Quante pagine le servono per dire se un libro che sta leggendo è brutto?
«Onestamente, si capisce anche solo da un paragrafo». Non importa che abbia fatto buttare un’ora a Zadie Smith in una conversazione che lei non aveva voglia di fare e che non vedo perché voi dovreste aver voglia di leggere. Importa solo che d’ora in poi, a tutti i petulanti che obiettano che non si possa dire che una porcheria è una porcheria se non se ne è letto fino all’ultimo rigo, potrò dire: Zadie Smith mi ha dato il permesso di decidere a pagina 1.
Riguardo alle interviste, ci sono due scuole interpretative: una dice che la loro riuscita sia merito degli intervistatori, e quindi di essi la colpa se vengono una schifezza; l’altra che dipenda tutto dagli intervistati. Una cosa però è incontrovertibile: solo per una delle due categorie di esseri umani si usa il verbo «concedere». La posizione di inferiorità di colei – io, in questo e in altri casi io – cui l’intervista viene graziosamente concessa da chi, implica il verbo, avrebbe ben di meglio da fare che stare qui a sentire sciocche domande con le risposte alle quali finire sul tuo stupido giornale, la posizione di inferiorità mia rispetto a Zadie Smith, non fosse data dalla sua maggiore fighezza, dal suo maggiore successo come scrittrice, dal suo essere Zadie Smith, la posizione è evidente, e viene ribadita dalla treccia, dalle non domande, dagli occhi al cielo, dall’educata insofferenza.
È una mattina d’ottobre, e Zadie Smith ha i capelli raccolti nella treccia di chi non aveva voglia di pettinarsi, ed è ovviamente struccata. Dicono che Zadie detesti il trucco, che vieti anche alle figlie di truccarsi, dovrei chiederle se è vero e se sia il vantaggio d’essere così sventole, essere meglio con la treccia e la faccia lavata di quanto sia io qui col mio inutile fondotinta e la mia inutile messinpiega, fare del proprio non aver bisogno di pittarsi la faccia una posizione ideologica. Non glielo chiedo, come succederà con altre cento domande imbecilli che mi ero baloccata con l’idea di formulare: Zadie Smith ha la capacità, quando stai per fare una domanda imbecille, di farti vergognare prima ancora che tu possa formularla – il che è un dramma, perché senza domande imbecilli le interviste non vanno da nessuna parte.
Non glielo chiedo perché mi ricordo di Lou Reed e di Tricarico, cioè di due delle volte in cui la giovane me si mise a piangere perché gli intervistati le avevano fatto capire che le sue domande erano veramente troppo imbecilli, e mentre con Lou Reed era normale e raccontarlo significava sentire qualche
«uh, non sai come ha trattato me», vi assicuro che dire «mi sono messa a piangere nel camerino di Tricarico» non ti faceva sembrare normodotata neanche più di vent’anni fa, quando ebbe luogo quella deliziosa scenetta e coloro cui la raccontavo strabuzzavano gli occhi chiedendo se veramente mi fossi messa a piangere davanti a quello che cantava «Puttana la maestra», il verso che l’aveva reso popolare per qualche mese in un’epoca in cui ancora non avevamo inventato l’accusa di slut shaming.
Quando si collega da una stanza con le pareti rosse della sua casa di Londra, una stanza in cui, dietro al tavolo su cui poggia l’attrezzo che la inquadra, intravedo qualcosa che potrebbe essere un divano letto, una stanza della quale non oso chiederle se sia la stanza tutta per sé e se non sia superatissimo il concetto di stanza tutta per sé in un secolo in cui puoi essere una scrittrice di maggior successo rispetto a tuo marito, quando si collega Zadie è tornata da pochi giorni da un tour promozionale che è passato anche dall’Italia. L’hanno intervistata tutti, e a un certo punto dei suoi alzare gli occhi al cielo penso a Franca Valeri.
Andai a intervistare Franca Valeri qualche settimana prima che compisse 99 anni. Era una signora con vari acciacchi, e per tutto il pomeriggio non sapevo mai quando parlare: la Valeri esitava, si fermava, non sapevi se non trovasse la parola, se si fosse dimenticata cosa stava dicendo, se le stesse venendo un coccolone, se fosse il caso di passare a un’altra domanda o di chiamare qualcuno a soccorrerla. Le interviste uscite prima e dopo la mia erano tutte dei brillanti botta e risposta, senza alcuna esitazione: raccontavano una Valeri che non era quella che avevo incontrato io, raccontavano una Valeri che non esisteva più da chissà quanto. Le conversazioni con Zadie Smith scritte mentre era in Italia sono tutte lineari, cordiali, per niente somiglianti alla tizia che sta di fronte a me in questa stanza rossa a qualche migliaio di chilometri: è che a Zadie piacevano di più le loro domande («ma nel suo libro c’è Dickens!», pigolavano quelle, e a leggere quelle interviste pare che lei pronta confermasse che sì, è uno dei personaggi della storia, e non le sembrasse affatto una non domanda non particolarmente brillante), o è che se ti concedono un’intervista poi pare brutto raccontare che non avevano gran voglia di parlarti, almeno quanto pareva brutto riferire che la Valeri novantanovenne non avesse più la sveltezza d’un tempo?
A un certo punto della nostra conversazione, Zadie dice che i libri ognuno li legge come vuole, ma per lei L’impostore è un romanzo che parla di schiavismo. Io, vile, non le dico scusi ma lo schiavismo arriva a due terzi, prima ci sono almeno altri due romanzi, il che fra l’altro complica moltissimo la lettura in tempi non esattamente amanti della complicazione. Dopo, in pieno esprit de l’escalier, mi verrà in mente che la nostra era una conversazione in cui io ero William Ainsworth – ex scrittore di successo divenuto scrittore scarso, uno per il quale la morte d’un amico è una disgrazia ma mai quanto il successo d’un amico – e lei era Eliza Touchet, cugina, governante, ex amante, comunque molto più sveglia di lui. Se Eliza non alzava così spesso gli occhi al cielo, era perché duecento anni fa, quando è ambientato L’impostore, esistevano le classi sociali, e lei era la governante, mica quella che aveva concesso l’intervista. Lì per lì mi ero limitata a dirle che leggendolo avevo pensato a L’informazione, insuperato romanzo di Martin Amis sulla rivalità tra uno scrittore bravo e uno no. Mi aveva risposto che non lo legge da una vita, e che L’impostore è pieno di crimini, ma William almeno da questo va assolto, «non avere talento mica è un crimine». Avevo avuto la tentazione di guardarla come Travis Bickle guardava lo specchio in Taxi Driver, e di chiederle se stesse parlando di me. Poi non l’avevo fatto: mi ero persino truccata, volevo disperatamente piacerle, sarà capitato anche a voi.
Dicono che Zadie Smith sia tornata a vivere a Londra perché a New York la scocciavano per il suo non essere abbastanza woke, e in effetti questo romanzo è stato recensito dal New York Magazine con un pezzo assurdo in cui la si accusa di non essere abbastanza identitaria. Le dico che ha vissuto nella città più woke del mondo, New York, dopo aver vissuto in quella che lo è meno, Roma. Mi risponde «Non so di cosa parli, trovo che i romani fossero persone molto interessanti». Sta facendo finta di non sapere cosa s’intenda con «woke»? O il mio inglese fa così schifo che l’ha scambiato per un altro aggettivo? Non lo saprò mai, perché dell’atteggiamento poco rispettoso delle ortodossie di Zadie Smith volevo parlare da quando avevo letto un suo strepitoso saggio su Tár sulla New York Review of Books, ci contavo, e quindi neanche mi rendo conto, se non quando riascolto la registrazione, che mi ha detto «New York è una città in cui la differenza la fanno i soldi, mica l’essere woke», e valeva la pena raccogliere questo punto, ma ho smesso d’essere lucida: questo è il momento Niccolò Fabi.
Venticinque anni fa lavoravo in un programma radiofonico nel quale mi trattavano come la figlia della schifosa, e un giorno mi dissero va bene, ti diamo un’occasione, Fabi lo puoi intervistare tu. Siamo nello studio, tra trenta secondi s’accendono i microfoni, e io dico qualcosa sulla sua laurea, se c’eravate venticinque anni fa lo sapete: era impossibile leggere cinque righe su Fabi senza che venisse citata la sua laurea in filologia romanza. Niccolò sbuffa: no, senti, la laurea no, non me lo chiedere, non se ne può più, ne ho parlato ovunque. E io improvvisamente non ho più un argomento che sia uno, e quando si accendono i microfoni balbetto, panico, senza filologia romanza non so dove andare.
La filologia romanza di Zadie Smith è il suo non avere un telefono collegato all’internet: non c’è un’intervista in cui non gliene parlino, e non mi sembra neppure così strano. Se intervisti qualcuno che guarda la tv in bianco e nero, o gira in calesse, o si scalda bruciando elenchi telefonici nel caminetto, vale la pena parlarne.
Le chiedo se oggi potrebbe nascere una Zadie Smith, oggi che della letteratura non ce ne frega niente o quasi, che tutto ciò che è vagamente stratificato e richiede attenzione non vende. Non le dico: compreso questo suo libro. Mi risponde che non è vero, «io continuo a leggere libri incredibili, c’è sempre un pubblico che vuole leggere». Le dico ma io non parlavo della possibilità di scrivere, parlavo di quella di farne una carriera. Mi dice «Mah, io non è che pensi all’editoria così tanto». Le dico che magari se avesse vent’anni oggi diventerebbe una TikToker. Non ride.
Le dico che questa cosa di lei che è l’unica al mondo a fottersene di tutto ciò che è social è un tema, e lei dice che non capisce cosa ci sia di interessante: «Siete adulti, è una scelta alla vostra portata, se volete farla. Se non v’importa di quel che questi aggeggi fanno al vostro cervello e alla democrazia, prego. Ho avuto un iPhone per due mesi nel 2008, ed è stato subito chiaro che creava dipendenza, è ovvio per tutti, non sarete così infantili da pensare che ve lo debba spiegare io, nel 2023. Fate delle domande a voi stessi, invece di farle a me da dieci anni. Datevi una svegliata».
È chiaro che qualcosa va storto, in questo scambio, perché da qui in poi mi sembra convinta che io le abbia detto che tutti scrivono del suo non essere connessa solo perché non mi è venuto in mente un modo meno subdolo per introdurre il tema. Le chiedo se il passaggio su quelli che scrivono lettere al Times perché sono infelici sia, come mi sembra siano molti passaggi del romanzo, un modo per parlare del presente parlando dell’Ottocento. Fa spallucce: «Non è un’evoluzione tecnologica, la gente è sempre stata motivata più dall’infelicità che da altro». Le chiedo del punto del romanzo in cui muore Charles Dickens, e la gente è triste perché il Times le ha detto di essere triste, esattamente come le ha detto cosa vada di moda indossare; azzardo un paragone col lutto collettivo per la morte d’un attore di Friends, e lei risponde come se stessi cercando di venderle l’abbonamento a un pacchetto dati: «È proprio questo il punto, io non voglio andare on line e ritrovarmi con le emozioni manipolate, voglio avere le emozioni che ho. Tutti siamo influenzati da molte cose, e io lo sono dalla mia comunità, dai giornali, dai libri: non voglio esserlo da quello. Non ho nessuna intenzione di sopportare un’influenza del genere». A quel punto, visto che continua a parlare d’un tema del quale si dice scocciata le si chieda, le domando se capisca perché la sua è un’astinenza che risulta interessante a noialtri normali. «No, non lo capisco. Non capisco perché, dopo quindici anni di questa roba, milioni di persone istruite non decidano di cambiare le cose. Capisco quando parlo con mia figlia di tredici anni che non ha mai conosciuto un mondo senza, ma ogni giorno parlo con cinquantenni di tutta Europa che non sanno vivere senza un telefono con sopra le cartine stradali».
Provo a chiederle di Tár, di quel saggio in cui mi sembrava troppo generosa coi ciucci arroganti studenti nel film. Lei dice che mica può disprezzare la generazione dei suoi figli, dei suoi allievi, vivono in un costante senso di imminente fine del mondo, per noi è impossibile immaginare la crescita in un contesto simile. Dico ma Chernobyl, ma l’Aids – niente. Mi elenca una sleppa di disgrazie dei giovani d’oggi, dall’11 settembre al Covid, e quindi non so più di chi stia parlando: delle sue figlie o dei trentenni? Le dico che forse è l’avere dei figli che ti cambia. Mi risponde che tutto ti cambia. Forse ogni generazione pensa di vivere il peggiore dei tempi possibili. «Sì, lo hanno prima o poi pensato tutti, ma loro hanno ragione a pensarlo».
Forse è in questo momento che capisco che non diventeremo migliori amiche. Perché, in un lungo repertorio di interviste fallimentari, mi sono sempre illusa, tenace nella mia mitomania, che sarebbe stato l’inizio di una bella amicizia. Persino quella volta che Halle Berry rivolse il muto sguardo «questa me la cacci» a uno dell’ufficio stampa, e la conversazione finì prima di cominciare. Persino quella volta io uscii dalla stanza lentamente, certa che mi avrebbe inseguita capendo tardivamente che era pazza di me. Persino oggi, quando Zadie mi dice che no, non tiene un diario, «e non ho mai capito dove trovino il tempo quelli che lo fanno», o che se invece che un romanzo storico avesse scritto un’autofiction non sarebbe stata più vera, «è solo un espediente retorico, se i lettori pensano che quella sia la realtà sono ingenui», persino qui e ora io sto pensando: ma come fa a non capire che siamo anime gemelle?
Decido di leggerle dei passaggi del libro riferiti a William o a Eliza, e di chiederle se assomigli alle descrizioni che ha dato dei suoi personaggi. Le spiego che me le sono annotate, temendo che reagisca come i cantautori quando gli chiedi di spiegarti i testi, ma acconsente graziosamente. Dopo avermi concesso l’intervista, mi concede le citazioni. La devasta il successo degli altri? «No, ne ho avuto da talmente giovane, forse quando finirà diventerò come William». William è sempre grandemente soddisfatto di ogni riga che scrive. «No, questa decisamente non sono io». «Facile al riso, suscettibile alla bellezza» sono le prime parole con cui descrive Eliza.
«Sì, questo mi corrisponde». E quando Eliza ha paura d’essere troppo intelligente per gli altri? «No, io non sono un’intellettuale, scrivo romanzi, li possono leggere in molti, scrivo cose facili, in una lingua normale». La differenza tra uno scrittore e un intellettuale è quindi l’accessibilità della scrittura? «Non lo so, se vuole dire che sono un’intellettuale va bene, ma non scrivo per i circoli intellettuali». Ma mica esistono più: stiamo tutti su Instagram, tranne lei. Non ride.