Benjamín Labatut cammina nella foresta, in mano ha la sua spada. Pensa, guarda e ascolta. La solitudine e la natura sono le condizioni ideali di lavoro di questo scrittore cileno nato in Olanda, autore del successo internazionale Quando abbiamo smesso di capire il mondo, indicato da Barack Obama tra i libri che vale la pena leggere.
In Italia è uscito per Adelphi nel 2021 e con una lingua precisa, e generosa di immagini, Quando abbiamo smesso di capire il mondo indaga la follia, il superamento del limite offrendo le vite di alcuni geni del Novecento: la ricerca scientifica, l’oscurità dei giorni, la malattia e l’ossessione, il delirio delle scoperte e il prezzo pagato per la conoscenza. Labatut mette insieme cose e eventi lontanissimi per raccontare la parabola della scienza e gli abissi su cui uomini geniali e fragili (mai donne) indugiano e si affacciano, anche fisicamente – come Heisenberg sull’isola di Helgoland. Matematici, fisici e chimici sono di fronte ai limiti della mente umana e dell’esperienza, limiti fecondi da cui lo stesso Labatut è attratto.
Elementi di finzione romanzesca si mescolano e si confondono con fatti storici verificati e il risultato è una creazione letteraria ibrida, priva di confini ma fedele alle parole. Se è evidente, scrive Labatut, che il mondo sfugge alla nostra comprensione, l’unica soluzione è avere insieme la mente del poeta e del matematico, coltivare punti di vista diversi e contrastanti. Ma la follia è fondamentale anche per le cose di tutti i giorni, anche per “raccogliere la merda del tuo cane”. È l’interdipendenza tra razionale e irrazionale, che è anche il rapporto tra scienza e letteratura, il cuore del cuore di ciò che gli interessa. Il confine sottile tra un povero pazzo e un genio.
Lei ha detto che di fronte a un confine sente l’istinto di superarlo: è una reazione istintiva o la consapevolezza che oltre il confine si trovi una conoscenza più grande?
I limiti sono molto fertili. Non mi interessa solo ciò che si trova oltre: a dire il vero sono i limiti in sé che mi attraggono, perché è in quegli spazi liminali, che non sono né qui né lì, né prima né dopo, in quelle linee sottili che separano ciò che è reale da ciò che non lo è, il mondo dei sogni dagli incubi che popolano la realtà, ecco è lì che si possono trovare sia dio sia il diavolo. Non sono alla ricerca di quello che c’è al di là, sto ancora cercando di capire cosa c’è lungo i bordi.
Ha spesso menzionato un evento personale, un errore, compiuto prima di scrivere Quando abbiamo smesso di capire il mondo che ha influenzato la sua visione del mondo. Che cosa è successo?
Non è stato un errore, ma un’esperienza. Un vero calvario. Ma devo stare attento a toccare certi argomenti, perché certe cose non sono facili da metter giù a parole senza tradirle. Ci ho scritto un libro su quell’esperienza – Después de la luz – perché mi ha cambiato in molti modi, come persona e come scrittore. Ed era questa la mia intenzione: diventare qualcosa di diverso, spalancare un canale di comunicazione con l’inconscio. Molto ingenuo e anche piuttosto irresponsabile. Ma il lato positivo è che ti costringe a considerare il mondo da molteplici punti di vista, ti fa dubitare sempre della validità delle tue percezioni, idee e convinzioni; istituisce una specie di sentinella interiore che è lì per umiliarti in ogni modo, ma che, se sei fortunato, rende più acuto il tuo senso dell’umorismo, mostrandoti come funziona il tuo sistema nervoso, le sinapsi, e anche una piccola parte della grande barzelletta cosmica — gli dei col culo di fuori.
In Quando abbiamo smesso di capire il mondo scrive di Grothendieck: “Dopo tanto scavare nei fondamenti, la sua mente si era trovata di fronte a un abisso”. Lei ha mai sentito la vertigine davanti alla profondità dell’abisso?
Sì ma, come molte persone, sono attratto da questa vertigine. Una delle cose che si imparano sull’abisso è che non ha profondità. Non è un buco nero in cui precipiti, come accade ad Alice. Non ha affatto una dimensione spaziale, per questo è molto difficile trovare parole o metafore per descriverlo. Devi fare i conti con il fatto che, di fronte a un vuoto seducente, terrificante e magnifico, tu, da semplice essere umano, sei del tutto inadeguato a farne esperienza. C’è ben poco che tu possa comunicare. Io ho scelto semplicemente di indicarlo, di scrivere di persone e idee che permettano, a chi ha interesse, di fare il proprio percorso verso il bordo dell’abisso. Un percorso necessario, non solo perché è inevitabile, ma perché senza, senza questo vuoto, senza l’oscurità che contiene, la vita sarebbe insopportabile. E noi semplicemente non saremmo qui.
Parla spesso della solitudine, la va cercando anche. Che cosa pensa quando vaga nei boschi con le spade, lontano dal mondo e da quello che la gente dice di lei? La foresta irresistibile del Giardiniere notturno, l’ultimo capitolo di Quando abbiamo smesso di capire il mondo, ha cambiato il suo stato di “apolide”?
Non sono un apolide. Ho un passaporto cileno e uno italiano, quindi in realtà sono più fortunato di tante persone. Molti ricercano la solitudine perché se ne sentono richiamati. Io sono semplicemente fortunato di poter trovare dei giorni in cui sono in grado di rispondere a quella chiamata – e sono pochi, perché come tutti ho un lavoro, una figlia da prendere a scuola, scrivo, cucino e faccio le pulizie, visto che non vivo più nella foresta. Quando riesco a salire in montagna cammino e penso, guardo e ascolto, nella speranza che le parole arrivino. Con la mia spada taglio a metà ramoscelli e foglie. La cosa meravigliosa di scrivere nella foresta è che, anche se non mi viene in mente niente di interessante, comunque posso spiare un falco che va a caccia, o assistere a qualche minuscola tragedia, una delle tante crudeltà della natura, e sentire di portare a casa la mia giornata di lavoro.
Anche gli scienziati di cui ha scritto intraprendono la ricerca della solitudine. La solitudine è una fuga dalle paure o un luogo di ispirazione e creazione?
Quando si sviluppa un mondo interiore ricco e articolato, o quando si impara a osservare il mondo esterno con gli occhi ben aperti, stare soli è uno dei piaceri più grandi. È l’equivalente di un orgasmo: un piacere dolce e pacifico che non svanisce una volta soddisfatto. Quando si prova passione per qualcosa, o quando si ha veramente bisogno di riflettere, la solitudine è una condizione imprescindibile. Poiché di natura siamo animali sociali, dissipiamo molte energie semplicemente in chiacchiere e piccoli gesti con cui mostriamo che teniamo gli uni agli altri. È uno sforzo che richiede molto, non è una cosa da poco. Stare da soli ti dà ristoro e permette che altri dialoghi trovino spazio. Esiste una voce precisa del mondo, ma è molto sottile, così sottile che una sola parola può costringerla al silenzio.
La solitudine è però considerata una malattia, il preludio a crolli psicologici. Nel Regno Unito, Jo Cox, la deputata laburista assassinata da un suprematista nel 2016, aveva creato una task force per trovare soluzioni per curare la solitudine. Ha raccontato che da bambina, quando accompagnava il nonno postino a consegnare le lettere, si è resa conto che per molte persone quella con il postino era l’unica conversazione della giornata. Lei che ama la solitudine non sente la mancanza del dialogo?
Non si cura la solitudine con una task force. Ma quando esalto il silenzio e i momenti solitari, non parlo dell’isolamento o della solitudine profonda, una sensazione orribile che conosco bene, perché mi ha afflitto per molto tempo. Per fortuna non mi appartiene ormai da anni, perché sono sposato a un’artista incredibile, Juana Gómez, e abbiamo una bambina di dieci anni, Julieta. Quindi non sono mai veramente solo, anche quando sto da solo, perché sono amato. Banale da dire, ma non esiste davvero un’altra cura alla solitudine. I miei amici e la mia famiglia sono la cosa più preziosa della mia vita, senza di loro sarei un rottame. Credo che dobbiamo impegnarci tutti a essere buoni amici, buoni partner e persone discretamente buone, per meritarci le cure degli altri. Altrimenti, una stanza affollata e la cima di una montagna silenziosa sembrano due gironi dello stesso inferno.
Da molti anni cerchiamo di costruire un mondo senza confini e, nell’ultimo decennio, la tecnologia ha dato un contributo enorme. Da amante dell’isolamento, un mondo globalmente connesso è fondamentale per lei, o la spaventa?
Le connessioni globali sono inconsistenti, e questo nel migliore dei casi. In realtà non esistono connessioni. A me piace toccare ciò che amo. Un mondo iperconnesso non mi spaventa, perché so che la libertà profonda che nasce dall’isolamento e dal silenzio è sempre a portata di mano. Ma so anche che è un sentiero pericoloso e che crea dipendenza. Una volta che ci si abitua alla solitudine, è difficile godersi lo stare con gli altri: basta una singola parola pronunciata, un bambino che piange, il latrato di un cane, il “ciao” di un vicino fastidiosamente cordiale, per rompere l’incantesimo e buttarti di nuovo giù. Ma niente di grave. Non c’è niente di peggio di un pazzo che sta lì beato con la testa nel culo. Puoi scambiare le tue stesse scorregge con il vento che sospinge le nuvole.
Ha scritto che il fisico, così come il poeta, non deve descrivere la realtà, ma creare ponti e metafore, collegamenti. Grothendieck, per esempio, era galvanizzato dal processo di scrittura ma anche ossessionato dalla ricerca del mot juste. C’è un confine tra scienza e letteratura?
No, non c’è. La letteratura insegue tutti gli aspetti dell’esperienza umana per trovare la sua materia prima, che è, in mancanza di una parola migliore, lo spirito del mondo. Ma questo spirito è timido e si nasconde. Cerca rifugio in angoli del mondo apparentemente anonimi: può aleggiare nella stanza di un padre, dove lo trovò Kafka, o parlare nel vento che deforma gli alberi in Patagonia, dove lo sentì Bruce Chatwin. Oppure si può percepire nelle vite ridicole e magnifiche di giovani scrittori e poeti che meglio di chiunque altro sanno che lo spirito del mondo esiste, che è sempre esistito, ma che se lo nomini, svanisce, se cerchi di afferrarlo, ti brucia da dentro.
Parliamo anche del confine tra realtà e fiction. Il Congresso di Solvay (1927), il momento in cui è nata la meccanica quantistica, è stato il momento in cui secondo lei “abbiamo smesso di capire il mondo”, quando abbiamo scoperto che la realtà non esiste di per sé, ma esiste solo in virtù del fatto che viene osservata e misurata. Ne La pietra della follia scrive dell’inaffidabilità delle grandi narrazioni scientifiche e sociali di oggi, con le parole di Philip Dick: “Abitiamo in un incubo collettivo e paranoico nel quale non possiamo mai essere sicuri di ciò che sentiamo, ascoltiamo, diciamo e addirittura pensiamo”. Oggi abbiamo strumenti per provare a comprendere la realtà? La letteratura è uno strumento?
Molte strade possono portare alla conoscenza, eppure la letteratura, nella sua forma migliore, si occupa del delirio. Non dovremmo ricercare la verità nella letteratura, ma possiamo pretendere che ci aiuti a trovare un significato: significati strani, oscuri, folli. La letteratura non si esaurisce nella realtà, nella verità, o nella storia. Può andare oltre tutto questo, verso i territori squilibrati dell’inesplorato. L’unico modo che vedo per andare avanti è coltivare punti di vista diversi e contrastanti, diventare un “non credente che crede”. Dovremmo nutrire la mente del poeta e quella del matematico; dovremmo leggere l’I Ching e conoscere il Modello standard della fisica delle particelle. E anche se nessuna di queste cose può darti la conoscenza completa che desideri, ti mostrerà un mondo straordinario, un mondo che, a volte, trasforma tutta questa sofferenza infinita e senza senso in qualcosa che ha un valore.
Lei scrive che la scienza non è solo metodo, ma anche delirio metafisico. Questo ci porta a un altro confine, quello tra genio e follia che, per gli scienziati di cui ha scritto, è spesso difficile da identificare. Come lo definirebbe questo confine?
Non separiamo troppo le cose. Un po’ di follia è necessaria, non solo per inventare nuove fantastiche tecnologie o spiare i meccanismi segreti della realtà, ma anche per fare cose semplici come andare a comprare il pane, salutare i colleghi allavoro o raccogliere la merda del tuo cane senza impazzire.
Teme la pazzia perché, ha detto, nella sua famiglia c’è un trascorso. Cosa la spaventa di più?
Non ho esperienza di malattie mentali di cui parlare, ma poiché ho conoscenza personale degli stati alterati di coscienza, e ho vissuto alcune esperienze straordinarie e fuori dal comune, conosco i pericoli dello squilibrio, ma ne accolgo anche i benefici. Credo che il potere dell’immaginazione sia prodigioso, anche quando è fuori controllo. Abbiamo questa assurda capacità di vedere – senza alcun avvertimento – la spada fiammeggiante di Lucifero che brucia tra le mani del nostro padrone di casa, o di guardare il cielo e dare alle nuvole qualunque forma produca la nostra fantasia.
Il titolo originale del suo libro è Un verdor terrible. Nella traduzione Quando abbiamo smesso di capire il mondo si è perso il senso della natura inquietante e opprimente. Cosa rappresenta per lei la natura?
Mia madre è una giardiniera paesaggista, e io sono cresciuto giocando nella finta natura selvaggia dei vivai. Da bambino ho passato molto tempo con una persona muta che lavorava con mia madre, che mi ha insegnato un sacco di cose sulle piante senza usare le parole. La complessità articolata e ricca della natura è balsamica per il sistema nervoso umano: noi viviamo per lo più in ambienti molto impoveriti e, mentre abbiamo musei meravigliosi e ogni tipo di intrattenimento domestico, non esiste davvero nulla che rimpiazzi la ricchezza del mondo naturale. Eppure, se si guarda più da vicino, si vede anche il suo lato oscuro: basta sollevare il pavimento di humus e osservare la decadenza che si cela sotto, le infinite mandibole che si cibano di morte, prosperando sulla crudele, sconsiderata rigogliosità della natura.
Ultima domanda – come mai tanti tatuaggi?
Semplice. Sto cercando di raggiungere mia moglie, che ne è ricoperta. Sono anche utili in caso qualcuno trovi il mio cadavere. I miei tatuaggi sono parte di un lungo rituale di cambiamento personale. Un modo per continuare a cambiare. Ognuno ha un preciso significato: ogni figura rappresenta una forza o una deità da evocare da dentro. Arriverà un momento in cui avrò più inchiostro che pelle perché soffro di psoriasi, e le molte ore di dolore che sopporto mentre incidono segni sulla mia epidermide mi aiutano a sostituire l’imbarazzo e la vergogna con la bellezza e l’arte.