Mia madre amava molto mio padre e diceva sempre: «Avete visto come è bello il papà?». Anche lui la amava molto e spesso si baciavano. O lui le toccava il sedere. O lei lo toccava a lui. Entrambi erano sempre in forma e molto corteggiati. Di tutte e due le cose andavo fiera.
«Tuo papà è bellissimo» dicevano le nostre amiche.
«Tua mamma è bellissima» dicevano i nostri amici.
Qualche mio amico si è innamorato di mia mamma, qualche mia amica si è innamorata di mio papà. Entrambi fingevano di non crederci, ma gradivano l’attenzione.
Lui voleva sudare, fare fatica, in montagna voleva camminare ore, arrampicare, buttarsi nei fiumi ghiacciati. Al mare voleva nuotare al largo e stare nudo sugli scogli. Noi dovevamo fare come lui e a volte, per chi resisteva più a lungo e scalava più in alto verso il ghiacciaio, c’era un premio, per esempio una tavoletta di cioccolato svizzero. Anche mia madre si divertiva nelle prove di resistenza, così insieme giravano un isolotto a nuoto fino a sfiancarsi e farci temere per la loro vita, e quando andavamo a sciare con loro dovevamo stare sulle piste dalle otto del mattino fino all’ultima funivia. L’ultima funivia neanche la prendevamo, si scendeva in sci e si andava in sci fino a casa e se la neve a valle era finita, si camminava con gli sci in spalla. Una volta a casa, avevamo un altro sport, di solito il nuoto. Poi la sauna del centro sportivo per essere più magri. Mangiare poco. A volte, la domenica, digiunare.
Mio padre voleva essere magro e lo era, ma ha sempre avuto un poco di pancia. La pancia era quindi il suo cruccio. La sauna, le pelli in montagna e le mille sfide atletiche non risolvevano mai del tutto l’adipe né l’adrenalina da scaricare. Questo di certo l’ho ereditato da lui. Sia la pancia che il cruccio per la pancia. Sia le sfide atletiche che non risolvono mai del tutto. È diventato vegetariano, forse per la pancia ma anche per il sangue e il cadavere che vedeva al posto della bistecca, e io l’ho copiato. E anche io ripeto la questione del cadavere che vedo al posto della bistecca.
«Credo proprio di vedere altro da quello che vedi tu nel piatto» spiego al commensale. Poi, fingendo di non volerlo dire ma volendolo in realtà dire, aggiungo sempre: «Sento il sangue morto, rappreso». A volte, se sono in vena, aggiungo la parola “cadavere”. Mi fermo prima dell’ultima sillaba e mi scuso. L’avrò fatto mille volte.
Mio padre fumava le sigarette e smetteva sempre. Ora non so in che fase sia, prima le fasi si alternavano. Quando riprendeva, per punirsi, si obbligava a comprare l’ultimo pacchetto in basso a destra del tabaccaio. Se gli capitavano delle sigarette schifose, era più contento. Oppure faceva dei fioretti. Fumo dopo le sei. Fumo solo quando è buio. Anche in questo l’ho copiato, dai quindici anni fino a quando non ho smesso del tutto. E per smettere del tutto, ho fatto un fioretto.
Ogni volta che lanciava un prodotto editoriale, un nuovo giornale, le edizioni a fascicoli o per esempio le videocassette degli spaghetti western o delle commedie scollacciate all’italiana, si faceva crescere la barba per superstizione. La superstizione inventata da lui voleva che, grazie alla barba lunga, il successo fosse assicurato.
«Non sempre i lanci sono andati bene» dicevamo noi.
«Senza barba sarebbero andati peggio» ribatteva.
E un poco rideva perché forse non credeva a nessuna delle penitenze, come non sono certa di crederci neppure io. Ma mi funzionano i rituali e le rinunce. Avere un motivo per farsi crescere la barba. Tagliarla.
«Non stai bene con la barba» gli diceva mia madre.
Erano le uniche occasioni in cui gli diceva che non era bello. Il resto del tempo era in adorazione, come sotto un incantesimo. Lo eravamo tutte e mi pareva lo fosse ogni donna che incrociavamo, di qualunque età, con qualunque storia alle spalle.
Una volta avevo preso un caffè nel bar dove pranzava ogni giorno e dove ogni giorno mangiava lo stesso identico panino. Il bar era vicino alla facoltà di Scienze Politiche e per caso avevo sentito alcune studentesse parlare di lui e del club che avevano fondato in suo onore. Il bar era anche a dieci metri da casa, dove ogni giorno mangiavamo con nostra madre che in pausa pranzo tornava dai suoi figli. Uscivano dalla stessa redazione, a cinquecento metri da noi, e ognuno mangiava per conto suo prima di ritornare alla stessa redazione.
«Della barba lo dici perché diventa ancora più bello?» chiedevo a mia madre.
Le donne gli stavano già abbastanza appresso senza bisogno di quella barba sexy.
Era bello con la barba. Era bello con la barba, i Ray-Ban, le Superga sfondate, le camicie consumate, i Levi’s colorati. Di Levi’s ne collezionava molti, tutti comprati ai negozi dell’usato dove a volte andavamo insieme. Per un compleanno mi aveva regalato jeans usati colorati dal bianco al nero, fregandosene delle taglie. Alcuni erano cortissimi, altri immensi, ma lui era felice di aver composto per me l’arcobaleno.
Era generoso. Esagerato. Lo chiamavamo “Papi”. O “Peperone”. A lui, giustamente, non piaceva nessuno dei due nomi. Papi era troppo milanese, troppo borghese e ci faceva il verso. Se lo chiamavamo Peperone invece scattava la lotta. Ci morsicava le braccia, le gambe. Faceva grugniti di animale e si metteva a quattro zampe. Quindi noi lo chiamavamo così il più spesso possibile. Amavamo quell’animale a quattro zampe e volevamo farlo comparire sempre.
Da mio padre ho imparato di certo la lotta, i grugniti, i versi di animale. Ho imparato a giocare. Ho imparato i suoi baci da babbuino. Per i baci da babbuino si sporgono le labbra in modo da farle sembrare più carnose, come incastrate sotto il naso e nella fessura del mento. Il bacio suo era il bacio da babbuino. Quello di mia madre era l’aubac. Ci si metteva labbra contro labbra, con la bocca spalancata, insieme si faceva ventosa e si diceva aubac.
«Li avete inventati voi genitori?» chiedo nella chat di famiglia in cui ci siamo tutti tranne mio padre.
«Il bacio da babbuino l’ha inventato il papà. L’aubac, io» risponde mia mamma.
«Il bacio da babbuino esisteva sicuramente anche prima» scrive mio fratello.
Non so su che basi fondi questa certezza ma pare non avere dubbi.
«Chiedete al papà spiegazioni sui baci come se fosse una curiosità vostra?» scrivo. Ma loro non rispondono più, perché evidentemente è una curiosità solo mia.
Il bacio da babbuino faceva ridere in un modo che da grandi non accade più. Mi chiedo se avrei riso così con lui anche da grande, visto che la lotta e i baci da babbuino sarebbero spariti comunque e io anche, in quella forma, sarei sparita comunque. Mi chiedo se anche a lui mancano le mie risate o se gli mancano solo quelle di me bambina e tanto vale quindi non vedersi, perché lei non ci sarà mai più. C’è in giro una donna, che porta il suo stesso nome e neanche tutto il cognome, e niente – se non forse un segno distintivo dalla nascita, i capillari rotti a forma di fragola su una coscia – la ricorda più. «O puoi esistere ancora proprio perché lui non c’è?» chiedo alla bambina che è in me. Ma anche lei, che ha di meglio da fare e sa che è una curiosità solo mia, non risponde.
Nel presente che non abbiamo e nel silenzio che abbiamo, lo penso senza tempo. Non invecchia se non sul foglietto in cui segno le sue rughe e i suoi nuovi nei. Io resto bambina perché possiamo esistere solo nel ricordo e solo nel ricordo posso stare con lui. Non so come è la sua pelle adesso e lui non sa come sono le mie rughe e la mia pelle adesso e allora per sempre, fra noi, siamo più piccoli. Ridiamo, siamo animaletti, facciamo i grugniti. Abbiamo il corpo forte, cerchiamo i fiumi di montagna. Nuotiamo nudi, senza peso, io senza tette, senza tempo che affossa e immalinconisce. Non abbiamo nulla nel presente, così abitiamo per sempre il nostro passato. E in questo tempo, nel tempo mio e di mio padre, non invecchiamo mai e non ci ammaliamo mai. Abbiamo per sempre i bermuda dell’estate e la morte di sicuro non esiste.