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Motel California

Il posto in cui si correva a cercare l’oro è diventato un cimitero di buone intenzioni. Stiamo guardando in anteprima la fine del sogno americano, o addirittura del sogno democratico? A caccia di un’altra speranza tra corsie preferenziali, affitti impossibili e la fatica di diventare adulti

La corsia di sinistra è sempre vuota. È la via di fuga dal traffico delle strade californiane: si chiama carpool lane, la puoi percorrere soltanto se in auto con te c’è almeno un’altra persona. Se sei da solo, prendi la multa. Mi ci sono buttata euforica, ho superato il limite di velocità, ho proposto a metà della mia famiglia di offrirsi come passeggero di sostegno alle decine di automobili ferme nell’altra corsia per portarle in salvo con noi: quando sei sulla carpool lane, ogni cosa è possibile, abolire il traffico, separarti dai figli, migliorare il mondo. Lo pensavano anche quelli che se la sono inventata, la corsia della salvezza: se fate i pendolari insieme sulla stessa auto si riducono costi e ingorghi, si risparmia tempo e ci sarà un beneficio per tutti. Ma la corsia preferenziale per chi viaggia in gruppo è pressoché vuota, le buone intenzioni del legislatore si sono scontrate con una pratica impossibile perché le distanze sono enormi, il tuo “vicino” che lavora nella stessa direzione e che potrebbe condividere l’auto con te spesso sta a molte miglia (trafficate) di distanza, bisogna darsi appuntamento presto e si arriva comunque tardi. Ancora peggio: la corsia vuota ha ristretto lo spazio per le altre corsie, aumentando il traffico per chi infine è costretto a viaggiare da solo.

La California è un cimitero di buone intenzioni e il suo straordinario successo economico e culturale l’ha trasformata in un posto invivibile, da cui tantissimi scappano. Costa tutto troppo, se guadagni centomila dollari l’anno sei povero, possedere una casa è un lusso, anche affittarla lo è, il radicalismo culturale è diventato punitivo per le stesse minoranze che vorrebbe difendere: il sogno californiano che abita il nostro immaginario è irriconoscibile. È forse un segnale più ampio che ci riguarda e che ha a che fare con lo stropicciamento non solo del sogno americano ma più in generale del sogno democratico? Detto altrimenti: la convivenza democratica è un bene deperibile, si consuma con il tempo, invecchia e muore?

L’ho chiesto a due californologi, Francesco Costa e Michele Masneri: Costa ha pubblicato da poco California La fine del sogno (Mondadori), che sta avendo molto successo; Masneri ha scritto un paio di anni fa Steve Jobs non abita più qui (Adelphi), che è diventato un piccolo classico. In modo diverso – Costa è spietato, Masneri è comprensivo – e con esiti differenti, hanno costruito in questo nostro epistolario il loro personale, vissutissimo processo alla California.

Francesco Costa – Comincerò con una banalità: non sarà che in California si sta bene soltanto in vacanza, o per periodi brevi? La dico meglio: non è che quando ci troviamo in California, il nostro sguardo è perennemente ingannato dal nostro entusiasmo, dal selezionato numero di esperienze a cui ci sottoponiamo o anche da quanto eravamo innamorati e felici quella volta in giro a Castro, lo storico quartiere di San Francisco? La California in quanto idea della California: tema esploratissimo. Anche perché l’immagine distorta racconta molto di noi, mi pare: e se la fissazione per la California dicesse molto soprattutto di quello che ci manca? Che siano la cultura o i locali, i ritmi delle giornate, i paesaggi, le persone. In generale la possibilità di immaginare una vita diversa. Solo che ora pensare di trovarlo in California, quello che ci manca, è diventato un bel po’ più complicato di prima.

Michele Masneri – La mia psicoanalista mi ha ricordato recentemente che quando stavo in California ero angosciato, e questo contrasta col ricordo che ne ho io come del periodo più bello della mia vita (essendo freudiana non accettava Skype ma voleva vere telefonate; se non ci siamo mai visti in faccia, lei in poltrona e io sul lettino, perché cominciare ora? Quindi scendevo, di notte, per il fuso, stavo nella Mission, il quartiere messicano di San Francisco, per le mie sedute settimanali, e a un certo punto i vicini latinos sapevano tutti i miei fatti, e si erano appassionati in finestra). Questo contrasto mi è tornato alla mente leggendo il libro di Costa che cita lo scrittore Rosecrans Baldwin, autore di uno dei migliori libri recenti su Los Angeles, Everything Now Lessons from the City-State of Los Angeles, e che ha descritto questa atmosfera come “la percezione che tutto possa succedere in ogni istante, cosa che a seconda della giornata mi provocava un senso di catastrofe imminente o di enorme speranza”. Era esattamente come mi sentivo io, ma forse perché la California oltre a essere un grande piano inclinato dove rotola prima o poi tutto quello che non ha un saldo ancoraggio a terra – secondo la celebre definizione di Frank Lloyd Wright – è molto lontana, molto diversa, diversa anche dall’America che consideriamo “casa”, un grande specchio delle nostre aspirazioni e dei nostri stati d’animo. È un posto dove si va per “essere”, ma si sparisce anche. È il posto dove sparisce il maggior numero di persone ogni anno, da sempre. È un luogo di passaggio, tutti ci si abita per un po’: sul lungo periodo gli effetti della California non sono scientificamente provati. Anche se i californiani dimostrano generalmente 20 anni di meno dei loro coetanei di altri posti e a parte lamentarsi in continuazione (che è parte integrante dell’essere californiano) chi resta di solito è felice.

Come scrive Masneri, buona parte dell’America è un luogo di passaggio: gli americani sono alla ricerca della felicità per Costituzione. Se dici: “Qui mi sento a casa”, loro non sanno di cosa parli. La California è anche una frontiera, ci si andava a cercare l’oro, lo si trovava pure, non si è mai smesso di considerare questo spicchio di estremo occidente come la terra dell’opportunità. S’è costruita la rivoluzione culturale degli anni Sessanta, s’è costruita l’industria cinematografica più grande e potente ed evocativa del pianeta, è partita l’ultima grande rivoluzione, quella tecnologica: vogliamo assaggiare e magari rubare il segreto della California. Timothy Snyder, storico americano di rara bravura, tiene delle lezioni a Yale su come nascono e si formano le nazioni, in particolare l’Ucraina (le carica su YouTube, sono un patrimonio dell’umanità): in una di queste, ha spiegato la deep geography, cioè come gli spazi geografici e la percezione che ne abbiamo siano condizionati dalle nostre emozioni, dalle nostre conoscenze o ignoranze, dalle parole, dagli scrittori che hanno ambientato le loro storie lì. La California è l’essenza di questa geografia profonda, e se è vero che il sogno che rappresenta è diventato inaccessibile, diventa cruciale capire come e perché si è consumato il tradimento.

Francesco Costa – Per almeno un secolo e mezzo trasferirsi in California è stato come partecipare al concorso per quelli a cui piace vincere facile. Il California Dream cosiddetto non è mai stato quello di chi arriva con due soldi e un’idea e riesce a diventare ricco sfondato, per quanto poi siano quelle le storie che fanno notizia, bensì quello di chi cercava un posto nella classe media: un lavoro, una famiglia e la station wagon sul vialetto. Per gran parte del Novecento in California si vinceva facilmente, anche senza essere ingegneri o avere tre PhD, anche venendo da luoghi in cui si era considerati troppo poveri o troppo strani per trovare una strada; e qualcuno ogni tanto diventava anche ricco sfondato. Come non esserne sedotti? Non abbiamo nemmeno parlato dell’oceano, del deserto, delle foreste di sequoie e delle palme. Solo che ora il gioco funziona sempre meno: vivere in California è diventato così costoso che chi guadagna meno di 100 mila dollari l’anno è considerato a basso reddito e ha diritto a sussidi e agevolazioni. Il problema dei problemi è la casa, e da lì discendono gli altri.

Michele Masneri – Certo, prezzi assurdi. Sulle case c’è una letteratura sconfinata. Una legislazione durissima per le nuove costruzioni (peggio delle soprintendenze romane) e la mania delle case in legno che poi vanno regolarmente a fuoco rende San Francisco un mercato impossibile: 1,5 volte più caro di New York. Nessuno vive da solo, hanno ibridato il concetto di “comune”, nato qui, col fatto che un bilocale costa 5.000 dollari al mese. In ogni serie tv, da Looking a Tales of the city, c’è il momento drammatico della ricerca di una casa. Io stavo in un tragico subaffitto, e avevo un signore in impermeabile che stazionava sotto casa mia. Quando ho chiesto al tipo che mi subaffittava casa se fosse un maniaco, mi ha risposto: magari, è un investigatore privato messo lì dalla proprietà, aspetta solo che sgarriamo a qualche regola del contratto per buttarci fuori e riaffittare al doppio. E poi c’è quella famosa lettera di un dipendente di Twitter del 2016, al San Francisco Chronicle: “Ma come, ho studiato una vita per guadagnare la miseria di 160.000 dollari l’anno”, un budget con cui a San Francisco ci vivi appunto malino se hai figli e pretendi una casa “vera”. Però tanti vivono con meno, dormendo insieme, magari in un sottoscala, sognando di fondare la nuova Facebook o il nuovo Twitter. E, a differenza che in Italia, per esempio, lì almeno una volta una banca e un venture capitalist ti danno retta se gli dici che vuoi fondare la nuova Facebook o Twitter. Questa è la cosa impagabile, l’entusiasmo che è la vera moneta circolante e che ti ripaga dei prezzi assurdi e delle catapecchie in legno. Ed è vero, ci sono molti homeless, ma quanti ce ne sono ormai nelle nostre città italiane? Le tende Ikea che un tempo mi sconvolgevano a San Francisco ora si trovano pure a Milano e Roma.

Tom Wolfe ha raccontato la California come nessun altro, dico a Costa e a Masneri: un luogo costruito da zero, da un giorno all’altro, ai confini del mondo, punto di arrivo della civiltà occidentale costruita su valori coltivati nella Vecchia Europa e nel cuore degli Stati Uniti. Ma qualcosa nel carattere della California e delle persone che l’hanno scelta spinge a cercare o a inventare nuovi modi di vivere, a stracciare tutto ciò che è venuto prima e a ricominciare da capo, senza vincoli né rimorsi. Secondo lui, la California è “una specie di Repubblica di Platone per teenager”: più di cinquant’anni fa Wolfe riconobbe qui, nelle comuni di surfisti di San Diego, l’incapacità di diventare adulti. Forse la dimensione del sogno, con il suo inevitabile stropicciamento, è proprio questa: essere giovani.

Michele Masneri – La California è sempre stata per vari motivi un posto non dove andare a sonnecchiare e cercare la perfetta vita suburbana, bensì un posto per andare a giocarsela (come in generale sono tutte le “alpha city”. Anche a New York e Londra ci vai da giovane e stai qualche anno, più difficile rimanerci a fare il pensionato). Che fosse nella corsa all’oro del 1848 o a Hollywood negli anni Cinquanta o con le startup nei Duemila. O anche a fare la protesta studentesca nel 1967 (un anno prima che in Europa) o la rivoluzione gay. Certo, è un posto dove puoi fare anche l’impiegato delle poste, ma è soprattutto un posto dove te la giochi, dove tutto è velocizzato ed estremizzato, dove vengono inventate le cose, dal biologico a internet alla poesia beat. Vero, se ti va male ti va malissimo, ma se ti va bene? La California ti accoglie e ti libra in un empireo di libertà e felicità sconosciuto al resto dell’occidente, col suo mistone di fricchettonismo, beltà diffusa, università pazzesche, oceano, sfida a qualunque status quo dal sesso all’uso di sostanze, senso di conquista che è ancora quello del far west: che era qui. Un posto dove ci si diverte così tanto non può essere un posto per famiglie. Ha la vocazione di un posto per single, prevalentemente maschi (ogni anno i giornali segnalano che ci sono più cani che bambini). Prima confino per i gay in Marina, poi minatori, poi startuppari. Ma quando hai voglia della bifamigliare con giardino o di un posto tranquillo puoi sempre andare a vivere alla Garbatella della Meloni.

Francesco Costa – Forse siamo arrivati alla Grande Questione: l’ipotesi che non si possa avere uno scenario senza l’altro. Che la ferocia esercitata dal capitalismo statunitense su chi resta indietro sia il prezzo da pagare per ottenere, dovesse invece andarti bene, l’ascesa nell’empireo di cui parla Michele: e che la California rappresenti la sintesi perfetta di questo assunto. È una tesi che esercita un certo fascino sia tra i più ostili contestatori del capitalismo, che ci vedono la sistematica brutalizzazione dei molti a vantaggio dei pochi, sia tra i suoi più accaniti sostenitori, che la giudicano una specie di prosecuzione della selezione naturale e considerano le sofferenze che genera moralmente più accettabili di quelle prodotte dalle rendite di posizione di una società sclerotizzata e appiattita verso il basso, o da burocrazie, mentalità e culture che narcotizzano ogni sviluppo. La logica conclusione è che la California sia questa, prendere o lasciare.

Molti la stanno lasciando, la California, come racconta Costa nel suo libro. Finiscono soprattutto in Texas, che è l’antiCalifornia, e infastidiscono i texani perché si portano dietro usi e costumi (e moltissimi soldi che fuori dai confini californiani diventano finalmente potere d’acquisto) imponendoli a chi già c’era: è la Californication. Si passa dal barbecue in stivali agli avocado toast in ballerine all’uncinetto. In alcuni stati è partita la caccia ai californiani, con cartelloni del tipo “tornatevene da dove siete venuti” e qualche automobile rigata. È il mondo alla rovescia: noi non vogliamo e non accogliamo i nuovi poveri, gli americani rifiutano e allontanano i nuovi ricchi. Al cuore di questa deformazione c’è forse il tradimento più imperdonabile, che non ha soltanto a che fare con la California ma con i modelli democratici in generale che hanno finito per svilire – col tempo, con il diventare adulti – le promesse originarie di uguaglianza e di mescolanza. Nel suo primo viaggio in California negli anni Sessanta, a poco più di trent’anni, Wolfe visitò il sud dello stato. Tornato a New York disse a Esquire, che lo aveva inviato in questa missione esotica, che non poteva scrivere il pezzo: troppe cose confuse. Abbiamo già le foto, dobbiamo per forza farci qualcosa, gli disse il caporedattore di turno: scrivi i tuoi appunti e mandaceli. “Riuscite a immaginare qualcosa di più umiliante che sentirsi dire: ‘Metti giù i tuoi appunti, faremo scrivere il pezzo a un vero scrittore’?”, ha detto molti anni dopo Wolfe, raccontando l’origine degli articoli che poi sarebbero diventati La baby aerodinamica kolor karamella. Wolfe scrive: “Ho scoperto che la California del sud è un vero e proprio paradiso di statuspheres”, cioè della nuova classe sociale che non era già più quella media, ma quella dello status, secondo la definizione di Max Weber. Non è il reddito a definirti, ma il tuo sesso, la tua etnia, la tua religione, il tuo prestigio anche. La Californication non era e non è una questione economica o geografica allora: è questo il prezzo del tradimento che stavamo cercando, il fallimento delle buone intenzioni?

Francesco Costa – Qui secondo me entra in gioco la politica. Le tasse altissime e le grandi ricchezze di chi riesce a farcela in California – e anche di chi non ci riesce: una famiglia californiana che guadagni 120.000 dollari l’anno è considerata a basso reddito – producono ogni anno un gettito fiscale mostruoso. Se nemmeno la California è capace di garantire una vita dignitosa a così tanti fra i propri abitanti, come potrebbe mai riuscirci chi deve invece fare i conti con la deindustrializzazione, la disoccupazione, il debito, la carenza di innovazione, istruzione, investimenti? San Francisco e Los Angeles spendono ogni anno quasi un miliardo di dollari per le persone senzatetto, eppure dal 2010 al 2021 il numero delle persone senzatetto in California è cresciuto di un altro 31 per cento, mentre nello stesso periodo diminuiva del 18 per cento nel resto degli Stati Uniti. Esiste una ferocia intrinseca al sistema, ma si può fare meglio di così. Solo che finché i repubblicani resteranno il partito dei golpisti col cappello da vichingo, i californiani non avranno una vera scelta; quindi l’intero dibattito politico si esaurirà all’interno della versione più bianca, radicale ed elitaria del Partito democratico che esiste negli Stati Uniti; quindi i californiani saranno costretti a farsi rappresentare da persone con idee ben più estremiste delle loro, salvo poi organizzare referendum per cacciarle. Non è un caso se l’ultima volta che si sono trovati davanti un repubblicano normale, i californiani siano corsi a votarlo (normale per gli standard californiani: era Arnold Schwarzenegger).

Schwarzenegger arrivò dall’Austria in California nel 1968: “Tutti possono venire qui e avere delle opportunità”, ha ripetuto più volte. Vale per il sogno californiano, per quello americano e per quello democratico. Il tempo lo consuma? Sì, un po’ sì. Ma muore? Quest’estate sono tornata in California per la terza volta: avevo lasciato lì molti anni fa il mio sogno più grande. L’ho ritrovato dov’era, intatto, senza rimpianti: la vita che non ho vissuto, andando a caccia della mia felicità da un’altra parte.

 

Francesco Costa (Catania, 1984), vicedirettore del Post. Ha curato il podcast “Da Costa a Costa” e ha pubblicato “Questa è l’America” (2020) e “Una storia americana” (2021). Ha un podcast, “Morning”, ed è in libreria con “California” (Mondadori).

Michele Masneri (Brescia, 1974), scrittore e giornalista del Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui” (Adelphi, 2020), “Stile Alberto” (Quodlibet, 2021) e “Dinastie” (Rizzoli), ora in libreria.

Paola Peduzzi (Milano, 1976), vicedirettrice del Foglio.