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Non ho l’età

Quanti anni ha lui, quanti anni ha lei, non facciamo che parlare di giovani e di anziani, a caccia di leader politici che sappiano salvarci dai pesi che ci sentiamo addosso. Viaggio elettorale tra Londra e Parigi, alla scoperta del punto di equilibrio in cui un governo sa essere semplicemente adulto. Aspettando l’America dei vecchietti diversi, tra fragilità, consapevolezza e una crudeltà inattesa

Nel giorno più importante della sua carriera, Angela Rayner si è presentata davanti alle telecamere e al suo capo in verde menta, giacca, pantaloni e scarpe in tinta, i capelli color rame, il tatuaggio della rosa del Labour, il sorriso degli attimi storici. Sguaiata come al solito, le hanno detto, ma lei deve aver pensato: che ne sanno loro, ho già dovuto rinunciare ai miei abiti leopardati per questa rivoluzione della sobrietà, si accontentino. Rayner è il simbolo del nuovo governo laburista nel Regno Unito guidato da Keir Starmer: è la sua vice, è una sua ex rivale – si sono presi le misure come si fa nella politica britannica: sfidandosi – è energica, ironica, prepotente, insonne e, come dice lei, un’altra cosa rispetto ai politici cui gli inglesi si sono abituati, tutti belle scuole, belle case, bella vita. È la tempra della working class, la sua, «i conservatori non hanno mai a che fare con gente come me: non sono paternalisti, per loro sono più un enigma», un tipo sconosciuto. Rayner è cresciuta in una casa popolare, suo padre andava e veniva, sempre incazzato, sua madre era analfabeta – le dava da mangiare le scatolette di carne per i cani pensando che fosse stufato – ed era bipolare e lei ha dovuto assisterla da quando aveva dieci anni: le dava da mangiare, la lavava, dormiva in fondo al suo letto per controllare che non si facesse del male. «Io e i miei fratelli non eravamo voluti – ha detto in un’intervista – Non pensavo di non essere amata o di aver bisogno d’amore: non sapevo cosa fosse, l’amore». A sedici anni è rimasta incinta: non era l’unica e non era la prima del quartiere, ma lei tenne il bambino, Ryan, e le altre no. Oggi Rayner ha 44 anni, ha altri due figli nati in questo secolo, oggi adolescenti – uno è nato alla 23esima settimana, è epilettico e cieco – ed è nonna. Mi hai resa nonna a 37 anni!, ha detto a suo figlio, che le ha risposto: «C’è un motivo se sei già nonna, e non sono io, io ho 21 anni».

Non mi è mai capitato di parlare così tanto dell’età dei politici come durante quest’anno di elezioni ovunque, dev’essere l’America dei vecchietti a condizionare ogni pensiero, ogni analisi, ogni domanda. Anche se poi lì ci sono due ottantenni quasi coetanei che vivono la loro ultima stagione in modo del tutto diverso. Il presidente Joe Biden perde la voce e la luce negli occhi, si confonde mentre parla, ascolta gli altri parlare a bocca aperta, cammina lento e subisce in diretta mondiale l’umiliazione dei suoi che gli ordinano: devi levarti di mezzo, ci farai perdere le elezioni di novembre. Crudeli, ecco cosa sono i democratici americani precipitati nel panico dopo un dibattito televisivo andato stortissimo – crudeli e disperati perché un’alternativa al nonno d’America non ce l’hanno. L’ex presidente Donald Trump, al contrario, è stato quasi ammazzato da uno sparo in testa, su un palco assolato della Pennsylvania in luglio, e ha alzato il pugno al cielo, col volto insanguinato, gridando “fight”, lamentandosi perché non gli hanno fatto prendere la scarpa che aveva perso accasciandosi, ferito all’orecchio da un proiettile che poteva, un centimetro più in là, ucciderlo sul colpo. Fortissimo. Tazze, magliette, cuscini si sono riempiti di quel pugno e di quel “fight”, i repubblicani celebrano il loro eroe, il sopravvissuto, e tutto sembra perdonato. C’è un continuo contrasto tra fragilità e potenza, tra lucidità delle azioni e non delle parole, e viceversa, mentre l’anzianità di Biden si fa insostenibile e Trump si sceglie come vicepresidente uno che ha la metà dei suoi anni.

Sono stata tra Londra e Parigi a inseguire risultati elettorali di elezioni che fino a due mesi prima non erano nemmeno previste. Il Regno Unito si è interrogato per mesi sulla data del voto, a caccia del tempo giusto per fare i conti con questo suo ultimo decennio in cui ha perso la ragione. Ha scelto infine il 4 luglio, abbandonandosi alla fretta, come se non avesse più altro tempo da concedere all’insicurezza e alla rabbia ammonticchiata per anni. La Brexit è giovane ma già spacciata, un ristoratore mi ha ripetuto la litania che credo propini a ogni europeo che si siede ai suoi tavoli: non ci sono camerieri stranieri, non si possono più importare prodotti di qualità che marciscono in dogana, i supermercati sono sguarniti e via così, di blues brexitaro. Siamo invecchiati di decenni, dice, e vorrei rispondergli che gli inglesi, come tutti i popoli occidentali, hanno smesso di fare figli e che l’ossessione contro gli immigrati non è esattamente un’assicurazione per la longevità nazionale, ma taccio e penso che questo paese ha raggiunto l’età della consapevolezza. Angela Rayner nonna a quarant’anni è la sintesi di una maturità precoce, arrivata a strattoni, non cercata, ma infine adatta a questo momento, alla fase che il paese sta attraversando. Il governo laburista di Keir Starmer ha l’età giusta: il premier non ha lasciato nulla al caso per non disperdere un vantaggio che nelle proiezioni c’era già da almeno un anno, ha costruito una storia elettorale concreta e credibile, senza effetti speciali, comprate quel che vedete, e si è messo subito al lavoro. Non vuole perdere tempo, sa che la luna di miele di una vittoria a valanga è corta, non soltanto perché le democrazie si proiettano verso l’eternità rinnovandosi ogni pochi anni, ma perché è il paese che governa ad aver bisogno di cure immediate. L’età giusta è quella in cui Rayner la Rossa dice di aver imparato che «le ideologie non portano il cibo a tavola», è quella in cui non si fanno promesse fantasiose, quelle in cui sobrietà e serietà si mischiano e pure se da qualche parte il ricordo delle giostre dei Tory resta, ora apprezzi che qualcuno si sia preso la briga di non raccontare più bugie. Noioso? Adulto, direi.

Parigi parla soltanto della sua gioventù (politica) bruciata – Jordan Bardella, tanto per cominciare, il ventottenne che ha reso votabile un partito xenofobo, antisemita, razzista e anti europeista come il Rassemblement national, ma che poi non farà il premier come invece dicevano tutti. Si riprenderà? I pettegolezzi sono ininterrotti e divertenti, perché questo è un raro caso in cui il mentore, il talent scout del giovane ambizioso è una donna che, nel giorno della delusione, cioè quando si è formato il Parlamento che avrebbe dovuto incoronare Bardella ma che invece ha tutta un’altra costituzione (perché i francesi non si sono fatti prendere in giro fino in fondo dal riposizionamento cosmetico dell’estrema destra), in quel giorno, Marine Le Pen si è presentata vestita di nero, in minigonna e tacchi a spillo, mezzo lutto e mezza dominazione, e vedendola ho pensato: auguri, giovane ambizioso che non sei stato all’altezza delle aspettative di una leader che ripudia le recriminazioni e premia solo la voglia di vincere. Dall’altra parte della barricata europea, c’è Gabriel Attal, il giovane premier che era stato scelto dal presidente Emmanuel Macron qualche mese fa, il politico a lui più simile, un erede naturale ma evidentemente sacrificabile, che sta già sperimentando la necessità di reinventarsi, a trent’anni che, in questa estate vorace, sembrano almeno il doppio. È finita la stagione dei giovani? È difficile dirlo, ma è anche impossibile non notare, negli aperitivi all’aperto che a Parigi vanno avanti fino a tardi con il cielo chiaro del nord Europa, che ricambio generazionale c’è stato nella politica, nella comunicazione, nei media. Non è soltanto una questione anagrafica, si parla molto più di ambiente, di accesso dei giovani al mercato del lavoro, di scuola e di diritti rispetto a quel che mi è capitato altrove, anche nella Londra della maturità e degli striscioni Pride appesi ovunque. E pure qui c’è una donna vestita di verde, si chiama Marine Tondelier, ha 37 anni, guida gli Ecologisti e, nella Francia che deve imparare l’arte del compromesso all’Assemblea nazionale, ripete a tutti, compagni di partito e rivali: comportiamoci da adulti.

Il Parlamento britannico ha un’altra faccia, c’è una certa reticenza a parlare di rivoluzione laburista, ma in termini di ricambio dell’élite il termine esatto è proprio questo. La parità di genere non è più così chiacchierata, ora si parla solo di età. Sam Carling è il più giovane di tutti i parlamentari britannici, ha 22 anni e i capelli ricci, ed è il primo deputato a essere nato in questo secolo. Ai tanti giornalisti che lo cercano perché è il “baby of the House” risponde: per me l’unico numero che conta non è quello dei miei anni, ma il 39. Tanti sono i voti che gli hanno permesso di vincere in un collegio in cui il candidato conservatore (che ha tre volte gli anni di Carling, ma basta parlare di età) aveva 25 mila voti di vantaggio: una rivoluzione, questa sì, con riconteggi e apnee e sorrisi giganteschi. Il baby deputato non vuole essere etichettato per la sua età, dice che ha ricevuto molti messaggi antipatici online ma poi dal vivo sono tutti più gentili e disponibili, va di fretta anche lui perché vuole mettersi al lavoro.

L’America se la sogna questa rinfrescata generazionale, la Francia fa fuori i suoi rampolli contando sul fatto di averne di scorta, e il Regno Unito celebra l’età della consapevolezza, combattendo l’equivoco tra maturità e noia con le scarpe allineate nell’ufficio di Angela Rayner, tacchi e glitter, in equilibrio come gli adulti.

Paola Peduzzi (Milano, 1976), vicedirettrice del Foglio.