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Memorie di una ragazza perbene rasata a zero

Era il 1990, notti magiche inseguendo Paul (o un altro). Sinéad O’Connor cantava «Nothing Compares 2 U» con mezzo centimetro di capelli. Nel Novecento degli amici di famiglia e dei poeti maledettisti, Robert Redford era decrepito. I cofani delle auto e lo sfascio delle altre

Sono quattro giorni e due mesi da quand’è morta Sinéad O’Connor, dalla settimana che abbiamo passato a contrirci perché meritava di più, dall’ennesima fine del Novecento a mezzo foto-ricordo. Sono nove mesi e trentatré anni da quel gennaio del 1990 in cui la guardavo piangere nel televisore a casa di C., o – più spesso – guardavo lui che guardava lei, ipnotizzato come si può esserlo di fronte a un primo piano così perfetto da funzionare con sì e no mezzo centimetro di capelli. Sono nove mesi e nove anni dalla prima volta che ho letto Felici i felici, capendo finalmente cosa avevamo in comune, cosa eravamo noi due – una cantante irlandese che in tutto il mondo quel mese guardavano piangere, e una ripetente bolognese che voleva solo che C. la amasse – in quell’inverno dei miei diciassette anni. Eravamo Loula Moreno: «E’ bella, è divertente, è disperata. Esattamente quello che mi serve». Sono otto mesi e trentatré anni

da quel febbraio davanti a San Petronio. Adesso, in piazza Maggiore c’è un ristorante d’una catena, come ovunque in tutte le città. Adesso, sui gradini dalla parte opposta della piazza rispetto alla basilica, c’è un posto in cui nessun bolognese vuole mai andare, perché ovunque gli indigeni si piccano di conoscere posti non per turisti, mica come queste catene tutte uguali, tutte non luoghi, tutte mense di massa. Io le catene le trovo rassicuranti: conosci già il menu, sai quali vini hanno e quali no, non è una continua delusione. Certo, mangiare in un posto che in cima allo scontrino ha il nome della multinazionale di mutande d’acrilico che ne è proprietaria non ti fa sentire esattamente clientela sofisticata. (Le mutande d’acrilico allora mica esistevano. Cioè, esisteva quella roba col buco davanti che si ordinava per posta, per zoccole di basso bordo, oppure le mutande della nonna della merceria, o La Perla se volevi essere zoccola e potevi spendere centomila lire a mutanda di pizzo. Quelle che andavano in America, io stessa quando mi ci portavano, compravano già Victoria’s Secret? Di sicuro non io, devolvevo in zoccolaggine La Perla tutti i soldi che mi davano i parenti; le altre mi sa di no ma non me lo ricordo, non mi si sono depositate le mutande d’acrilico nella memoria a lungo termine. Comunque non c’erano le mutande d’acrilico locali in vendita nelle stazioni e nei centri commerciali che ci sono ora, ora che abbiamo tutte diritto alla zoccolaggine non dichiarata a nove euro e novantanove, ora che si dice sex worker).

Neanche allora eravamo clientela sofisticata, comunque: nonostante il posizionamento ideale, il bar che c’era su quei gradini alla fine del secolo scorso era di quart’ordine. Dunque è il febbraio del 1990, non sono ancora miope, sono seduta da sola a un tavolino di quel bar perché sono in anticipo per qualcosa e perché ho già imparato che stare da sole nei bar è uno dei grandi piaceri della vita (una delle poche cose che non ho capito tardissimo). Nella piazza vuota del pomeriggio d’inverno passa una Vespa bianca. C. sta andando a casa. Mi alzo e, urlando, scendo gli scalini, col mio cappotto nero a doppiopetto che non riesco a spiegarmi come potesse piacermi, urlando lo inseguo, urlando lo vedo voltarsi e rallentare. Si ferma, lo raggiungo, e nei film ci sarebbe il limone al rallentatore ma no: C. non mi ha riconosciuta, mi guarda chiaramente chiedendosi chi diavolo è questa scimmia urlatrice. Poi capisce.

  1. non è Darius Ardashir, e quindi non sa dirmi la cosa giusta come avrebbe fatto lui con Loula Moreno. Non sa dirmi: «Ciao, bricconcella».

C., che l’anno prima è partito per Parigi per fare il poeta maledetto, e non sarebbe tornato più, aveva detto, e io ci avevo creduto e avevo pianto tantissimo, perché neanche il suo essere partito nel giorno del duecentesimo anniversario della presa della Bastiglia mi aveva fatto venire uno straccio di dubbio circa il suo essere un cliché culturale e un turista del maledettismo.

C., che a Parigi si è innamorato di una californiana, ma poi quella è tornata in California e lui è tornato qui, perché i figli degli industriali della plastica che vogliono fare i poeti maledetti sempre in provincia tornano, sempre a casa di mamma, e ora ogni volta che non sono a letto con lui a guardare Sinéad che piange, o Betty Blue che si cava un occhio, o un Jack Nicholson qualunque, ogni volta che sono nel suo letto da sola perché lui è sotto la doccia o in cucina con la madre, ogni volta leggo di nascosto le lettere della californiana, la prima donna della cui ingenuità sia stata gelosa, l’aveva portata in Grecia e lei gli scriveva che era rimasta molto turbata da tutte quelle donne senza reggiseno sulle spiagge. La californiana ha – certo che ho spiato anche le foto – capelli biondi lunghi fino al culo, ma ce li ha solo perché non è qui in questo inverno e non sa come lui guardi Sinéad. Io sì: io so, e ho l’indirizzo di Orea Malià. Gli porto una foto. Gli si accendono gli occhi. Dite a un parrucchiere di fare una cosa folle coi vostri capelli, e quello di certo non si farà pregare.

Quel pomeriggio in piazza Maggiore, C. è il terzo uomo a non essere Darius Ardashir. Il primo era stato mio padre. Tornavo dalla seduta da Orea Malià, avevo come sempre dimenticato le chiavi, suonai, lui aprì il portone (a Bologna si dice «dare il tiro», e campassi sette vite non capirò mai come facciano le altre città a non avere un modo specifico di dire che apri il portone e non la porta) e mi aspettò sulla soglia di casa. Solo che mio padre era praticamente cieco, e quella figura in cappotto nero di cui distingueva solo i contorni, contorni senza capelli, non poteva essere sua figlia, che tornava spesso con capelli di colori assurdi ma mai senza capelli. Fece tre passi verso di me mentre attraversavo il cortile; poi, abbastanza vicino da capire che sì, ero proprio sua figlia, e sì, ero proprio senza capelli, mi disse solo: ma tu sei tutta scema.

Il secondo era stato l’analista da cui andavo per moda, per far buttare soldi ai miei, per sentirmi in un film di Woody Allen. Ero entrata, mi aveva guardato con aria saputa, e aveva violato la regola del silenzio freudiano. «Ah, quindi lei vuole tornare nell’utero». Ma no, tentai di spiegargli, c’è questo video, sono sette ore e quindici giorni da quando hai portato via il tuo amore, lei piange in primo piano, a C. piace tanto, glielo canticchiai pure, I went to the doctor and guess what he told me, ma niente: non capiva. Continuava a dire che mi ero rasata per sembrare un neonato.

E poi C., il grande amore dei miei diciassette anni, che preparava la maturità da privatista benché ne avesse già ventuno, che era bello da fermare il traffico, che mi fece vedere per la prima volta Conoscenza carnale e solo per questo avrà la mia sempiterna gratitudine. Di recente il grande amore dei miei ventisette anni mi ha scritto un messaggio così noioso e pieno di frasi fatte che ho pensato meno male che il grande amore dei miei ventitré anni è morto, e quello dei miei vent’anni pure, perché se restano vivi te ne penti con frequenza fastidiosa. C. ricomparve quando avevo trentasei anni, a incarnare la crisi dei quaranta degli uomini che sì, hanno una villa sui colli, una barca da sabbiare, un temperamento artistico pur senz’avere il minimo talento, ma che soprattutto non saranno mai più il bello della scuola.

Ma non parliamo degli strascichi adulti, non parliamo di quell’ingombro che è il presente. Torniamo a quel pomeriggio d’inverno in piazza Maggiore, quel pomeriggio in cui C. era ancora il bello di tutte le scuole dalle quali era passato, la prof di Italiano dell’istituto per asini ricchi che entrambi frequentavamo secerneva visibili ormoni ogni volta che lo vedeva passare, e io avrei avuto voglia di dirle che non aveva chance, con quella tintura casalinga e la matita per le labbra più scura del rossetto, ma invece di dirglielo ero andata a raparmi a zero. C. fermò la Vespa, mi guardò, e disse: apperò, coraggiosa.

Quando è morta Sinéad O’Connor, quelli che volevano sentirsi di mondo e darsi un tono e percepirsi controcorrentisti hanno tutti detto due cose. La prima: ma cosa fate i fan disperati, che conoscete una sola canzone. La seconda: e comunque la canzone era di Prince. La seconda era particolarmente buffa: era come se si accorgessero in quel momento che le canzoni, nell’immaginario popolare, appartengono a quelle dalle quali le abbiamo sentite, mica a quelli che le hanno scritte. Peccato non ci fossero i social quando morì Frank Sinatra, sai quanti «ma guardate che My Way non l’aveva mica scritta lui». Ma a far capire che non riescono a capire il mondo è stata la prima frase, detta da gente adulta. La gente adulta dovrebbe ricordarsi com’era il Novecento. Dovrebbe ricordarsi che nessun cantante aveva una sola canzone, perché compravamo l’album, e l’album costava una settimana di paghetta e lo consumavi, non è che ne ascoltavi due minuti su Spotify e poi ti stufavi. So più a memoria I do not want what I haven’t got di quanto sappia roba che ho sentito l’altroieri (peraltro quell’album aveva un titolo che poteva sostituire qualunque analista convinto che volessi rientrare nell’utero). Conoscevamo più d’una canzone anche di coloro che sono ricordati per una canzone sola, e comunque quella canzone sola aveva un peso che ora è impensabile. Chiedete a una bambina degli anni Ottanta di Total Eclipse of the Heart, se siete pronti ad ascoltare un trattato sullo struggimento e i capelli cotonati. Chiedete di Cyndi Lauper, che di canzoni ne ha avute due e ci sono bastate per diagnosticare che lei sì sarebbe durata, altro che Madonna (avessimo mai imbroccato una previsione), e per cominciare a tingerci le ciocche con lo spray. Chiedete di Madonna, che quando mandarono il suo concerto in diretta su Rai 1 – quattordici milioni di spettatori: in questo secolo neanche Sanremo – aveva fatto tre dischi, e quando alla fine chiese un pettine le arrivò un lancio di decine di pettini sul palco, e ogni volta che ripenso a quelle immagini mi chiedo: ma oggi c’è qualcuna che si porta il pettine a un concerto? Non è che i capelli non saranno mai più importanti come nel Novecento?

Il quarto a non essere Darius Ardashir fu l’Amico di Famiglia. Era Pasqua, i miei erano a Roma, in un albergo di via Veneto, con gli amici di famiglia. Io ero a Roma dalla Chicca, che era in visita al padre separato che si era trasferito lì. Una sera io vado a cena coi miei, a Trastevere, e alla fine i più giovani degli amici di famiglia, trentaequalcosenni, mi dicono ti portiamo con noi, c’è un nuovo posto che pare sia carino, in piazza delle Cornacchie, e i miei che avevano l’intuito di due comodini mi lasciano serenamente andare verso una serata memorabile. Ho avuto grandi amori, grandi cotte, grandi errori parrucchieristici, ma niente mi si è impresso nella memoria a lungo termine come quel momento del mio ultimo inizio di primavera da minorenne. Quello in cui, al bancone delle Cornacchie, l’Amico di Famiglia mi dice «Ho una sorpresa per te in tasca», e io ubbidiente gli infilo una mano nella tasca dei jeans mai pensando – ma forse non l’ho neanche capito subito, forse ho ricostruito dopo, forse me l’ha spiegato la Chicca quando sono tornata a casa: che tonna, che irredimibile tonna – che un adulto ti dica di infilargli una mano in tasca per verificare che ce l’abbia duro, neanche fosse il tredicenne del Tempo delle mele che infila l’uccello nella scatola delle Cipster così lei glielo palpa cercando di prendere le patatine.

Credo di poter raccontare almeno una delle scene di atti osceni in luoghi pubblici che seguirono: sono passati trentatré anni, ci sarà la prescrizione, no? Il meno Darius Ardashir che sia mai esistito mi sta portando in giro per il centro di Roma per un polso, non è una passeggiata, sta cercando un luogo dove scopare con una certa urgenza, mica può aspettare di arrivare in albergo, anzi forse (meno tonno di me) proprio non gli sembra una buona idea portarmi nell’albergo dove dormono tutti loro, compresi la mia mamma e il mio papà che quand’ero piccina mi portavano in Costa Azzurra da lui che, allora ventenne, mi portava a cavalluccio (che forse è un prodromo all’«ho una sorpresa in tasca», non lo so, l’analista è morto e non posso chiederglielo).

A un certo punto vediamo un arco, un cortile, delle macchine parcheggiate. C’è una targa: istituto per la guardia d’onore alle reali tombe del Pantheon. Dico qualcosa come: mica vorrai violare le reali tombe del Pantheon. Mi ripeterà quella frase ogni volta che riscoperemo, sporadicamente nei due anni successivi, ogni volta compiaciuto di che buona battuta fosse, e io lo so che non era una gran battuta, e sono quindi costretta a capire molto presto nella mia vita che non sono proprio molto brillante per la mia età, è che gli adulti che si scopano le ragazzine hanno bisogno di raccontare a loro stessi che non lo fanno per il culo sodo, ma perché quelle ragazzine sono proprio speciali, proprio intelligentissime, proprio molto spiritose.

Ci accomodiamo sul cofano dell’ultima macchina parcheggiata in fondo, illudendoci che lì non ci vedrà nessuno, ma il dio dell’imbarazzo esiste e quella sera ha un debole per me, quindi a un certo punto il proprietario della macchina proprio dietro la nostra viene a riprendersela. Poteva andar peggio, certo: poteva arrivare il proprietario della macchina sul cui cofano stavamo copulando. Ma poteva anche andar meglio, potevo avere più di un mese e spicci di ricrescita della rasatura, potevo avere un Amico di Famiglia più Darius Ardashir, e ora di quella sera non ricorderei, a pari merito con «Ho una sorpresa per te in tasca», la frase sul cofano.

«Cazzo, penserà che mi sto inculando un ragazzino». Avrei dovuto capirlo dalla canzone: esco ogni sera e dormo tutto il giorno, da quando hai portato via il tuo amore – e poi come vuoi che finisca.

Mentirei se dicessi che Nothing compares 2 U fu l’unica canzone di quel 1990. L’estate fu di Notti magiche, me lo ricordo perché in agosto eravamo ai Caraibi, da altri amici di famiglia, questi con figli quasi trentenni che si sentivano responsabili per me e continuavano a ripetere «sei minorenne, non possiamo lasciarti sola», invece di promettermi sorprese in tasca. La sera in cui, in un ristorante, vidi un tizio che mi colpì, mi vietarono di tornarci in albergo: sei minorenne, ti dobbiamo riaccompagnare dai tuoi. Avevo diciassette anni già da dieci mesi, ormai almeno sei centimetri di capelli, e nessuno mi aveva mai proibito niente prima. Che anno di mirabolanti emozioni. Tornai in Italia canticchiando «Notti magiche, inseguendo Paul», perché il tizio nel cui letto mi era toccato aspettare il pomeriggio successivo per infilarmi si chiamava Paolo. Alle mie compagne di classe al ritorno dalle vacanze avevo da dire solo di lui. Ah sì, e poi una mattina a colazione c’era Robert Redford al tavolo a fianco, un catorcio, pieno di rughe. Se ci ripenso mi sputo allo specchio. Oltretutto Paolo – che viveva a Milano ma era di Bologna, e io ero andata a ottomila chilometri per scoparmelo – non era neanche lui Darius Ardashir, non aveva neanche lui una dialoghista brillante, non sapeva cosa fosse un «ciao, bricconcella». Paolo osservò con sguardo tecnico da milanese che lavora con le modelle il mio faccino smanioso, e si sforzò di formulare un complimento: «Hai una pelle pazzesca. Occhi e pelle». Ero pur sempre quella delle guardie d’onore, quindi feci la spiritosa: il resto fa schifo? «Il resto lo buttiamo». Avevo pronto il mio nuovo struggimento autunnale, certo non è che quella canzone sul tizio che ha portato via il suo amore dopo aver piantato i fiori in cortile, e quando se ne va i fiori muoiono tutti, non è che fosse adattissima a commentare una scopata pomeridiana sotto il ventilatore a pale in un resort di lusso, ma io non ero adattissima a distinguere tra grandi amori e inciampi ormonali, quindi passai a struggermi l’autunno, l’inverno, e tutte le stagioni utili a saltare lezioni. A maggio la prof di Letteratura francese non voleva farmi ammettere alla maturità per le troppe assenze, e io non provai neanche a dirle che avevo la mia Odette, che ero impegnata a desiderare di morire per uno che nemmeno mi piaceva, che nemmeno era il mio tipo: che poteva capirne, lei, dello struggimento.

Sinéad O’Connor è morta nei giorni in cui sembrava stesse per morire Madonna, che plausibilmente ci seppellirà tutti, ed è morta dimenticata. Abbiamo tutte fatto finta che non fosse così, ci siamo tutte precipitate a dire che la società e il patriarcato e la discografia e il capitalismo e i fabbricanti di extension e gli ascoltatori di Spotify non avevano riconosciuto a Sinéad la gloria che meritava; ma che noi, proprio noi, noi che ora stavamo sciorinando il nostro lutto foriero di cuoricini su Instagram, noi Sinéad non l’avevamo mai dimenticata. Ma non era vero. E la ragione per cui non era vero era che Sinéad O’Connor aveva smesso da molto tempo di essere una cui puoi sensatamente dire «ciao, bricconcella». Se nel trittico «è bella, è divertente, è disperata» resta solo il terzo elemento, non sei più lo struggimento con cui alle persone piace dilettarsi, con cui vale la pena intrattenersi anche a rischio di sembrare gente che se la fa con un ragazzino. Non è mica perché aveva smesso d’essere divertente strappando la foto del Papa: forse divertente non lo era mai stata, si prendeva terribilmente sul serio – e d’altra parte quando piangeva in primo piano aveva ventitré anni: se non ti prendi sul serio allora, quando.

Tell me, baby: where did I go wrong? L’indicibile è che Sinéad O’Connor era ingrassata, si era sfasciata, non aveva più la mandibola tesa che regge il primo piano anche coi capelli rasati a zero, non era più una ragazza carina. E quindi noi l’avevamo accantonata, assieme alle nostre giovinezze, ai nostri metabolismi, alla nostra possibilità di tagliarci i capelli così corti senza sembrare in chemioterapia. Era stata, negli anni, uno specchio fedele per donne normali: che, a cinquant’anni, coi jeans di quando ne avevano venti possono farcisi un polsino. Ma lo sfascio delle altre, di quelle famose, ci spaventa, non vogliamo mica specchiarci, che Mina si nasconda in Svizzera e la Bardot in Costa Azzurra, che ci lascino sole con le Jane Fonda ancora in forma all’età alla quale le nostre nonne avevan già da vent’anni la dentiera nel bicchiere. Quell’autunno in cui tornai a scuola dicendo sì, in albergo c’erano Redford e Sonia Braga, decrepiti, quell’autunno in cui ho compiuto diciott’anni e scopare di pomeriggio è diventata una scelta e non più una scappatoia ai divieti minorili, quell’anno lì la Braga aveva quarant’anni. Il giorno in cui li vidi a colazione, Redford ne compiva cinquantaquattro, e io da trentatré anni mi chiedo cosa sei Robert Redford a fare se il giorno del tuo compleanno non fai colazione a letto. Me lo chiedo da quando avevo dieci mesi e diciassette anni, e gli struggimenti erano tutti miei, e gli sfasci tutti altrui.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).