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Mestiere? Scrittrice. Tutti i fogli sul pavimento

Le donne che cucivano pagine e vendevano storie (anche) per guadagnare e mantenere la famiglia. Giulia Caminito e Beatrice Masini pensano a loro e a sé stesse, oggi: l’impazienza, la cura e il disordine nella mappa del tesoro delle parole

Cara Beatrice,

ricordo un giorno di aver detto a Viola Di Grado, in una conversazione, che a mio parere lei il suo lavoro lo aveva fatto al meglio, e Viola si era indispettita facendomi notare che non considerava la scrittura un lavoro, ma una esistenza. Io provai a spiegarle cosa intendessi, pensavo infatti al lavoro come produzione di energia o come applicazione concreta, palpabile e quasi artigianale, quell’elemento fisico ma anche immateriale insieme che può connotare la scrittura. Eppure, in effetti, pensandoci anche per me dichiarare che scrivere è il mio lavoro mi spaventa, vorrebbe dire pubblicamente e a me stessa che la scrittura è qualcosa di riconosciuto dalla società, il mio modo di darmi sostentamento, il mio badge ufficiale, la mia casella da riempire alla agenzia                  delle entrate. Professione? Scrittrice. Così tutto il resto rimarrebbe fuori: la libertà, l’abisso, il silenzio, la creazione. Sembrerebbe ridursi a una etichetta, un modo per dichiararsi attivi e proficui, attraverso qualcosa che per me invece assume un valore più antico, più profondo e radicato che non si può dire nel mondo delle economie, dei risparmi, dei mutui, degli affitti e dei buoni pasto. Da ultimo però mi viene in mente l’inglese e il labour, che per le donne è il lavoro ma è anche il travaglio e allora forse le cose cambiano, la scrittura è labour, è generazione, qualcosa che si cova, che si tiene al caldo, che si figlia?

 

Cara Giulia,

labour in inglese, travail in francese. La scrittura è qualcosa che chiede di essere messo al mondo, sì. Ed è anche un lavoro. Ma se invece di lavoro dicessimo mestiere? Ha un che di meno sofferente, più artigianale, come hai detto tu, c’è dentro polvere, fare, traffico di mani. La fatica è lì, c’è lo stesso, ci deve essere, però disciolta in una sorta di abilità che si perfeziona col tempo, che prende sempre nuove forme. È l’impegno del fare quotidiano, qualcosa di consueto che però porta in sé il brivido di un appuntamento al buio, non sai mai che cosa succede quando ti ritrovi davanti al tuo foglio, credevi di sapere che cosa avevi fatto e invece è tutto nuovo, qualche volta ti piace, qualche volta no, e però vai avanti, verso l’imprevisto o il non ancora visto. Ma questa sorpresa in farsi deve per forza essere innestata sul mestiere, che chiede una costanza cieca, quasi fine a se stessa: il fare-e-disfare di Penelope. Assomiglia fatalmente al fare-e-disfarsi della quotidianità, anche quella domestica che non ci tocca più o non scegliamo più oppure ci tocca comunque ma abbiamo imparato bene o male a chiudere in qualche ripostiglio. Il problema è ancora e sempre quanto chiediamo a noi stesse: troppo, credo, in uno slancio di compiutezza che costa – e ci risiamo – una gran fatica.

 

Cara Beatrice,

mi conforta pensare alla scrittura – unica attività che effettivamente svolgo – come a un mestiere. Ho sempre invidiato chi sa costruire, allacciare, stringere, scolpire, lucidare, tagliare e svolgere attività da bottega. Chi riceve un oggetto e sa maneggiarlo, sa il suo valore e sa collocarlo, ha mestiere, appunto. E invece scrivere cosa restituisce, scrivere riesce a cesellare, a sminuzzare e abbellire? È vero che si traffica con le mani, e si batte e si ribatte, eppure, pensando per esempio a una scrittrice come Elsa Morante e i suoi quaderni di prova dove a mano scriveva, cancellava, strappava, macchiava e spostava, vedo quei movimenti, vedo quella stanza dove entrano le gatte e vedo quel mestiere. Quando penso a me, davanti al mio pc e con le mie cartelle mal organizzate, gialle e piccolissime, è come se finisse l’incantesimo, e mi sentissi solo una brutta copia di qualcosa che è esistito e ora s’è perso. Idealizziamo il mestiere di chi scriveva cento anni fa? Siamo troppo severi con l’oggi e coi nostri strumenti? Hai scritto di Penelope e della sua tela e m’è subito venuta alla mente Maria Lai e il mostrare tutte quelle trame, quegli orditi, quei fili lunghissimi che si cuciono sulle pagine. Pagine spesse, di carta e di stoffa e racconti orali che diventano lacci. C’è nelle scrittrici, credo, e nel loro mestiere, questa ancestrale impronta del tramare, dell’avere per secoli dedicato vita e fatica al filare dentro le case, al sentire tutte le storie di un mondo esterno, irraggiungibile, a immaginare quel mondo. Ho sempre sperato di imparare a cucire, ma poi le mani sono deboli, uso solo medio e indice e li sposto sui tasti a seconda delle lettere, anche in questo faccio economia di gesti e concretezza.

Cara Giulia,

cucire, ricamare, fare con le mani. Forse è per questo che ancora e ancora non resisto al richiamo della carta bianca, da scrivere, e ho sempre più quaderni di quelli che riuscirò mai a scrivere, proprio come ho più libri di quelli che riesco a leggere. E c’è questo spasimo del dover subito mettere sulla carta, ancora prima che sul foglio luminoso del computer, le parole quando vengono, per non perderle. Quadernini con gli angoli arricciati, eleganti e ineleganti, comprati ovunque quando non servono, e poi punteggiati di scritture storte, appunti presi al buio di un teatro o di notte senza accendere la luce o su un tram, che possono essere anche inizi, o forse no, e poi si ammucchiano, si infilano tra i libri, si addormentano nelle borse a loro volta addormentate negli armadi: e magari, che cosa ne sai, la frase perfetta è proprio quella che hai catturato e dimenticato. Un giorno farò una gran pulizia di quadernini, o forse no. Sotto, sempre, questa idea di rimandare, di lasciar passare avanti cose più importanti che probabilmente non lo sono, che sembrano così utili e probabilmente non lo sono: il quotidiano che supera e soffoca il possibile. (Giulia, impara a cucire adesso, è bello, è antico, è preciso, non va perduto. Io ho avuto attacchi furibondi di arti femminili attorno ai trent’anni, gli anni che hai tu adesso, e insomma, volendo so ricamare. Non lo faccio, però potrei). Mi viene in mente Louisa May Alcott, incatenata al suo senso del dovere tanto da rinunciare, con le spine nel cuore, alle sue amate storie gotiche un po’ sghembe e tanto strane, come quelle che scrive Jo in Piccole donne: magari non le venivano benissimo, però la divertivano immensamente. Ma no, certo che no, non poteva divertirsi: doveva guadagnare, e in fretta.

 

Cara Beatrice,

purtroppo il massimo grado di manualità che ho raggiunto negli anni è una misera capacità di rammendo, se si creano buchi o si staccano bottoni so fare dentrofuori e fuori-dentro in maniera storta e imprecisa, per non dover buttare una maglietta e non lasciare sola un’asola. Ma è più un porre rimedio che un saper creare.

Prometto che tenterò, un giorno quando mi fermerò un attimo, a imparare a cucire davvero, a trasformare la stoffa in abito rifinito. A proposito di Louisa May Alcott che tu conosci e ami, e anche di molte altre scrittrici: com’era per loro la scrittura? Siamo noi che oggi cerchiamo la purezza, ci siamo intestardite che scrivere sia cosa sacra e più s’avvicina al denaro più si rovina o anche prima queste donne erano considerate scribacchine invece che autorevoli autrici proprio perché scrivevano tanto e lo facevano per soldi? Me le immagino spesso chine e piegate sulle carte, speranzose di vendere racconti e articoli alle riviste, alla ricerca di qualche editore che permettesse loro di resistere un altro anno, sostenere la famiglia per una stagione. Mi viene in mente anche Mary E. Wilkins Freeman, scrittrice americana coeva di Alcott ma meno celebre, che a causa dei problemi economici di famiglia iniziò a vendere le sue opere fin da ragazzina. Mary scrisse senza sosta, lavorando ai suoi testi anche per dieci ore al giorno, mentre conviveva con l’amica omonima, Mary Wales. Poi a quasi cinquant’anni l’idea di sposarsi e un matrimonio terribile che ridusse l’ispirazione, rallentò quel fluviale lavorio e la costrinse a sostenere l’alcolismo del marito con quel poco che riusciva ancora a scrivere. Mi domando se la scrittura come produttività continua diventi un sacrificio d’intelletto insostenibile, ma anche vedo in queste donne e nella loro scrittura uno slancio possibile nel mondo, per chi come loro, a quei tempi, di occasioni a vivere ne aveva poche. Non posso che intenerirmi al pensiero che tutta una famiglia dipendesse da una ventenne autrice di racconti fantastici, fissa al suo scrittoio e lucida nei conti e nelle trame.

 

Cara Giulia,

erano tante, sì, le donne operose, lucide ed energiche disposte a ripiegare gli slanci artistici per lasciar correre vene più facili. Forse sentivano oscuramente che era già un tale privilegio avere un mestiere (ecco che torna), essere autonome, poter reggere famiglie allargate sulle loro spalle, concedersi il lusso della generosità; o forse era il caro buon vecchio spirito di sacrificio a spingerle verso la scelta del guadagno e il sacrificio dell’arte senza troppe esitazioni. Penso a Frances Hodgson Burnett, la signora de Il Piccolo Lord, de La Piccola Principessa, de Il Giardino segreto, che si sentiva una macchina da scrittura, ma proprio grazie alla sua penna veloce e adattabile passava dal teatro al romanzo al teatro e aveva successo e col successo otteneva tutto il denaro che le serviva per mantenere uno dopo l’altro i due mariti (un medico, un attore) con le loro ambizioni, i figli, ovviamente, e tutta una corte dei miracoli fatta di parenti spiantati e vecchiette bisognose. Tutto questo le costava tantissimo in termini di stanchezza – e se lo chiede, a un certo punto: ma nessuno pensa mai a me, a quanta fatica faccio? Perché nessuno vuole sapere come sto? Perché a nessuno interessa se sono felice? Vogliono solo che scriva, tutti. E ci immaginiamo questa folla avida di bambini ricciuti vestiti di velluto blu, editori affannati, attrici in cerca di un buon copione, tutti golosi di quelle pagine. E lei che scrive scrive scrive, consegna, manda in stampa, fa trattative, balza su un transatlantico per fare un salto a Londra, poi torna indietro, senza mai smettere di scrivere. Io la vedo placata e tranquilla solo quando può affondare le mani nella terra, tagliare rose, strappare erbacce, piantare bulbi, spettinata, un po’ sporca, un po’ selvatica.

 

Cara Beatrice,

mi viene da tornare su quei taccuini, sulle pagine dimenticate nelle borse al fondo degli armadi. Penso ai tuoi, già incuriosita dalle copertine, dalla calligrafia, dalla maniera disordinata o precisissima di distribuire le parole sulle righe. Quanti sono e dove si trovano? Sono raggiungibili? Di sicuro contengono pietre preziose, piccole, colorate, luccicanti, tutte intagliate dalle lettere a penna.

Una scrittura, quella a mano, che invece io uso raramente, solo per gli appunti, per le conferenze o i seminari, per tenere traccia di elenchi, citazioni, eventi, ma che non riservo mai alla scrittura di racconti. Sono così abituata a cancellare le parole con rapidità, a poterle riposizionare, estrarre, senza sforzo e con ordine grazie al pc, che immaginarmi a uno scrittoio con il pennino, come queste autrici, a dover scrivere e riscrivere, trascrivere, rimettere in sequenza, le dita sporche di inchiostro – quello per cui Jo si fa sempre riconoscere – e i vestiti pericolosamente destinati alle macchie e alla rovina, mi pare assurdo e insieme dolorosissimo per me, qualcosa che mi spezzerebbe a metà, mi farebbe desistere (per non parlare dell’impazienza, sono sempre impaziente di scrivere, di vedere le pagine formarsi, esistere). Però lì vedo anche il mestiere, il tracciare e ritracciare, spostare fogli, accumularli, gettarli e sceglierli. Vedo le ore che scorrono e i pavimenti che si riempiono di pagine da correggere e da considerare una dietro l’altra, come mappe del tesoro, come pezzi di una composizione da perfezionare. Forse per questo le case e poi le stanze di scrittori e scrittrici mi hanno sempre affascinata, costretta a guardare per provare a capire, perché tutto quel tramestare di carte e di pennini, quel passare le notti al lumino per concludere i manoscritti, consegnarli in tempo all’editore è lontanissimo da me e insieme anche familiare, comprensibile, mio.

 

Cara Giulia,

una volta Olga Tokarczuk ha raccontato che la struttura de I vagabondi è nata contemplando dall’alto una marea di racconti posati sul pavimento tutto intorno a lei per cercare un ordine possibile. Sarà vero? Non sto dubitando di lei, sto dubitando della mia memoria. Credo che l’abbia raccontato. E se lo credo, da qualche parte dev’essere vero. Forse è solo che mi piace immaginare lo scrittore alto sul mondo, no, non lo scrittore, proprio lei, avvolta in uno di quei suoi vestiti senza tempo, in piedi sopra un tavolo, che agita le dita e a quel tocco, a quella vibrazione impercettibile che attraversa l’aria, i fogli che foderano il suolo si alzano, si muovono, si spostano, si confondono, ed è così che un libro potrebbe essere anche un altro libro e invece diventa l’unico libro possibile, con l’unico ordine giusto. E tutte le volte daccapo, questo fare nel disordine per cercare la strada, o anche solo la mappa. È sempre interessante ascoltare gli scrittori che spiegano come lavorano anche se poi non dice nulla di sostanziale su di loro, sono vezzi, abitudini, piccole manie: però ognuno ha le sue, e sono tutte speciali. È la faccenda del pane e del panettiere (Singer, forse, ma può anche essere una di quelle false attribuzioni, chissà): il pane è buono e ne abbiamo bisogno, la storia del panettiere non è importante. Però. Una volta in un incontro hai detto una cosa piccola ma importantissima, la cura che ci vuole per evitare di affezionarsi a certe parole desuete, perché sono presenze fortissime, e se le usi più di una volta in uno stesso libro è come se urlassero, si sentono troppo, bisogna andarle a cercare e avere la forza di sopprimerle. Quante cose si buttano via scrivendo e riscrivendo, che bellissimo spreco. Per tornare all’inizio e chiudere cerchi, mi sembra che in questo sia rimasto tanto del fare quotidiano delle donne prima di noi, il ripetere gesti solo in apparenza inutili che invece creano una trama, danno la forma ai giorni.

 

Cara Beatrice,

se mi penso mestierante in effetti mi vedo intenta a fare una delle cose che preferisco e cioè scegliere le parole e poi controllarle, capire quante volte le ho usate e dove, limitarle a certi punti, analizzarne le fragilità, i momenti in cui vengono meno e non funzionano, ma soprattutto, come hai ricordato, provare a dosarle, in particolare quelle meno usuali, che se le incontri una volta illuminano la frase, se le trovi due o tre volte già perdono quel bagliore, si affievoliscono e diventano pallide, quasi comuni. Per chiudere i cerchi forse mi sento di dire che in questo tramestare con le parole, nel non accontentarci mai di come le usiamo, possiamo dire che rimettiamo bottoni e rammendiamo maniche scucite. Ecco, non credo potrei spingermi oltre, ma nei movimenti che so fare – o se vogliamo che tento di fare – il filo passa nella cruna dell’ago e l’ago entra ed esce dalla stoffa e disegna la sua linea di riparazione, ricuce, sistema, avvicina lembi prima lontani (non fanno questo pure le parole?) e tutto sommato lavora.

Giulia Caminito (Roma, 1988), scrittrice. Laureata in Filosofia politica. Ha esordito con il romanzo “La grande A” (Giunti, 2016), seguito da “Un giorno verrà” (Bompiani, 2019) e da “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani, 2021), finalista al Premio Strega e vincitore del Premio Campiello 2021.

Beatrice Masini (Milano, 1962), scrittrice, traduttrice e direttrice editoriale di Bompiani. Tra gli altri, ha tradotto cinque libri della saga di Harry Potter (Salani) e ha pubblicato “Bambini nel bosco” (Fanucci, 2010), primo romanzo per ragazzi finalista al Premio Strega. È in libreria con “Louisa May Alcott” (Giulio Perrone).