo tutti quegli anni, temevano ancora che sarei potuto andare a fare il trapezista. Questo mi liberava: il legame con il mio sangue era reciso, ma non ero stato io a reciderlo. Potevo andare per la mia strada.

E la mia strada – ora posso dirlo – è sempre stata la strada. Fuori dalle stazioni della metropolitana – a Roma, d’inverno, a Milano, in primavera e autunno, e d’estate addirittura a Parigi – potete trovarmi con i miei piattini che frullano. Ho ridimensionato il numero, questo sì. Radicalmente. Ora lavoro con soli quattro piattini. Per portarsene dietro ventiquattro ci voleva il baule, ma per saltare sui camion che decidono di prendermi su negli autogrill bisogna essere leggeri, e allora ho deciso di ridurre al minimo gli ingombri. Tanto, quattro o ventiquattro, il senso non cambia. Il senso del mio numero, intendo. Rimane quello. Voi passate e io sono lì, e mi vedete, e c’è sempre un piattino che sta per cadere, e questo vi fa fermare, e rimanete a guardare, e più guardate e più vi sentite come me, perché anche voi, tutti voi, fate la stessa cosa che faccio io – correte di qua e di là tutto il santo giorno per fare in tempo, perché non vi cada tutto addosso. Poi però proprio per questo vi viene l’ansia, anche se con quattro piattini posso permettermi anch’io di truccarmi da clown, posso anch’io inciampare e rialzarmi mentre corro a dare la carica al piattino che sta per cadere, e quindi di farvi ridere. Ma niente, l’ansia ormai ha avuto la meglio e non ce la fate più, dovete smettere di guardare, dovete andarvene, in fretta, anche perché per l’appunto anche il vostro piattino sta per cadere e dovete correre a ricaricarlo. Allora mettete la mano in tasca e buttate nel cappello la prima moneta che ci trovate – ci ho trovato tanto monete da cinque centesimi quanto da due euro, giuro – e ve ne andate. Ma prima di andare fate in tempo a leggere il cartello che ho messo vicino al cappello, scritto piccolo, con la risposta alla domanda che mi facevo da ragazzo quando volavo al trapezio, che mi ha fatto una volta quel serpente di Loriano, che Dio lo protegga, mentre stava mandando in rovina la mia famiglia, e che da un certo giorno in poi ho ricominciato a farmi anch’io: Perché lo faccio? A cosa serve? “SE  CASCA  UN  PIATTO  CASCA  IL MONDO”, ho scritto nel cartello. Ed è la verità: se commetto un solo errore, se un solo piattino cinese cade dall’asticella, lo spazio e il tempo si piegano su se stessi e il mondo, la vita e tutto l’universo, finiscono di colpo. E’ la verità, è ovvio che è così. Infatti io non ho mai sbagliato, nemmeno un piattino mi è mai caduto, ed è per questo che il mondo non è finito: è qui, il mondo, è l’affanno che vi tiene legati a me anche dopo che ve ne siete andati, è il sollievo che provate quando vi occupate dei vostri figli, è quel soffio di speranza che vi permette di ascoltare la musica, di andare al ristorante, di dormire la notte, nonostante tutto – finché i miei quattro piattini continuano a girare e a non cadere mai.

Sandro Veronesi (Firenze, 1959), scrittore. Il suo primo romanzo è «Per dove parte questo treno allegro» (1988), a cui seguono «Gli sfiorati» (1990) e «Venite, venite B-52» (1995). Ha vinto il premio Campiello con «La forza del passato» (Bompiani, 2000), e due volte il Premio Strega. Con «Caos Calmo», (Bompiani, 2005), diventato nel 2008 un film di Antonello Grimaldi e con «Il Colibrì», (La Nave di Teseo, 2019), che è diventato un film di Francesca Archibugi. Molti dei suoi romanzi sono stati ripubblicati da La Nave di Teseo. Il suo ultimo romanzo è «Comandante», scritto insieme a Edoardo De Angelis (Bompiani, 2023).