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Niente luce in fondo al bosco

La vita tradita di Saman Abbas, 18 anni appena compiuti. Non voleva sposarsi, non voleva tornare in Pakistan, voleva dire sì al mondo e voleva il suo passaporto. Viaggio in fondo al rapporto con la madre, che le ha detto: torna, faremo come vuoi tu. La figlia oscura è tornata, si è fidata. A Novellara, dove i colori del mondo si mescolano e la libertà sembra una cosa semplice

Mi sono sempre chiesta cosa avesse in testa la madre di Cappuccetto Rosso quando l’ha mandata da sola nel bosco. E come sia possibile che tutti noi da sempre accusiamo il lupo, quando è chiaro che la sciagurata è lei. Allo stesso modo, mentre guido verso Novellara, mi chiedo cosa pensasse Nazia Shaheen, la madre di Saman Abbas, quando ha partecipato al piano per uccidere sua figlia. Mi chiedo che cosa pensi adesso, in Pakistan, quando vede per strada una madre e una figlia. Ma forse sta tutto il giorno nascosta, non vede più niente. È il 2021, l’anno dei vaccini, della schwa, degli uomini accusati di catcalling, del ritorno dell’Afghanistan nelle vite di tutti, del portiamo i diritti alle donne, del non siamo diventati migliori. È un anno in cui le illusioni sono evaporate e se risolvi un problema poi te ne restano mille.

Saman Abbas aveva 18 anni e si è ribellata a un matrimonio combinato dalla famiglia con un uomo di undici anni più vecchio. I rapporti degli operatori sociali di lei dicono che era “cocciuta”. La madre, Nazia Shaheen, 48 anni, ne parlava come di un problema da eliminare. “E ora? Come faremo a spiegarlo in Pakistan? Questo è un disonore per tutti noi”, dice questa donna nata negli anni Settanta, questa mia coetanea che per sua figlia voleva un destino identico al suo, oppure la morte. E ancora: “Saman fa tutto il contrario di quel che le diciamo non sappiamo più cosa fare con lei”. È proprio la madre che, secondo gli investigatori, le tende una trappola. “Torna”, la implora, ma sa benissimo che fine farà sua figlia se rimette piede in casa. “Torna”, le scrive mentre avvelena la mela. “Torna”, insiste mentre sta per mandarla sola nel bosco, non prima di averle detto: “Vieni qui che ti metto questo bel cappuccio rosso in testa”, così siamo sicuri che il lupo ti vede. Invece di metterla in salvo dalla furia degli uomini, invece di lanciarla oltre il filo spinato, come hanno fatto molte donne afghane all’aeroporto di Kabul per dare un futuro ai loro bambini, questa madre decide che la figlia non ha un futuro.

C’è un momento, in questa favola nera, in cui forse ci si può fermare. In un vocale in urdu Saman riferisce al fidanzato di aver sentito i genitori dire “uccidiamola, prima che scappi!”. E tu cosa hai fatto? Le chiede il fidanzato. Saman, invece di scappare, come tutti noi forse avremmo fatto, si affida ancora una volta alla madre, a colei che l’ha messa al mondo, e le fa questa domanda, assurda: “Volete uccidermi?”. In questo preciso istante Nazia potrebbe crollare, potrebbe negare e fermarsi. Invece la rassicura. “No, no stavamo parlando di una ragazza che è scappata in Pakistan”, dice. E procede con il piano.

La statale che porta alla casa degli Abbas si srotola tra campi di grano e serre di cocomeri.

Ho guidato tre ore per arrivarci, per capire qualcosa di Nazia più ancora che di Saman, di questa madre che dice cosa indicibili. Di questo rapporto primario, che può generare tutto il male del mondo. E quando ci sono mi assale una sorta di delusione. Scansando cocomeri abbandonati a marcire nell’erba e nugoli di zanzare mi avvicino al casolare con gli infissi di legno scuro e la porta sbarrata dal nastro dei carabinieri. A parte questo particolare, un posto anonimo. Non pare il luogo dove qualcosa di orribile è avvenuto. Eppure qui attorno ci sono centosettantotto serre sotto le quali, forse, c’è un cadavere fatto a pezzi. È da qui, da questo casolare, che Nazia spedisce il messaggio a sua figlia, qui i genitori dicono “uccidiamola prima che scappi!”. Qui il pomeriggio del 30 aprile ci fu una riunione, si parlò di come uccidere Saman e far sparire il cadavere, smembrandolo. All’incontro, in questa casa, c’erano anche lo zio Danish Hasnain, accusato di essere l’esecutore materiale del delitto, e un altro parente. Hasnain è stato arrestato a Parigi il 22 settembre, ha negato di averla uccisa e rifiutato l’estradizione che, nel momento in cui andiamo in stampa, non è stata ancora concessa. Il fratello di Saman, durante l’incidente probatorio ha raccontato di aver sentito uno di loro dire: “Faccio piccoli pezzi”. I genitori, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, sospettati di essere i mandanti dell’omicidio, sono fuggiti in Pakistan. I carabinieri, dopo la scomparsa, hanno recuperato il video di una telecamera di sorveglianza che mostra tre uomini dirigersi verso i campi sul retro dell’abitazione degli Abbas attorno alle 19 e 15 del 29 aprile. Uno di loro aveva in mano una pala. Un altro video, del giorno dopo, mostra Saman Abbas e i genitori che si avviano verso i campi che portano a un vialetto dietro casa. Saman Abbas, suo padre e sua madre. Insieme. Poi i genitori ritornano, ma senza la ragazza. Il cadavere, dopo due mesi di ricerche tra i campi e le serre del Reggiano, non è mai stato trovato, ma gli inquirenti, i carabinieri e la Procura di Reggio Emilia, non hanno dubbi sul fatto che sia stata uccisa. L’hanno cercata ovunque Saman, setacciando le campagne, scavando sotto le serre, sul retro di questa casa. Poi, a luglio 2021, hanno interrotto le ricerche.

L’aria condizionata inganna la mente e le fa credere che fuori sia fresco quando ci sono quaranta gradi, che sia normale quello che in realtà non lo è. Che una madre per tutelare un’idea folle di “onore” abbia predisposto un piano per uccidere una ragazza giovane e “cocciuta”, che abbia ingannato la giovane figlia, la stessa che ha partorito, le abbia preparato un tranello, mandandole un messaggio che andava probabilmente incontro al desiderio di Saman: “Ti prego, fatti sentire, torna a casa, stiamo morendo, non ti succederà nulla. Faremo come vuoi tu” – mentre decideva con gli altri componenti della famiglia di ucciderla, che le istituzioni di un piccolo paese, le forze di polizia, la scuola, i servizi sociali – in definitiva tutti noi – non abbiamo potuto o saputo proteggere una ragazzina che aveva chiesto aiuto, che aveva denunciato, che si era affidata a noi ed è stata tradita. Da sua madre innanzitutto. Ma non solo da lei.

“La madre di Saman”, dice Hasnain Abbas Bhatti, “per me è un mistero, mi turba molto, mi ha sorpreso. Davvero choccante”. Hasnain Abbas Bhatti è un tipico abitante della Bassa: è nato in Pakistan ed è arrivato in Italia da piccolo, nel 2003. Da allora vive a Carpi, a pochi chilometri da qui. Oggi, a 24 anni, si sta per laureare in Ingegneria, è un musulmano praticante e da dicembre è cittadino italiano. A Novellara, su poco più di 13 mila abitanti, i residenti di origine straniera sono il 14-15 per cento, ma è un dato sottostimato. Qualche anno fa erano il 18 per cento – pure questo sottostimato – ma tanti di loro negli ultimi anni se ne sono andati, soprattutto in Canada e in Germania. Molte famiglie sono ben integrate, altre, come la famiglia di Saman, no.

“Non avevano molti contatti con la comunità pachistana”, dice Hasnain, “ma un uomo che conosceva il padre dice che beveva ed era spesso alterato. Non rispettavano le indicazioni islamiche”. Anche per questo, secondo Hasnain, è abbastanza fuorviante collegare all’islam la terribile fine di Saman. “Non erano osservanti”, dice. Tuttavia Hasnain non elude la questione culturale. “Non è il primo caso di matrimoni forzati in zona. Purtroppo ce ne sono stati molti, ma per fortuna di solito o le famiglie si arrendono o le ragazze se ne vanno e fanno la loro vita. Negli altri casi di matrimoni forzati però le madri erano più morbide dei padri, tentavano una mediazione. In questo caso no. La madre di Saman sembrava d’accordo. È incredibile che per onore si faccia violenza sui propri figli, ma è una questione di arretratezza culturale. In queste comunità c’è un senso dell’onore sbagliato”.

Hasnain Abbas Bhatti parla mentre in piazza Unità d’Italia si tiene il mercato e fra i banchi di frutta e formaggi passeggiano le famiglie di Novellara: una donna velata dalla testa ai piedi che spinge un passeggino, una signora che parla moldavo con il marito, un uomo che urla in calabrese alla figlia di aspettarlo, una ragazza nera che distribuisce volantini, una signora che dimostra cent’anni e si appoggia contemporaneamente a un deambulatore e a una giovane donna dalla pelle scura con il bindi sulla fronte, due ragazzi che abbassano furtivamente la mascherina e si danno un bacio. Poco distante una famiglia sikh apre il cofano della macchina per caricare la spesa. Due donne, coperte da veli coloratissimi, caricano le borse. Una è sicuramente una madre, l’altra la figlia. Il padre, un uomo con il turbante, tiene in braccio un neonato. Poi le donne fanno cenno di salire, la madre si mette al posto di guida e la figlia a fianco, l’uomo sale dietro con il bambino. Quest’ultima scena dovrebbe dirmi qualcosa sulla complessità, sul giudizio frettoloso, sui ruoli genitoriali nelle culture, ma tenere lo sguardo limpido è difficile, qui tutto grida che Saman ha cercato di esistere e non ci è riuscita, e che sua madre è scappata.

Di sicuro a pochi chilometri dalla casa dove Saman Abbas è stata tradita da sua madre c’è una famiglia di origini pachistane perfettamente integrata nel tessuto sociale della Bassa. Il padre, Anwar Mohammad, è imprenditore edile e reporter di una web-tv pachistana, la moglie Saadia Parveen, è mediatrice e traduttrice. È arrivata in Italia 17 anni fa per ricongiungersi al marito che ha spostato giovanissima con un matrimonio combinato dalle famiglie. “Quindi lei ha avuto un matrimonio combinato?”, chiedo. “Sì”, dice Saadia, “ma abbiamo avuto modo di conoscerci e frequentarci prima del matrimonio e poi di acconsentire liberamente. Il matrimonio forzato in Pakistan esiste, ma è illegale. Anche dal punto di vista religioso il consenso dei figli è obbligatorio. Quello che è accaduto a Saman è un atto criminale. Eppure accade”. Anche Saadia è una madre, le sue due figlie studiano e lei mi spiega che mai imporrebbe loro un matrimonio. È così gentile che non ho il coraggio di chiederle cosa sarebbe accaduto se non le fosse piaciuto suo marito, non ho il coraggio di dirle che il fatto che non lo abbia scelto lei, magari commettendo un errore, magari innamorandosi del primo che passava, comunque mi sembra sbagliato.

Sia Saadia sia Hasnain parlano della distrazione delle istituzioni. “Cocciuta?”, domanda Hasnain, “può darsi ma non meritava di essere uccisa. La comunità sta cercando di riversare le colpe su di lei. È stata assassinata perché non voleva sposare una persona, non perché era cocciuta. Avrebbero dovuto aiutare Saman a recuperare i documenti o a farne di nuovi, poteva essere più protetta. Ne sono convinto”. Le istituzioni a Novellara stanno in un bel palazzo antico, la rocca dei Gonzaga, che ospita anche un museo, un teatro, un archivio. La sindaca, Elena Carletti, mi riceve come si accoglie una spina nel fianco, si capisce che non ne può più che si parli di loro solo per questo e che non ne possono più di parlare solo di questo, dopodiché, ovviamente parliamo di questo. Mi spiega che la città è piccola, ma accogliente e inclusiva, poco distante c’è il tempio sikh più grande d’Italia che nel 2000, quando è stato eretto, era il più grande d’Europa tanto che – ripetono tutti – “venne anche Prodi”. I musulmani si radunano invece nella moschea, però – poiché negli ultimi anni molti sono andati via – la comunità pachistana si è aggregata alla comunità maghrebina e l’imam locale è di origine somala. È chiaro che intendersi è un’utopia. Con il Covid le relazioni sono diventate più difficili, i rapporti più rarefatti, tanto che quando cerco di parlare con la vicina di casa degli Abbas per capire come era questa famiglia, com’era soprattutto questa madre, mi dice che non avevano nessun contatto. “C’era la pandemia, stavamo chiusi in casa.

Poi la signora Abbas non parlava italiano”.

Non parlava italiano anche se a Novellara ci sono molti progetti di lingua e di inclusione per le donne straniere, progetti ai quali la sindaca tiene molto e che elenca con puntiglio. Qui l’attenzione alle donne straniere è alta, altissima, dice. Sembra un paradosso, visto quello che ha fatto (è stata costretta a fare?) Nazia. E lo è. Poi Elena Carletti dice una cosa che può lasciare interdetti: “Non credo sia un caso che sia successo proprio qui. Non per arretratezza, ma per il suo contrario, perché qui le ragazze respirano libertà: certi atteggiamenti patriarcali non sono tollerati”.

L’amministrazione comunale, mi spiega, ha iniziato a occuparsi di Saman dopo che la ragazza ha denunciato mamma e papà ed è scattato il provvedimento di tutela e protezione, nell’autunno del 2020. È stata sospesa la patria potestà dei genitori e Saman è stata portata in comunità. Se tornasse indietro agirebbe diversamente, chiedo alla sindaca e lei dice di no. “Forse farei di più. Ma c’è un tema che sfugge a tutti ed è il consenso delle persone che vengono messe sotto protezione. Saman è entrata in comunità a novembre 2020, minorenne, perché è diventata maggiorenne il 18 dicembre. È stata seguita dal servizio minori anche quando è entrata nella maggiore età. Il primo mese ha rispettato tutte le disposizioni: niente telefono, nessun contatto con l’esterno. Poi, a 18 anni, ha chiesto l’uso del telefono e ha iniziato ad avere contatti con l’esterno. È scappata più volte per potersi incontrare con il fidanzato, ma sottraendosi a questa protezione si è esposta a un certo livello di rischio”. Fra i rischi che si è presa c’è quello di essere tornata dai genitori per recuperare il passaporto. “Certo che potevamo rifarle i documenti, ma ci sarebbe voluto del tempo e lei ha preferito tornare a prenderlo dai genitori. Cocciuta? Sì, l’ho detto anch’io che era cocciuta e lo confermo”, dice Carletti, “per lei era tanto limitante la famiglia quanto la comunità. Voleva i documenti subito. Nell’ingenuità o incoscienza dell’età pensava che la libertà fosse a portata di mano”. Non lo era.

Ma quale ragazza italiana di 18 anni avrebbe accettato di stare senza cellulare, isolata dal mondo esterno, senza contatti con il fidanzato e gli amici? Perché poi isolarla da chi le voleva bene davvero, ma consentirle di tornare dai genitori, che erano quelli che la minacciavano? Perché non avere indagato di più sul fatto che era iscritta alle superiori, ma di fatto i genitori non la mandavano? Perché arrendersi al pensiero – come dice la sindaca – che “in certe comunità l’abbandono scolastico è diffuso e che poco si può fare”. Saman voleva studiare. Mi chiedo – e non ho risposte, ma solo dubbi – se a 18 anni più che toglierle il cellulare non sarebbe stato importante darle in mano anche un libro e il passaporto.

“Sono disposta a tornare in comunità, non in Pakistan”, diceva Saman Abbas agli inquirenti il 22 aprile, pochi giorni prima di sparire. La frase è riportata in un foglio dei carabinieri di Novellara, ai quali si era rivolta per avere protezione. Saman riferì anche che il 26 gennaio suo padre, Shabbar, era andato in Pakistan dalla famiglia del suo fidanzato e li aveva minacciati con un’arma dicendo loro che se lui non avesse lasciato Saman li avrebbe uccisi. In una delle telefonate mise in guardia il fidanzato sulla pericolosità del padre, collegato alla mafia pachistana. “Ho molta paura, è una persona pericolosa”, disse il giovane, a sua volta ascoltato dagli investigatori. Della madre non parlò, come se non esistesse.

Saman era “cocciuta”, era intelligente e sveglia, perché non ha capito che non avrebbe dovuto tornare dai genitori? Sembra non aver percepito il pericolo che stava correndo ed è un atteggiamento strano per una ragazza come lei. Forse pensava di essere tutelata dalla denuncia contro i famigliari? Quale delle due Saman ritorna, la Saman che porta lo hijab? Oppure a tornare a casa è la ragazza italiana con il piercing? E noi, tutti noi, perché l’abbiamo fatta tornare? Di nuovo, penso: Saman si è fidata di sua madre.

Nel mondo circa cinquemila donne vengono uccise ogni anno dai famigliari, in particolare dal padre, dal fratello o dallo zio in nome “dell’onore della famiglia”. Il delitto d’onore è considerato da alcuni immigrati, comprese alcune donne, come parte della loro cultura, che deve essere conservata. A seconda della latitudine per lavare “l’onore di famiglia” le donne vengono: avvelenate, soffocate, lapidate, bruciate con l’acido, strangolate, seppellite vive. Non sono solamente femminicidi, sono di più e peggio. Nell’atto, pianificato, accettato, vi è un monito a tutte. In molte culture la madre stessa della ragazza “deve” accompagnare la figlia alla punizione “giusta” per ristabilire il decoro familiare e riabilitarsi agli occhi della collettività. Un po’ quello che ha fatto Nazia Shaheen, che manda la figlia sola nel bosco sapendo che è pericoloso. La veste di rosso perché sia un obiettivo più facile. Manda il cacciatore a strapparle il cuore. Infila un fuso in soffitta così che si punga e si addormenti per sempre. È una madre cattiva, come le mamme cattive delle fiabe originali, trasformate in matrigne nelle versioni successive perché immaginarle così crudeli era troppo anche per i fratelli Grimm. E d’altra parte nell’estate delle donne afghane che scappano dal loro paese o manifestano contro l’arrivo dei Talebani, ci sono anche le donne afghane – 300, pare – che manifestano per strada coperte con il niqab o il burqa a favore della loro stessa segregazione. Nell’anfiteatro della Shaheed Rabbani University a Kabul alcune hanno parlato a favore dei Talebani. Quante di queste madri aiuteranno le figlie, quante le soffocheranno, le nasconderanno agli occhi del mondo, contribuiranno a relegarle in casa?

Paradossalmente gli unici che hanno davvero aiutato Saman Abbas sono due giovani uomini e sono entrambi di origine pachistana. L’unico che continua a cercarla e che crede che sia viva è Saqib Ayub, il fidanzato, che attraverso il suo avvocato ha presentato un ricorso urgente al comitato delle sparizioni forzate dell’Onu a Ginevra per chiedere che si continui a ricercare cum vita, ovvero a prescindere dalla fine della ragazza. E poi c’è il fratellino di Saman. “È stata mia madre”, ha detto in Tribunale, “ad affidare Saman a mio zio Danish Hasnain”. Ha detto di aver spiato tutto dalla cucina del piano terra. “A ucciderla è stato lo zio. I miei genitori no”, ha detto questo ragazzino, tentando almeno di salvare – con gli altri e con se stesso – quel che resta di mamma e papà.

Mentre esco da Novellara e mi lascio alle spalle le serre di cocomeri, il palazzo Gonzaga, la casa degli Abbas, la piazza del mercato dove pare che tutti i colori e le lingue del mondo si mescolino, mi rendo conto che della madre di Saman ho capito ben poco. Ho capito invece che tutte le frasi che sono state spese nel 2021 sull’emancipazione femminile, tutti questi discorsi che ci fanno credere che abbiamo ottenuto indipendenza e rispetto, che leggere Storie della buonanotte per bambine ribelli ai nostri figli a letto la sera sia stato sfiancante, ma utile, fanno in realtà a pugni con un paese che non è riuscito a proteggere una ragazza pachistana di famiglia, ma italiana di fatto, che si era allontanata dai genitori, fisicamente e mentalmente, perché non voleva sposare un uomo sconosciuto. Perché pensava che la libertà fosse un po’ più difficile per lei, ma comunque raggiungibile. Fanno a pugni con me che non riesco a dire a Saadia Parveen che l’amore non dovrebbe essere deciso dalla famiglia di origine. Mi viene il dubbio che mentre facciamo molti discorsi pubblici e privati sui diritti delle donne afghane, mentre ci struggiamo perché possano – come è sacrosanto – andare a scuola, andare al lavoro, uscire di casa, avere una loro autonomia, non abbiamo protetto una ragazza che voleva queste cose, qui e ora. L’abbiamo definita “cocciuta”, Saman, ammirando il coraggio delle afghane a Kabul, perché una donna risoluta è affascinante. Da lontano.

Chiudiamo gli occhi anche per cose meno gravi, come il caso di Ikram Nazih, una ragazza di Vimercate di origine marocchina, che ha postato una vignetta su Facebook. E quando a giugno è andata a trovare i parenti in Marocco è stata arrestata per blasfemia. Per settimane non ce ne siamo neanche accorti, abbiamo parlato d’altro, magari della schwa e del catcalling – sempre diritti delle donne, ma temi meno sconvolgenti – come se questi ragazzi dovessero sottostare ad altre usanze, ad altre leggi.

La sottovalutazione del rischio da parte degli occidentali è una trappola nella quale spesso si cade nel nome di non discriminare o nel timore di essere tacciati come persone contro gli stranieri e l’integrazione. Ne siamo usciti politicamente più corretti, ma non migliori.

Ogni epoca ha le sue tecniche di rimozione. Se nemmeno i Grimm riuscivano a chiamarle madri, le mamme delle fiabe di oggi sono crudeli, sì, ma mica è colpa loro, come minimo sono state a loro volta ferite, umiliate, sono infelici, sono state rifiutate. Quindi sono autorizzate a fare cose orribili, ad essere cattivissime, traditrici del rapporto primario, quello tra madre e figlio. Pure Nazia, forse. “Perdonami” dice una madre a una figlia in un vecchio racconto della scrittrice Janet Berliner. E la figlia chiede “Per cosa?”. E la madre risponde “Per qualunque cosa tu creda che io abbia fatto”.

Valentina Furlanetto (Montebelluna, 1972), giornalista di Radio 24 il Sole 24 Ore dal 2002, cura e conduce la trasmissione “I figli di Enea, storie di italiani di origine straniera”. Il suo ultimo libro è “Noi schiavisti” (Laterza, 2021).