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Nella casella ho scritto: inadeguata

Una chiamata nel cuore della notte e a casa arriva Borys, ragazzo ucraino con computer. Sempre chiuso in camera, non parla mai. Il tormento dell’ospitalità e della solidarietà in una fotografia

Facciamo parte dell’Organizzazione, si offre l’ospitalità a chi viaggia, è una rete in tutto il mondo, si condivide la quotidianità, è un bel modo di conoscersi, noi ci crediamo.

Abbiamo ospitato tante persone, anche da molto lontano. Con tutti parliamo, ridiamo e quando non ci capiamo per via della lingua, usiamo i gesti.

Come quello spagnolo che non parlava l’inglese, forse perché era anziano. Gli era morta la moglie e nel loro quinto anniversario era partito per un viaggio. Non credeva di vivere così a lungo senza di lei. Voleva vedere l’Europa dell’est, non ci era mai stato prima. Ci hanno contattato dall’Organizzazione quando era già a Praga, è rimasto poco, cinque giorni, gli ho preparato il letto in salone, nostro figlio studiava per la maturità nella sua stanza, noi in cucina a sentire le canzoni di Jordi. Cantava canzoni popolari catalane, aveva una voce che faceva venire i brividi. A mio marito non lo dicevo, ma la sera quando mi mettevo a letto sentivo la voce di Jordi in testa. Dopo Bratislava è andato a Budapest, poi voleva proseguire per la Romania fino ad arrivare a Varna. I genitori di mio marito, quando era piccolo, d’estate lo portavano al mare per curargli l’asma, l’unica località balneare permessa dal regime era quella bulgara. Poi un giorno abbiamo ricevuto una cartolina da Varna, c’era scritto solo: Jordi.

Quella telefonata invece ci è arrivata di notte, era il 5 marzo. Il cuore mi batteva forte quando mio marito ha risposto. Pensavo si trattasse di nostro figlio, adesso che fa l’università non abita più a casa. Mio marito deve aver intuito la mia agitazione perché mi ha fatto no con la testa e mi ha sorriso come per dire è tutto ok. Era l’Organizzazione, dovevamo accogliere Borys, lui veniva dall’Ucraina.

È andato a prenderlo alla frontiera, mio marito, io sono rimasta a casa, ad aspettare. Gli ho preparato la stanza di nostro figlio.

Quando hanno suonato, sono corsa ad aprire, ma prima di farlo ho sbirciato nello spioncino della porta. Ma è un ragazzo, ho pensato. Poi ho aperto, gli ho sorriso e ho detto “Welcome!”

Lui era fermo lì sulla soglia a guardarmi, tra le braccia stringeva una scatola nera. Forse ha visto la mia faccia perché ha detto: “It’s my computer, it’s my job”.

Nei giorni successivi Borys è uscito dalla stanza solo per mangiare. Gli bussavo alla porta e lui dopo un po’ veniva in cucina. Gli spiegavo cosa avevo cucinato, gli chiedevo se era allergico a qualcosa, se gli piacevano i crauti, il pollo, gli spinaci, se amava le zuppe, lui scuoteva la testa, rispondeva così, non avevo ancora memorizzato la sua voce, dovevo decifrare i movimenti del suo corpo. Dopo pranzo tornava sempre nella sua stanza. Io di solito il pomeriggio ero impegnata con le mie telefonate di lavoro, ma non riuscivo a concentrarmi.

Un giorno, busso alla porta della stanza di mio figlio, dopo un un po’ Borys mi apre. Spalanca gli occhi, sono enormi, vedo quanto è pallido e mi verrebbe da dire esci, vai fuori, dai andiamo a fare due passi, ma mi trattengo. Lui si guarda attorno, mi rendo conto che cerca mio marito, io lo metto a disagio, teme il mio giudizio, non capisco perché, non mi conosce.

-“Show me”.

Apre la porta e osservo la stanza, il letto è disfatto, sembra che si sia appena alzato, mi viene il dubbio di averlo svegliato, c’è puzza, attraverso la camera per aprire la finestra. Cammino sopra i vestiti, nella penombra è difficile evitarli, con la coda dell’occhio lo vedo che ne raccoglie alcuni, si alza da terra con un mucchio fra le braccia. Sono i vestiti di mio figlio, quelli che non si è portato all’università. Gliel’abbiamo detto noi: prendi ciò che ti serve, mi mordo il labbro. La finestra è aperta, l’aria che entra è fredda e mi fa bene, rimango qualche secondo ferma così, respiro, poi la chiudo, accendo la piccola abat-jour sulla scrivania, vicino al suo computer che sembra spento, ma lo sento fare le fusa. Lui si raddrizza, pronto a scattare. Non devo toccare, mi è chiaro, anche se non dice niente. Se sfiorassi il mouse cosa apparirebbe sul monitor? Non lo voglio sapere.

Quando gli passo vicino, mi dà il mucchio.

-“Please”.

Mi ritrovo fuori dalla stanza con vecchi vestiti di mio figlio da lavare, arrivo in bagno e li butto per terra davanti alla lavatrice. La sera la cena la prepara mio marito.

La notte ci faccio caso, la luce nella sua stanza è accesa fino a tardi, verso le due la spegne, ma se metto l’orecchio sulla porta, sento digitare la tastiera.

Questo weekend torna nostro figlio, gli preparo il letto in salone.

-“Parla con Borys”.

Chiacchierano durante la cena, Borys sembra a suo agio, io e mio marito ascoltiamo. Borys racconta a nostro figlio delle sue attività nel metaverso, vende le immagini in pixel dice, come pubblicità per vari clienti solo di là, non qui. Le criptomonete, la Borsa che non si ferma nemmeno di notte, soprattutto di notte, per quello deve lavorare sempre. Mi sembra che la precisazione fosse per me, per il mio spiarlo.

-“Su quali server?” chiede mio figlio.

-“Russi”.

-“Server russi?”.

-“Sono più economici”.

Mi gira la testa, ho voglia di alzarmi e di strappargli i vestiti di dosso.

Dall’Organizzazione riceviamo una mail, dobbiamo compilare dei questionari, tutti, anche Borys, glielo porto in camera. So che dovrei scrivere un breve resoconto: Borys è da noi da due mesi, mi fermo. Leggo le domande guida: L’ospite si è integrato? Partecipa alla vita in famiglia? E’ favorevole al confronto e allo scambio di esperienze? Non ci riesco, metto il foglio sopra il frigorifero. La sera gli chiedo la sua copia, Borys mi riporta il foglio, non dovrei guardarlo. Ha cerchiato “nessuna risposta” in tutte le domande.

Il giorno del suo diciottesimo compleanno gli preparo i nachos e una torta, gli facciamo gli auguri appena esce dalla stanza. Pare spaesato, come se non se lo ricordasse che giorno è, ringrazia e si porta i nachos e la torta nella stanza.

Ci chiama un nostro collega dell’Organizzazione, Borys va al telefono, gli chiede come sta, il ragazzo risponde It’s ok. Poi ascolta, dopo un po’ risponde con un mugugno, poi saluta e attacca. Lo blocco prima che torni in stanza.

-“Che ti hanno detto?”.

Senza pensarci glielo chiedo in slovacco, lui mi guarda senza capire, senza nemmeno sforzarsi di capire, glielo ripeto in inglese.

-“My cousin was captured by the Russians”, dice e se ne va.

Inizia a uscire, due, tre volte a settimana va al Bory Mall, il centro commerciale più vicino, torna con delle buste di carta di negozi sportivi, le scarpe soprattutto e le felpe, le Nike, le Adidas.

Mi sfogo la sera con mio marito, ma non troppo, non gli piace quando parlo male del ragazzo. Io non parlo male di Borys, mi sembra soltanto, che dimostri poca gratitudine ecco. Quando l’ho visto con tutti quei pacchetti mi veniva da gridargli: ma non sei triste per il tuo paese?

Mio marito ha spedito i questionari all’Organizzazione e scritto il resoconto: Borys è da noi da due mesi, è maggiorenne ormai, al corso di lingua non ci va più, lavora, si può trovare una stanza in affitto, lo aiutiamo a cercare se vuole.

Ci vediamo su Zoom, c’è un membro dell’Organizzazione e i genitori di Borys. Parla il nostro contatto, quello che ha telefonato al ragazzo l’ultima volta, dice che Borys ha ancora bisogno di noi. Mio marito non si muove, io scrollo le spalle: è lui che non vuole più starci. C’è silenzio. Vorrei che i genitori di Borys non ci fossero, mi fissano entrambi dallo schermo, il padre ha i suoi occhi. Allora glielo dico, non mi controllo, glielo dico che suo figlio non ci ha mai rivolto una parola, che non fa altro che stare davanti al computer. Non ho idea di cosa faccia realmente, forse è un hacker, un ladro, una spia. Neanche la notizia del cugino l’ha toccato. In quel momento Borys entra nella stanza, io mi giro, sono tutta sudata, ci guardiamo per un attimo poi lui dice che vuole tornare a casa e sua madre scoppia a piangere.

Dopo una settimana mio marito riaccompagna Borys alla frontiera. Gli ho preparato un pacco: i biscotti al cocco che sgranocchiava di notte e la marmellata di pesche fatta da me, per sua madre uno shampoo e un balsamo al tarassaco, da un’erboristeria artigianale. Alla frontiera lo viene a prendere suo padre e tornano a casa, abitano vicino Kyiv.

Giugno, le giornate iniziano a essere soleggiate di nuovo, sembra quasi tutto come prima. Mi arriva un messaggio, da un numero che non conosco. La foto è di un prato fiorito, minuscoli fiori bianchi e gialli, carini, penso.

Il messaggio dice: “Thanks anyway”.

Non capisco. Mostro a mio marito la foto, lui è commosso, mi dice che l’ha ricevuta anche lui, gliel’ha girata la madre del ragazzo, l’ha scattata Borys, è una foto dal fronte.

Sul questionario avevo scritto “inadeguata” nella casella “come si sente al momento” e nelle note “ero orgogliosa di fare la mia parte in questa guerra, pensavo che fosse facile, ma non lo è, non ci sono riuscita, per un po’ non voglio più accogliere nessuno, perdonatemi”.

Sabato torna nostro figlio, dorme a casa, la notte appoggio l’orecchio sulla sua porta, non sento nessun rumore. Quando mi sdraio a letto mio marito mi abbraccia, noi adesso viviamo così.

Jana Karsaiova (Bratislava, 1978), scrittrice, ha imparato l’italiano da autodidatta. Il suo primo romanzo, “Divorzio di velluto” (Feltrinelli, 2022), è stato candidato al Premio Strega.