Ho un’amica ricca, la cui figlia da adolescente andava, come tutte, pazza per Jane Austen. In quegli anni – troppo recenti per aver smesso di vergognarmene – una sera, a un ritrovo mondano in cui la madre era padrona di casa, portai in omaggio un saggio su Jane Austen che ritenevo sarebbe piaciuto alla piccina. La madre mi ringraziò calorosamente come sanno fare le nate ricche – io, se mi fai un regalo di cui non mi frega niente, t’insulto fino a convincerti a non farmi mai più un regalo: inspiegabilmente, ricevo pochissimi regali – e appoggiò il tomo sul tavolino davanti alle nostre poltrone. Molte ore dopo, andando via, adocchiai il volume, usato come sottobicchiere da chiunque per l’intera serata, ricoperto dai cerchi di ogni sciampagna appoggiata su quell’oggetto altrimenti inutile. Da allora, ho sempre detto alla mia amica che è Karina Huff, e lei non ha mai capito, essendo stata una ragazzina che leggeva buoni libri invece di guardare i film dei Vanzina.
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