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Militante contro lo scandalo del male

L’educazione cattolica terrificante e la fede cieca nel maoismo. La famiglia come un manicomio in miniatura, il suicidio del fratello Camillo, l’arte e la politica, i rimorsi e l’uovo fritto di Moro. Conversazione con Marco Bellocchio, il grande regista che ha liberato sé stesso

Alle pareti degli uffici della società di produzione in cui lavora, a Roma, Marco Bellocchio ha i quadri che ha dipinto quando aveva meno di vent’anni. “Sono tutte tele che risalgono alla fine degli anni Cinquanta, dipinte poco prima che mi trasferissi in questa città”, dice accompagnandomi da una stanza all’altra per farmele vedere da vicino. Sono scene della sua vita a Piacenza, tra la fine dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza, da Bellocchio trascorsa in quello che chiama un “manicomio in miniatura” e invece i biografi chiamerebbero “la sua famiglia”. In un quadro si vede un bambino disperato accasciato sulle gambe di una donna seduta, sovrastata da un’altra donna in piedi, senza occhi, senza orecchie, senza bocca. “Questa è mia madre”, dice, “mentre le figure tutt’intorno dovrebbero essere le mie zie o comunque mie parenti”. In un altro quadro, lo stesso bambino, diventato ragazzo, è seduto da solo alla parete di una stanza al cui centro c’è un catafalco. “Sono io dopo il funerale di mio padre”. In un altro ancora appare il fratello schizofrenico, trasfigurato “nell’idiota di famiglia”.

Alle stesse pareti ci sono alcuni manifesti dei film che Bellocchio ha girato nel corso della sua carriera. Tra cui l’esordio folgorante del 1965, I pugni in tasca, quando, appena ventiseienne, scandalizzò l’Italia mettendo in scena un matricidio. Il Traditore, nella versione sottotitolata per il pubblico giapponese, dove la famiglia è la base del crimine organizzato e mafioso che il film racconta. Il poster del bellissimo Marx può aspettare, inclassificabile film documentario in cui s’interroga sul suicidio del proprio fratello gemello, Camillo. E visti così, gli uni accanto agli altri – i quadri, i manifesti e l’uomo incredibilmente vitale di oggi –, si ha l’impressione che il cinema per Bellocchio sia stato anche parte di un incessante lavoro di liberazione di quel bambino dai fondali in cui era affondato al tempo di quei quadri, e che sia quel bambino, oggi libero, a illuminare di giovinezza il volto di quest’uomo di 83 anni, e una freschezza artistica stupefacente.

“Da allora non dipingo più”, dice Bellocchio. “Disegno solo quando sento la necessità di dare concretezza a un’immagine che ho in testa, cioè per fini esclusivamente pratici. I miei film nascono spesso così: da un’immagine che non riesco a togliermi dalla testa”. Quando questa intervista finisce, Bellocchio da uno scatolone tira fuori un libro. “Tenga. E’ appena arrivato”. E’ un volume che raccoglie le sceneggiature originali e i materiali di studio del suo ultimo lavoro, Esterno notte, la serie in sei episodi sul rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, uscita al cinema a maggio in due parti e andata in onda su Rai Uno la scorsa settimana. Sulla seconda pagina della sceneggiatura c’è il disegno di Aldo Moro convalescente in un letto d’ospedale. Intorno ci sono: Andreotti, Cossiga, Zaccagnini. E’ la scena iniziale del film. La fantasia di Moro liberato dalla Brigate rosse, già messa in scena vent’anni fa in Buongiorno, notte, stavolta prosegue sino a immaginare le facce terrorizzate dei democristiani di fronte al presidente del proprio partito scampato alla condanna a morte.

“La parte più difficile di un film è il passaggio dalla fantasia alla realtà di ciò che hai immaginato. Scegliere gli attori giusti per il ruolo, i luoghi in cui ambientare le scene. La fantasia di un regista ha un obbligo di concretezza che un romanziere, un poeta, un pittore non hanno. Qualcosa che ti obbliga a confrontarti con tutto ciò che non sei tu. Si entra in una zona d’ombra, che ti mette di fronte al problema dell’incarnazione. Dare corpo alle immagini che nascono nella tua mente, dal nulla. Una volta trovati i corpi, i luoghi, non dico che diventa tutto più facile: ma tutto diventa possibile”.

Dopo la serie su Moro, Bellocchio sta completando un film sul caso di Edgardo Mortara, un bambino ebreo bolognese che a metà dell’Ottocento fu battezzato dalla domestica che lo credeva in fin di vita, per salvargli l’anima, ma poi sopravvisse e venne strappato alla famiglia dallo Stato Pontificio, le cui leggi non permettevano che un bambino battezzato rimanesse nelle mani di non cristiani. “Devo girare ancora poche scene, manca circa una settimana di riprese”. Quel bambino poi diventerà sacerdote e prenderà il nuovo nome di Pio. Il film si chiamerà La conversione e racconterà – dopo quello di Moro – un altro rapimento.

Lei è mai stato ostaggio di qualcuno o di qualcosa?
Da bambino sono stato ostaggio di un’educazione cattolica terrificante che mi è stata imposta in famiglia. Le fiamme dell’inferno, la dannazione, un intero universo di spavento. In seguito sono stato ostaggio, ma volontario, di una fede politica, il maoismo dell’Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti. Avevo preso alla lettera l’idea di servire il popolo, sacrificando al suo altare me stesso, il borghese da emendare dalla colpa di classe. Avevamo i nostri dogmi, le nostre scritture sacre, i nostri profeti, i nostri capi a cui essere devoti. Predicavamo la rivoluzione proletaria e la palingenesi attraverso la violenza operaia. A volte soffocavo il senso del ridicolo che provavo di fronte ai leader che scimmiottavano i tic dei grandi apostoli del marxismo. Lo attribuivo al residuo borghese che rimaneva in me. Un credo politico totalizzante.

Quando fu rapito e ucciso Moro però era uscito.
Nel 1969 mi tirai fuori. Ero ancora di sinistra, ma niente più gruppi o gruppetti. Ero convinto che la raffinatissima arte del compromesso e della diplomazia italiana l’avrebbero alla fine salvato. Quando lo uccisero rimasi stupito. Mi spiacque. Come spiacque all’Italia intera. Anche quella di estrema sinistra. Il giorno in cui Moro fu rapito, la sua scorta uccisa, ci fu gente che esultò. E’ documentato che l’Italia fu percorsa anche da un sinistro moto di giubilo. Quando le Brigate rosse lo assassinarono, invece, nessuno aveva più in animo di festeggiare nulla.

Suo fratello Piergiorgio ha scritto che i brigatisti erano vostri compagni, perché avevate la stessa cultura.
E’ così. Anche Rossana Rossanda parlò dell’album di famiglia del comunismo italiano. Lì per lì non avevo capito bene cosa intendesse dire. In seguito capii che aveva terribilmente ragione. C’erano delle differenze enormi tra i gruppi e i brigatisti. Ma c’era in comune un linguaggio, uno schema con cui filtrare la realtà. Tanto che i brigatisti rivendicavano di avere avuto finalmente il coraggio di passare dalle chiacchiere – che avevamo fatto tutti – ai fatti.

Si sente responsabile, indirettamente, di aver alimentato, anche se solo con le parole, la violenza che arrivò a colpire anche Moro?
No, questo no. Sia perché ero uscito dall’Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti da quasi dieci anni, sia perché c’era una distinzione molto netta tra la violenza proletaria di cui anche io mi ero riempito la bocca – fantasticando un’enorme sollevazione popolare – e il terrorismo clandestino che le Brigate rosse misero in atto. Mi sono rimproverato semmai altro. Aver firmato l’appello degli intellettuali contro il commissario Luigi Calabresi, dove si diceva che la responsabilità della morte dell’anarchico Pinelli era sua.

Si sente responsabile che qualcuno lo abbia poi ucciso?
Non responsabile. Mi sono rimproverato, anni dopo, la superficialità con la quale ho sottoscritto quella lettera, firmata da centinaia di politici, giornalisti, intellettuali, artisti, anche insospettabili, contro un uomo che è finito per essere assassinato.

Il suo film non cerca una verità storica.
Anche perché una verità storica esauriente sul rapimento e l’omicidio di Moro non c’è. Mario Moretti mi ha raccontato come hanno ucciso Moro. Eppure anche su questo sono stati scritti libri che mettono in dubbio la veridicità della sua testimonianza. Noi abbiamo letto tutto quello che potevamo leggere. Abbiamo cercato di sapere tutto quello che potevamo sapere. Però poi t’imbatti in dettagli minimi che aprono un varco imprevisto nell’intimo dei personaggi che hanno incarnato la linea della fermezza e anche di quelli che l’hanno subita. Andreotti che promette di non mangiare più gelati fino alla liberazione di Moro. Moro che torna a casa e di notte, solo, si frigge un uovo, ascoltando il giornale radio. Cossiga che nei picchi depressivi si ripara dentro uno stanzino. Storicamente e politicamente sono dettagli insignificanti. Cinematograficamente, invece, sono tutto.

A lei è mai capitato di lottare con tutte le sue forze per la sopravvivenza, come Moro?
Io sono nato durante la Seconda guerra mondiale e sono cresciuto nel Dopoguerra in una famiglia borghese. A casa mia c’è stata sempre una questione di sopravvivenza – non materiale, ma emotiva. In casa non c’era molto amore. C’era mio fratello malato di schizofrenia, mio padre morto quando avevo 16 anni, un’educazione cattolica opprimente. Ognuno di noi ha lottato con tutte le forze per non finire schiacciato dalla pazzia, dalla depressione, dall’angoscia. In definitiva, per non finire come mio fratello Camillo, che si è ucciso a ventinove anni.

Lei perché ce l’ha fatta?
L’attrazione per l’arte – la poesia, la pittura – mi ha spinto fuori di casa. Poi c’è stato il cinema e la politica. Quando il sogno rivoluzionario è finito con il fallimento, ho iniziato una rivolta esistenziale. Ho intrapreso prima una psicoanalisi tradizionale, poi, qualche anno dopo, la psicanalisi collettiva di Massimo Fagioli. Mi sono ribellato alla malattia, ho lottato per non rimanere prigioniero delle mie nevrosi, delle mie fragilità, delle mie debolezze, dei miei limiti. Una militanza assoluta.

L’analisi collettiva di Massimo Fagioli è vista ancora con sospetto.
A lungo mi ha separato dal mio mondo, quello del cinema. In molti non capivano quello che stavo facendo. Credevano che insieme a Fagioli mi stessi suicidando artisticamente. Invece, io non ripudio niente. Ho dedicato a Fagioli Diavolo in corpo, ho girato Il sogno della farfalla, un film da lui scritto. Il rapporto tra noi si è sciolto quando il percorso si è concluso.

Lei aveva iniziato da attore.
Sono nato e morto rapidamente come attore. Ho sofferto di un’improvvisa afonia e subito mi sono arreso.

Cos’altro poteva fare?
Una volta Vittorio Gassman mi raccontò che all’inizio della sua carriera la sua voce era diversa da quella che tutti noi oggi conosciamo, così vasta che si spandeva magicamente dappertutto. Aveva, invece, una voce striminzita, più prossima al falsetto che al baritono. In altre parole, Gassman la sua voce se l’è costruita da solo, lavorando giorno dopo giorno, perché voleva essere attore a ogni costo. Mentre io non ho lottato un attimo. Ho lasciato subito perdere.

Perché?
Per carattere. A sedici anni avevo una voce piena, cantavo le romanze in una piccola orchestra di provincia. Poi improvvisamente la voce mutò. Il foniatra mi consigliò di tenerla a riposo il più possibile. E a un certo punto mi prescrisse di tacere e basta. Il cambiamento della voce corrispose anche a qualcosa di più intimo, un cambio di carattere: quanto prima ero spavaldo ed esibizionista, quanto dopo divenni introverso e solitario.

Ha il rimpianto di non aver fatto l’attore?
No. Avrei potuto farlo, se avessi voluto. Avrei potuto fare il protagonista de I pugni in tasca, oppure ritagliarmi un altro ruolo in uno dei film che ho fatto in seguito. Sono un attore mancato, più che un attore fallito. Ero stato ammesso all’Accademia dei filodrammatici, a Milano, sia al Centro sperimentale di cinematografia, a Roma: sono stato io a decidere di cambiare indirizzo e sostenere l’esame per passare al corso di regia. Era necessario presentare un saggio critico e una sceneggiatura. Mio fratello Piergiorgio, che allora dirigeva i Quaderni piacentini, scrisse per me un saggio su Federico Fellini. Io scrissi una sceneggiatura fortemente autobiografica, Morte del padre. Andò bene.

Cosa ama nell’attore?
Provo una immensa ammirazione per un fenomeno che mi capita a volte di osservare. E’ una cosa che dura un attimo, ma è senza tempo. E’ il momento in cui un attore esce fuori da sé stesso ed entra nei panni del personaggio che interpreta. Diventa un altro. E’ altro. Lo si capisce dalla luce negli occhi. Ha abbandonato sé stesso. E abbandonare sé stessi è qualcosa che ha del miracoloso.

È possibile che lei non sia stato attore perché le era difficile liberarsi di sé?
I miei film sono spesso autobiografici, ma è una condanna che condivido con quasi tutto il resto dell’umanità. Ogni esperienza umana passa attraverso il filtro dell’io. Perciò liberarsi dell’autobiografia è impossibile. E poi a che servirebbe? In fondo, anche un attore è veramente grande quando, pur uscendo fuori di sé, è capace di dare al personaggio che interpreta qualcosa che è suo e di nessun altro.

A lei con chi è capitato?
Innanzitutto con Lou Castel. Lo avevo conosciuto alla mensa del Centro sperimentale di cinematografia. Non c’entravo nulla con quel ragazzo svedese nato in Colombia. Eppure ogni cosa che gli davo lui me la restituiva moltiplicata. La espandeva. Non parlava italiano molto bene. E questo era un problema. Ma nel furore del suo corpo c’era tutto quello che ci doveva essere ne I pugni in tasca. Recitò in italiano, ma la voce del film è quella di Raul Grassini, che lo doppiò.

Anche lei ha prestato la sua voce, dopo aver rinunciato a essere attore a causa della voce.
Varie volte.

In Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, per esempio, è sua la voce di Aldo Valletti, il Presidente.
Mi spiace aver dato la voce a un mostro, sentire quel pezzo di me che attraverso il personaggio ordina sevizie, esercita quella violenza brutale e gratuita. Salò è un film che non condivido. Sono estraneo alla sua visione del mondo. L’orrore, la violenza, il male: così radicale, così inappellabile. Anche in Dostoevskij c’è il male. Ma accanto c’è anche la possibilità di redenzione. In Salò, no. C’è solo il male.

Lei ha bisogno di sperare nel bene?
Oggi mi commuove Tolstoj. L’ho scoperto tardi. Ma sarà che mi identifico con lui perché sono diventato vecchio, però il suo scandalo per le condizioni dei poveri, il suo desiderio di ribellarsi alle ingiustizie che subiscono, in nome del riconoscimento della loro dignità, è un bene che non produce male. Non è lo stesso modo di avvicinarsi ai contadini che ha avuto Stalin, che, in nome della loro salvezza, è stato capace di sterminarli a centinaia di migliaia.

Era anche un uomo molto religioso, Tolstoj.
E io invece no.

Padre Fantuzzi sosteneva il contrario.
L’ho intervistato in Marx può aspettare, era un bravo critico della Civiltà cattolica. Credeva che tutto il mio cinema fosse una lunghissima confessione e che nel mio cinema ci fosse un profondo simbolismo sacro. Ma non mi ha convinto.

Perché?
Perché, come diceva mio fratello Piergiorgio, quando a un prete dichiari di non credere, allora lui desidera sapere che almeno tu voglia credere.

E lei non ha voglia di credere.
No. Ma non ho voglia nemmeno di doverlo proclamare.

Ma se ci fosse l’aldilà, lei chi vorrebbe rivedere?
Qui entriamo nel campo dell’impossibile, della pura poesia.

Ha qualcosa contro la poesia?
No, certo.

E allora?
E allora le dico che vorrei incontrare mio fratello Camillo. La tragedia del suo suicidio è stato il non essermi accorto, il non essere riuscito a vedere. E mi piacerebbe rivederlo. Abbracciarlo. Parlargli. Ma so che non potrà mai accadere. E se anche per poesia potesse succedere, non mi affretterei: ho ancora parecchie cose da fare, qui.

Nicola Mirenzi (Catanzaro, 1982), autore tv e giornalista. Il suo ultimo libro è “Nuove mappe del paradiso” (People, 2020), con Marco “Makkox” Dambrosio.