Cerca

Mascara, pizza e fucili al sole

Anche in guerra si comprano i fiori e si usa Glovo fino al coprifuoco. Dopo i tremendi giorni del bunker, serve una piastra per capelli. Le giornate di chi non si lascia travolgere dalla paura: nervi saldi e parrucchiere

Anche in tempo di guerra le persone sono capaci di ironia, comprano beni non essenziali come i fiori e si arrabbiano per cose stupide come un sorpasso. A Odessa i missili colpiscono siti militari e depositi di carburante, di notte si sentono i botti della contraerea e non si può più andare a guardare il mare perché la spiaggia è stata minata, di fronte alla costa ci sono le navi nemiche e se vogliono ti distruggono, in giro per la città ci sono manifesti con un disegno e una scritta in rosso su sfondo bianco: “Nave da guerra russa, vaffanculo”. È una citazione dei soldati che hanno combattuto – finché hanno potuto – per la libertà dell’Isola delSerpente, l’intercettazione radio della risposta alla richiesta di arrendersi è diventata il primo slogan della resistenza ucraina. Ci sono i bambini in giro sui pattini a rotelle e le ragazze vanno a pranzo fuori con il trucco leggero e curato: il contouring sulle guance e sulle palpebre e poco mascara. I ristoranti, le caffetterie, le librerie e i fiorai sono aperti fino a tre ore prima del coprifuoco, fino alle sei di sera, ma dalle sei alle otto si può ancora ordinare su Glovo. “Più riesci a ritagliarti momenti di tranquillità, più tempo riuscirai a resistere, a mantenere i nervi saldi e quindi a essere utile”, dice Katia che questa mattina è andata a tagliarsi i capelli. “Non siamo gente debole, non diamo di matto e non andiamo nel panico: altrimenti avremmo già perso”. La normalità fin dove e fin quando è possibile serve alla forza d’animo e la forza d’animo serve alla vittoria, il parrucchiere aperto e Glovo in funzione servono al pil e anche il pil serve alla vittoria. Per noi che guardiamo da lontano, conoscere quello che c’è intorno alla distruzione e oltre la distruzione è utile a non arrivare troppo presto al punto di assuefazione e al rigetto del dramma – sarà una guerra molto lunga. “Se noi abbiamo paura, i russi sono sereni. Se noi siamo sereni, i russi hanno paura” è il motto di Vitaly Kim, il governatore della regione di Mykolaiv che confina a est con quella di Odessa. La sua città è l’ultima linea di difesa e di protezione, qui i negozi aperti sono pochi ma c’è una pizzeria nuova e affollata che è diventata la pausa pranzo di chi torna dal fronte, ci sono i kalashnikov appoggiati su un tavolo, al muro e sul davanzale al sole. Un soldato dice “guarda, sono famoso” e sull’iPhone apre la pagina del New York Times dove c’è una sua foto. Il proprietario della pizzeria è un viticoltore e, anche se la vendita di alcol è vietata in questo momento, a Mykolaiv un’ordinanza di Kim permette di servirlo a tavola il sabato e la domenica. Il proprietario si chiama Sergii e nelle sue cantine ci sono scorte di bottiglie che bastano per mesi, sono preziose perché non si sa quando si potrà ricominciare a produrre e coltivare è diventato pericoloso: “Nei campi ci sono le bombe a grappolo, quelle bombe fatte da tantissime bombe più piccole che si separano le une dalle altre in volo, non succede mai che esplodano tutte subito e se ne calpesti una inesplosa salti in aria”. Le bombe a grappolo sono illegali, ma sono anche uno degli strumenti preferiti del nuovo capo di tutte le operazioni militari russe in Ucraina, il generale Alexander Dvornikov che le ha già usate contro i civili in Siria e le usa qui per spianare la strada all’ingresso delle sue truppe.

Il governatore Kim è diventato famoso come volto carismatico della controffensiva ucraina nel sud che aveva costretto i russi a indietreggiare, ma adesso – da quando Mosca ha aggiustato il tiro ed è passata al piano B – fronteggiarli è diventato più difficile, come mantenere il buon umore. Kim ci prova, dice che i russi sono abituati a guardare gli ucraini dall’alto in basso e che bisogna continuare a ridere di loro e dei loro errori, altrimenti è la fine. Il suo canale Telegram è molto seguito in tutto il paese e in uno dei suoi video-selfie quotidiani aveva detto che il suo tono gioioso era destinato a durare, anche se poteva sembrare inadatto alle circostanze. Il suo palazzo, la sede della Regione, è stato bucato da un missile Caliber sparato dal mare, ci sono stati trentasei morti. Anche l’ospedale pediatrico della sua città è stato bombardato all’inizio di aprile, ci sono state altre decine di morti e poi sono seguiti molti altri missili e molti altri morti. “Siamo seri quando parliamo delle nostre vittime, ma non quando parliamo dei russi”: la loro brutalità è un’arma per terrorizzare, ma “anche la serenità è un’arma, ed è la nostra”.

Odessa deve preservarsi senza farsi travolgere dalla paura, Mykolaiv deve resistere e nel nord – dove i russi si sono ritirati e noi abbiamo scoperto i loro massacri – bisogna decidere se ricominciare a vivere o se è troppo presto. A Chernihiv abitano poco meno di centomila persone e fino a due mesi fa erano il triplo. La città è stata accerchiata e bombardata per un mese: niente acqua corrente, niente riscaldamento e niente elettricità a meno di non attaccarsi a un generatore di emergenza in una caserma della polizia o in un pronto soccorso. Nel rifugio dell’ospedale numero quattro hanno vissuto centottanta persone per trenta giorni, hanno dormito anche nell’archivio, sui materassi messi in terra nei corridoi strettissimi tra gli scaffali con i fascicoli. Quando la città si è ritrovata assediata i tre pazienti che potevano farcela da soli sono stati dimessi e sono tornati a casa, e dei trentasei che sono rimasti ventidue sono morti – non per le bombe ma per il freddo, la mancanza di igiene e l’assenza di cure.

Olha ha vissuto nel bunker di questo ospedale insieme al suo ragazzo per tutto il tempo, a casa sua la cantina non c’è e lei non aveva un posto sicuro dove andare. Ha ventisette anni ed è altissima. Per un mese ha potuto lavarsi i denti solo due volte a settimana, l’acqua nei secchi era poca e doveva bastare per tutti, la priorità non era comunque lavarsi ma bollirla, raffreddarla e bere. Quando i russi se ne sono andati, dopo due giorni che non piovevano bombe ed era appena tornata la luce ma non l’acqua, Olha è uscita dal bunker, è salita al terzo piano e ha recuperato una grande borsa e poi la sua piastra per capelli. “Per scappare ci vogliono soldi, io non sono abbastanza ricca e qui aspetto di capire se il capo del negozio in cui lavoravo decide di riaprire”. A Chernihiv le persone si sono fatte passare la paura di morire, ma è difficile gestire il dopo. Ricostruire e ricominciare costa, in termini di soldi e di fatica, e per farlo serve fiducia. “Ci sforziamo di pensare che sia tutto finito, che i russi se ne siano andati per sempre, ma nessuno di noi ci crede davvero”. Però intorno ai palazzi e alla centrale elettrica distrutta ci sono ragazzi che spostano su un lato tutti i blocchi di cemento che riescono a sollevare e ci sono signore con le scope che puliscono l’asfalto dai vetri rotti e dalla polvere. L’istinto, appena si sono fermate le bombe, è stato quello di uscire e mettere in ordine.

Cecilia Sala (Roma, 1995), giornalista. Ha realizzato insieme a Chiara Lalli il podcast “Polvere” che è diventato un libro per Mondadori. È autrice e voce del podcast quotidiano “Stories” (Chora Media).