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Non sono io, il cancello distrutto

Salvare, salvare tutto: i testi, le persone, le menti, le idee, la lingua, i libri. Leopoli si prepara al suo festival letterario saltando il fossato che separa chi la guerra la vive e chi la guerra la osserva. Il sogno che fa piangere anche da svegli e la resistenza che si fa poesia

Per fortuna hanno approvato la legge sui professori universitari. Quella che impedisce di mandarli al fronte. Se restiamo senza la nostra riserva intellettuale come si fa?». Non è la Prima o la Seconda guerra mondiale. Non è una minuscola sperduta nazione. E’ l’Ucraina di oggi, 2023, nella sua capitale culturale, Lviv già Lvov (polacca), Lemberg (asburgica), Leopoli (com’è nota dal Medioevo), epicentro con Brody della magnifica epopea ebraica ashkenazita, che si affianca al firmamento degli autori in lingua ucraina, da Shevchenko a Franko. Oggi, di nuovo, questa città carbonara e dalla struggente bellezza fin de siècle vive con i suoi 700 mila abitanti e le migliaia di rifugiati interni in punta di baionetta, con la guerra alle porte, l’ombra totalitaria, e quella idea tristissima ma vera, cioè pubblicamente discussa e sentita, della “riserva intellettuale”. Salvare, salvare tutto, mettere in salvo i testi, le persone, le menti, le energie, le università, le idee, la lingua. I libri. Ieri i pogrom, oggi, mentre le bombe cadono su Kyiv e Odessa, Kharkiv e Kherson «ma quasi miracolosamente, grazie alla nostra difesa, ancora una volta risparmiano Lviv», il timore di un nuovo sterminio da parte degli eterni invasori russi, quello degli intellettuali. Come si fa a guardare a questo acuto sentimento di accerchiamento con gli occhi sereni e l’animo disteso dell’occidentale pronto a tuffarsi nell’estate italiana dei festival letterari e dei club di lettura e dei premi? Incontriamo chi può cominciare a dare delle risposte in un viaggio imprevisto, tra sirene antiaeree e appelli della Farnesina a lasciare il paese, letterariamente densissimo, al di là del confine. Lviv, Ucraina occidentale, inizio maggio 2023. Ci si prepara al Lviv Book Forum, il festival dei libri che si terrà in autunno, nonostante le bombe. E questo già ci dice molto. «Non sono e non intendo essere coinvolta politicamente. Ma lo sono civilmente», dice Halyna Kruk, poetessa e docente universitaria, davanti a un caffè nel cuore della città dove è nata. «Eppure il problema comincia appena mi dichiaro. Gli abitanti delle nazioni che noi qui così amiamo, francesi, italiani, tedeschi, scandinavi – insomma, la vecchia Europa – non vedono esattamente quello che vediamo noi. Quando, durante gli incontri internazionali ai quali ero invitata, ho cominciato a chiedere sostegno per l’Ucraina, mi sono sentita rispondere: no, no, io contribuisco solo per obiettivi civili, non per i militari e quelle cose così. Ho capito che dovevo spiegare alle persone che il soldato di oggi sul fronte di Bakhmut ieri era un civile. Non c’è differenza, lo capite? Noi non abbiamo un esercito professionale. L’esercito siamo noi, tutti noi». Siamo ancora disposti, in occidente, ad accettare che una società che in pace si occupa di Lettere e di parole sia disposta – quella stessa società, quelle stesse persone, uomini e donne – a combattere, in senso non metaforico, come fece Orwell in Catalogna e come è pronto a fare oggi Oleh Yaskiv, vicerettore all’Università Cattolica dell’Ucraina e direttore dello Sheptytsky Center, che cita a memoria Buzzati e Moravia e che si aggira per la sua facoltà, tra le biblioteche e le sale di lettura, con la divisa da ufficiale che ha indossato arruolandosi fin dal 24 febbraio 2022? Una poesia di Halyna Kruk, scritta all’indomani dell’aggressione russa – e tradotta in italiano da Yarina Grusha Possamai e Alessandro Achilli – dice: «non sono io, il tronco sbiancato del platano / non sono io, la casa invalida dopo gli spari / non sono io, il cancello distrutto, il muro spaccato / la granata intrappolata nell’asfalto / prima di scoppiare. / Io son quello che è scoppiato / io son quella che non c’è più / io son quello senza cui / provaci a vivere adesso». I temi e la giustapposizione di metafore di questi versi non ci sono estranei, a ben pensarci: non sono, le parole di Kruk, così simili ai brandelli di muro, a San Martino del Carso, alle trincee di Ungaretti, a «di tanti che mi corrispondevano / non è rimasto neppure tanto»? Serve dirlo, che la nostra poesia si è occupata, eccome, di guerra. «Eppure forse è passato troppo tempo perché molti europei occidentali abbiano voglia di ricordare. E allora preferiscono separare, circoscrivere. Come quel poeta italiano che da quando è iniziata l’invasione ho sentito allontanarsi da me, rispetto agli scambi che avevamo. Come se implicitamente la mia stessa presenza gli ricordasse una categoria che non vuole vedere, la guerra appunto». Altre volte questo rifiuto è palese, dichiarato. Sempre Kruk: «Qualche anno fa, nel 2014, in estate, partecipavo a un festival letterario in Alto Adige, e il moderatore, un tedesco di Berlino, appena ho accennato al Donbas, mi ha subito tolto la parola, affrettandosi a dire: no, no, qui non parliamo di guerra, qui si parla di poesia, questo è un festival letterario. Come se le questioni si potessero così facilmente separare. Questa pretesa igienica rispetto alla letteratura…».

Il secondo problema che la nuova generazione degli scrittori ucraini sembra segnalare è la cara, vecchia, fantastica condiscendenza. Nelle notti di Olesya Yaremchuk, scrittrice e giornalista di Leopoli, autrice di Mosaico Ucraina (in Italia tradotto da Bottega Errante), viaggio tra le molte minoranze linguistiche e nazionali del paese, c’è un incubo ricorrente. Olesya, nipote di kulaki deportati da Stalin in Siberia nel 1937, lo racconta mentre visitiamo Lesi Ukrainky Street, con quello stesso cortile dove lei è cresciuta e ha giocato negli anni Novanta. «Il sogno è così. Il mio libro era stato tradotto in cinque lingue e notato dalla giuria di un premio letterario internazionale. Venivo chiamata a parlare in un paese occidentale lontano, in una sala immensa, davanti a 500 persone, tutte vestite in modo estremamente elegante, con begli abiti e gioielli le signore, e camicie bianchissime gli uomini. Io, invece, indosso i soliti jeans, t-shirt e giacchetta che metto quando giro come giornalista in Ucraina, e che avevo addosso quando sono stata l’ultima volta a Mariupol, nel 2019, prima dell’invasione russa, per raccontarne la comunità greca e vedere come era stata rinnovata e modernizzata nelle infrastrutture, anche meglio che a Lviv. Nel sogno salgo sul palco dopo una breve introduzione, e provo simpatia per i miei ascoltatori ma anche una gran vergogna per i miei jeans sporchi da reporter di strada.

Poi prendo la parola e al microfono faccio un discorso appassionato che culmina con la menzione dei campi di filtraggio, installati dalla Russia nel 2022 vicino a Mariupol, a Mangush, Bezimenne, Kozatske e Nikolske, e poi a Donetsk, Dokuchaevsk, Novoazovsk, Starobeshevo, Amvrosiivka. Non sono un’invenzione recente, i campi di filtraggio: li hanno creati per primi i funzionari del Nkvd nel 1942, nei territori appena strappati ai nazisti. Lì, oggi, le persone vengono ispezionate, i loro telefoni e identità scandagliati alla ricerca di ogni minimo segno di simpatia o collaborazione con il governo o l’esercito ucraino. Quelli che non passano l’ispezione vengono torturati. O scompaiono nel nulla. Arrivata a questo punto, mi emoziono al punto da sentirmi svenire, da non riuscire più a dire niente se non un ‘grazie a tutti voi dal cuore per il vostro sostegno’. Ma il pubblico a malapena mi ascolta, e una signora bionda con una giacca rossa e una collana di perle ha già preso la parola. Guardandomi con un sorriso condiscendente, diceva: ‘Come mi dispiace per le sofferenze che avete patito. Ma ora vorrei parlarle di un bel progetto che abbiamo in mente. Visto che ha menzionato i campi di filtraggio, che ne direbbe di aiutarci a ristrutturarli e abbellirli? Sarebbe carino’. Che cosa?, rispondo angosciata. ‘Ripararli? Così che i russi possano ucciderci in modo ancora più efficiente? Per agevolarli mentre mutilano, torturano, strappano le unghie e scuoiano gli ucraini? Non fatelo, vi prego! Abbiamo bisogno di armi, non di restauri!’. Ma la signora con la collana di perle continua a parlare di questo progetto, come se lei e il pubblico in sala non mi sentissero. Mi metto in ginocchio e li supplico: ‘Non capite, non è una buona idea, ve lo assicuro, verremo cancellati!’, e grido e piango, in preda al panico. E’ a questo punto che, ogni volta, mi sveglio. Il cuscino è pieno di lacrime. E il mio pianto continua da sveglia». Ecco qual è, ancora e indistruttibilmente, il fossato.

Era il 1959 quando Czesław Miłosz diede alle stampe il capolavoro La mia Europa, per svelare «l’amaro sapere incomunicabile agli occidentali» che c’era in lui: quell’Europa orientale “sequestrata” che per i suoi amici intellettuali ginevrini era magari un oggetto di studio, lontano e asettico, mentre per lui, polacco-lituano, era una visione palpitante e viva e terribile fatta di pogrom, deportazioni, fosse comuni, nazismo, stalinismo, zarismo, odio interetnico. «E’ questa la nostra ‘terra di mezzo’ ucraina», dice nel 2023 Ostap Slyvynsky, poeta e scrittore di Lviv. «Un luogo che per secoli ha visto insinuarsi ondate migratorie volontarie o forzate, e dove poi nel Ventesimo secolo si è insinuato un rullo compressore, quello sovietico, che mirava a un’uniformazione pianificata: linguistica, culturale, religiosa (o piuttosto antireligiosa), e infine ideologica. Ecco, saremo una nazione politica solo comportandoci diversamente dal rullo compressore, solo mantenendo una piena conoscenza di tutte le componenti che hanno fatto l’Ucraina. È impossibile invitare l’Altro al dialogo senza conoscerne il nome». Ostap è del 1978. Mentre compone questo invito all’apertura, a fare crescere l’Ucraina nel caleidoscopio delle sue minoranze armene, polacche, tatare, svedesi, ebraiche, turche, rom, gagauze, rumene – a tenere tutto insieme, patriottismo e diversità, resistenza all’invasore e conoscenza storica – ha già consegnato all’esercito ucraino la sua disponibilità all’arruolamento. Lo ha fatto, anche lui, lo stesso 24 febbraio 2022. Gli hanno risposto: grazie, nel caso, quando sarà il momento. Potrebbe non arrivare mai, potrebbe arrivare domani. Lui è pronto.

Francesco Chiamulera (Belluno, 1985), autore. Ha scritto «Candidato Reagan» (Nino Aragno editore, 2013), è ideatore responsabile di «Una montagna di libri», festival internazionale di letteratura di Cortina d’Ampezzo.