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Nove piccole sedie rosse

Nei collegi per nativi molti bambini hanno vissuto un incubo sepolto nella paura dell’inferno e nelle cicatrici del corpo. In nome dell’assimilazione e del sogno americano. Nove sorelle del Dakota del sud hanno rotto il silenzio. La necessità di sfidare la memoria individuale entrando in intimità con il male degli altri. Ma il lieto fine non esiste

Qualche anno fa – durante una ricerca frustrante per cui avevo passato al setaccio il sito del Parlamento del Dakota del sud – mi sono imbattuta nella testimonianza registrata di una donna che descriveva nel dettaglio lo stupro e le torture subite da lei e dalle sorelle, gli aguzzini erano gli stessi per tutte quante. I fatti, risalenti agli anni ’60 e ’70, iniziarono circa cinquant’anni prima, quando erano tutte delle bambine, e andarono avanti per molti anni. Scoprire questa testimonianza mi ha cambiato molto, è stato un evento cruciale della mia vita, così come lo è stato realizzare per la prima volta che i miei genitori sarebbero invecchiati e poi morti. La voce della donna e quello che ha raccontato mi hanno presa allo stomaco e mi hanno avvicinata a una storia e a un gruppo di persone che, prima di quella sera, non aveva niente a che vedere né con me né con il mio mondo.

Siamo bombardati da resoconti di atrocità di ogni tipo, e il peso delle atrocità sommate tra loro spesso crea l’effetto ingrato dell’abitudine – ci abituiamo all’incubo. Ma quel giorno io ho incontrato una voce, una voce umana. E malgrado la nostra ossessione culturale per il trauma, che pure avrebbe dovuto prepararmi a capire quello che ascoltavo, non sapevo che cosa pensare delle parole di quella donna. Davanti a un racconto così intimo di crudeltà efferata, e non soltanto a numeri e a dati scarni, ho realizzato di non avere le risorse adeguate. Ho fatto i conti con il mio non essere, dal punto di vista umano, preparata.

Certe categorie di pensiero che mi sembravano solide sono diventate labili. Ho vissuto la testimonianza di queste donne abusate come una nuova conoscenza – una cosa che ha scardinato l’idea di giustizia e di dovere che mi era cara. Non è che dessi per scontato che ci sarebbe stata giustizia o che questo orrore sarebbe stato punito. Ho avuto la sensazione netta di essere entrata in una nuova idea di mondo.

Geraldine Charbonneau pensa che le cicatrici del suo aborto si trovino lì da poco prima del suo diciassettesimo compleanno, anche se per gran parte dei decenni successivi non è riuscita a ricordare l’operazione che le aveva lasciate né lo stupro che aveva reso l’operazione necessaria. Come ognuna delle otto sorelle (Louise, Francine, Mary, Barbara, Joann e altre tre che preferiscono rimanere anonime), e come la maggioranza delle vittime di violenza sessuale infantile, Geraldine dice di aver represso i ricordi degli abusi subiti da bambina prima e da adolescente poi. Louise, sua sorella maggiore, dichiara che frequentava la terza elementare quando fu la prima della famiglia a essere violentata dai preti e dalle suore della St. Paul Mission School (oggi Marty Indian School), una scuola cattolica a Marty, nel Dakota del sud. Le nove sorelle erano a Olga, nel Dakota del nord, in una tribù del ceppo Anishinaabe conosciuta dal governo federale come la Turtle Mountain Band degli indiani Chippewa. Erano fra quei bambini nativi che i genitori mandavano di propria volontà alle Native boarding school, i collegi per nativi, per garantire loro un’istruzione che potesse fornire le conoscenze necessarie ad avere successo in questo paese. Altri bambini erano obbligati dai funzionari del governo a lasciare le proprie case, altri ancora venivano strappati con la forza alle famiglie.

Entrambi i genitori Charbonneau sono morti senza sapere che cos’è accaduto alle figlie. Come altri bambini in collegi simili, le nove sorelle sono state messe in guardia dal raccontare gli abusi. Quando le suore della St. Paul scoprirono che Geraldine era incinta, la minacciarono dicendo che se l’avesse detto ai genitori, tutti e tre sarebbero bruciati all’inferno per l’eternità. Il suo feto fu abortito, ricorda Geraldine, con un’operazione clandestina nell’infermeria della scuola, e gettato nell’inceneritore del seminterrato. “Nella stanza dell’inceneritore tenevano il fuoco sempre acceso, ora so che è dove misero il bambino non nato. Lo bruciarono”.

Fin dall’inizio, lo scopo di questi collegi è stato lo sradicamento dei giovani nativi americani per assimilarli allo stile di vita americano. Queste scuole erano considerate una possibile soluzione alla “questione indiana” iniziata negli anni Settanta dell’Ottocento. Erano concepite come l’alternativa progressista alla politica delle riserve, per lungo tempo la strategia prediletta in America. Nel 1869 il New York Times scrisse che “l’unico metodo possibile per impedire ai nativi di intralciare la crescita americana sembra essere confinare rigidamente gli indiani in alcune località specifiche, fino a che la buona condotta o un progresso nella civilizzazione possa renderli idonei alla totale libertà”.

Il colonnello Richard Henry Pratt, pioniere del movimento dei collegi per nativi americani e fondatore di Carlisle, il primo collegio fuori dalle riserve, pronunciò un discorso nel 1892 intitolato “Kill the Indian, Save the Man”, dove ammetteva che l’unico indiano buono è l’indiano morto. Tuttavia incoraggiava il paese a commettere un genocidio senza spargimento di sangue – un genocidio culturale. Pratt garantì che se agli indiani fosse stato concesso l’ingresso in quello che lui e la maggior parte degli altri bianchi dell’epoca consideravano uno stile di vita indiscutibilmente superiore, questi avrebbero abbandonato volentieri le loro tradizioni. Considerava questo metodo di gran lunga più umano della strategia delle riserve di Thomas Jefferson, per cui i nativi venivano segregati in appezzamenti di terra “tenuti a distanza da ogni collegamento con il meglio della nostra società progredita”. Pratt proponeva di eliminarli con gentilezza, o quantomeno con tolleranza.

Molti nativi erano d’accordo con lui sulle riserve, e sulla speranza di assimilazione. Alcuni insegnanti e genitori indiani sostenevano le scuole di Pratt e si aggrappavano alla chimera delle “possibilità da uomo bianco”. Il miscuglio di progressismo e razzismo è ciò che turba di più della famosa orazione di Pratt. Utilizzava un’argomentazione universalista: cancella le tue differenze, abbandona le tue tradizioni e sarai il benvenuto nella società.

L’ambiguità di Pratt, la convivenza di bene e male, di intenzioni buone e malevole, riguarda gran parte dell’esperienza dei nativi americani. Si tratta di una storia disordinata, popolata da alleanze improbabili e da finali contraddittori: alcuni nativi difendono personaggi ripugnanti. Appena dieci anni dopo la fondazione di Carlisle, 10.500 dei circa 36 mila studenti nativi frequentavano i collegi per nativi modellati su quella filosofia social-evoluzionistica. Le accuse di maltrattamento degli studenti in queste strutture sono antiche quanto le scuole stesse. I bambini erano costretti a mangiare sapone di soda caustica se parlavano fra loro la lingua madre, venivano frustati se scappavano e picchiati se si tenevano per mano. Alcuni sono morti di malnutrizione. Le malattie dovute al sovraffollamento erano impossibili da controllare. Richard Monette, professore di legge alla University del Wisconsin-Madison, ex presidente della Native American Bar Association, l’Ordine degli avvocati dei nativi americani, diplomato in un collegio del Dakota del nord la mette così: “I nativi americani conoscono fin troppo bene la realtà dei collegi, dove le generazioni più giovani hanno appreso la raffinata arte di stare in fila indiana per ore senza muovere un dito come lezione di disciplina; dove i nostri studenti migliori e più brillanti si sono guadagnati diplomi in lavori domestici e di muratura; dove la severità di una vita senza peccato è stata inculcata con vesciche sulle mani e sulle ginocchia a furia di sfregare il pavimento con gli spazzolini da denti; dove le bocche sono state strofinate con soda caustica e soluzione di cloro per aver pronunciato parole native”.

Quanto segue sono i resoconti delle nove sorelle: quel che è successo alla St. Paul negli anni ’60 e ’70. Ho editato queste storie per chiarezza e brevità.Il primo lunedì di ogni anno scolastico toccava a tutti lo stesso rito di iniziazione: appena scesi dall’autobus ci mettevano in fila indiana e ci facevano spogliare. Una volta raggiunto l’inizio della fila, le suore spruzzavano polvere di ddt, un insetticida velenoso, sulla testa e sui nostri corpi nudi per togliere i pidocchi. Lo facevano perché eravamo sporchi indiani e dovevamo essere disinfestati, ci dicevano. Se provavamo a lavarci via la polvere, eravamo costretti a tornare in fila e la procedura ricominciava. Ogni anno, il venerdì sera alla fine di quella prima settimana, l’intera scuola si radunava per la proiezione di filmati sugli ebrei nei campi di concentramento, in fila, diretti alle camere a gas. La mattina successiva ci portavano tutti nelle docce comuni dove finalmente avevamo il permesso di lavarci via quella polvere. Dopo la doccia ogni bambino doveva stare nudo in piedi davanti alle suore che ci aspettavano appena fuori dal bagno per ispezionarci. Ci piegavano e ci toccavano prima di farci raccogliere i vestiti per rivestirci. Fin dalla prima settimana ci veniva instillata la paura di finire nelle camere a gas. Una paura che ci restò addosso per tutto il tempo che frequentammo la St. Paul.

Orrori di ogni genere ci aspettavano dopo quel processo iniziale. Alcuni di noi soffrivano di ipotermia permanente, alcuni portano ancora le cicatrici delle percosse inflitte dalle suore e dai preti. Alcuni di noi sono stati picchiati così forte da dover essere ricoverati in ospedale anche per dieci giorni. Alcuni di noi sono stati sodomizzati. Alcune portano le cicatrici dei parti e degli aborti dopo gli stupri dei nostri custodi. Una volta, durante una gita al lago, uno dei ragazzi entrò in acqua e stava affogando: mentre tutti gridavamo chiedendo aiuto ai preti e alle suore, loro ci ignorarono, e lui morì. Nessuno si è preso cura di noi. Non abbiamo avuto nessuna figura materna o paterna. Nessun giocattolo. Facevamo amicizia velocemente. Dovevamo – l’amicizia era una forma di protezione. Avevamo i nostri gruppetti. Ci servivano per proteggerci l’un l’altro, altrimenti saremmo stati picchiati ogni giorno. Il personale ci odiava e ce lo faceva capire senza mezzi termini. Non ci dava affetto. Non avremmo saputo cosa fosse un abbraccio o come affezionarci a qualcuno se non fosse stato per le estati a casa con nostra madre. Noi eravamo fortunate perché potevamo tornare a casa. C’erano studenti che non potevano permettersi il viaggio di ritorno e dovevano restare lì tutto l’anno.

La scuola era a quasi milleduecento chilometri dalla nostra città natale. Non c’era modo di mettersi in contatto con la famiglia. Anche i nostri zii, che vivevano lì perché lavoravano nella scuola, non riuscivano mai a incontrarci. Dal momento in cui si arrivava alla Marty l’isolamento era totale. Lo imponevano con botte, cinghiate, teste rasate, dicendoci: “Andrai all’inferno. I tuoi genitori moriranno e andranno all’inferno”. Se ci ritrovavamo a tavoli diversi, noi sorelle non osavamo dirci nemmeno ciao, ci guardavamo soltanto negli occhi. Nessuno parlava. A volte, quando ci davano da mangiare quella poltiglia, ci sporcavamo le mani e andavamo a sciacquarle al lavandino, e quello era l’unico momento in cui potevamo appoggiarci a un amico o toccargli la spalla. Se ti beccavano a toccare qualcuno ti prendevi le botte peggiori della tua vita.

C’era sempre un prete in agguato oppure quest’uomo, il guardiano, che lavorava lì e anche lui ci molestava. Era come se avessero segnali diversi che si davano l’un l’altro. Per esempio, l’uomo che molestava Louise la teneva ferma sulla sedia prendendola per i vestiti e la toccava con il dito. A volte più di uno. Poi la lasciava lì e lo vedevamo fare un gesto con la mano a uno dei preti che arrivava e le faceva quello che voleva. Il gesto della mano era il segnale che lei era pronta per un rapporto sessuale? Non potevamo esserne sicure. Ma le occhiate complici che si scambiavano, e i commenti maliziosi sulle ragazzine che diventano donne, quelli li ricordiamo bene. Geraldine dice che gli abusi sessuali su di lei iniziarono quando aveva otto anni. Padre George cominciò a toccarla e a baciarla. La baciò diverse volte, il che fece sì che gli altri bambini la prendessero in giro e dicessero che padre George era innamorato di lei. Padre Francis era lì quando padre George l’aveva baciata. Rideva e accusava padre George di voler tenere Geraldine tutta per sé.

Padre Francis era furbo. Aveva indotto Barbara a fidarsi di lui, ingannandola. Aveva fatto così: sapeva che i nostri zii vivevano nella proprietà, che non potevamo andare a trovarli da sole e che volevamo disperatamente un contatto con la nostra famiglia. Padre Francis diceva: vieni con me, ti porto da tuo zio. E a lei mancavano così tanto mamma e papà che andava con lui. Poi lui, dopo essersi guadagnato la sua fiducia, la portava nella cripta della chiesa e la costringeva ad accarezzarlo e a fare sesso orale. Una volta nella cripta c’era anche una bara, forse stavano preparando un corpo per la sepoltura, lui allora la sollevò e le mostrò il corpo di una donna morta e la mise dentro accanto al cadavere, dicendole che se Barbara lo avesse mai detto a qualcuno l’avrebbe rinchiusa lì dentro. Così abbiamo imparato a tacere.

Il custode che abusava di Louise teneva sempre con sé un grande mazzo di chiavi. Quando eravamo nel dormitorio delle bambine, in quarta elementare, ci dicevamo: “Avete sentito delle chiavi? Delle chiavi che tintinnano nella notte?”. Perché le sentivamo tintinnare. E durante quelle notti vedevamo un prete nel dormitorio. Abbiamo imparato a tirarci le coperte sopra la testa e a trattenere il respiro per evitare che scegliesse di infilarsi nel nostro letto. Una volta Louise andò in bagno nel mezzo della notte e tornando trovò un uomo nel suo letto. L’uomo con le chiavi li faceva entrare attraverso i tunnel che corrono sotto la scuola, quelli per le tubature. I tunnel ci sono ancora.

Anche le suore entravano. Lasciavano che i preti facessero quello che volevano, e anche loro abusavano di noi. Ci tiravano giù le camicette, facendoci credere che pensavano che avessimo nascosto qualcosa nel reggiseno, ma sapendo benissimo che non era così. Volevano solo umiliarci. Era un lavoro di squadra. Persino i missionari che lavoravano nella scuola erano coinvolti. Non c’era nessuno cui rivolgersi e lo sapevamo. Ci dicevano che ci avrebbero fatto del male se lo avessimo detto a qualcuno, che avrebbero ucciso i nostri genitori e che i nostri genitori sarebbero andati all’inferno. Chiaramente non potevamo rivolgerci ai nostri genitori, quindi abbiamo sepolto la cosa così nel profondo che non c’era più modo di farla emergere.

Per molti anni le sorelle non hanno fatto parola del presunto abuso né tra di loro né a nessun altro. Non è insolito. Secondo ChildUsa, se i bambini vittime di violenza sessuale decidono di parlare dell’abuso subìto, lo fanno in età adulta. L’età media è 52 anni.

Geraldine Charbonneau si è allarmata quando i suoi ginecologi, che hanno riconosciuto le cicatrici, le hanno chiesto se avesse abortito da giovane. Aveva rimosso il ricordo dell’operazione. Fu soltanto durante una riunione di famiglia nel 2009 che una delle sorelle, Louise, disse alle altre che era stata abusata alla St. Paul e chiese se anche a loro fosse successa la stessa cosa. Barbara Kay Charbonneau ricorda che “piangemmo tutte, ma nessuno disse nulla. Era stato tutto così traumatico, così incomprensibile. E i ricordi tornavano uno dopo l’altro”.

Le sorelle sono state contattate nel 2006 da altri ex alunni per una class action che chiedeva un risarcimento per gli abusi subìti dagli studenti in collegi come il St. Paul. Tra il 2003 e il 2010, più di una decina di ex allievi dei collegi cattolici del Dakota del sud hanno intentato cause civili contro il governo federale, la diocesi cattolica di Sioux Falls e diversi ordini religiosi che gestiscono le scuole.

Ogni anno dal 2010 le sorelle Charbonneau e le loro famiglie tornano nel Dakota del sud: vorrebbero che cambiasse la legislazione vigente per poter portare il caso in tribunale. Nel 2015 Michelle Dauphinais Echols ha presentato un emendamento per permettere alle sorelle di ripresentare la loro richiesta e ad altri sopravvissuti di presentare le proprie. La proposta è fallita. Allora ne ha redatta una nuova: anche questa è fallita.

Una persona stuprata non può cancellare quello che le è successo. Porterà quelle cicatrici dentro di sé fino alla morte. Il dolore delle sorelle è il dolore silenzioso e incancrenito delle persone trascurate. Non è un dolore sublimato, elegante, articolato o salvifico. Nessuno marcia per denunciarlo. Le nove sorelle soffrono nell’ombra. Vivono con la consapevolezza di tutto ciò che è stato fatto loro e di tutto ciò che non è stato fatto per loro.

Ma conoscere la tragedia può trasformare le società. Ci sono vittime, come Raphael Lemkin, che ha coniato il termine “genocidio”, che riescono a salvare la dignità dalle loro tragedie personali, costringendo gli altri a cambiare. Lemkin, la cui madre, padre e altri quarantasette parenti furono uccisi a Treblinka nel 1943, dedicò la sua vita a questo sforzo. Ma essere vittima non ti conferisce automaticamente la capacità di riuscire in un’opera del genere. Le circostanze tragiche non trasformano le persone comuni in persone fuori dal comune. E le persone dotate delle risorse interiori per portare la loro tragedia alla nostra attenzione in modo esplicito sono più rare della tragedia stessa. Non è responsabilità della vittima essere capace di utilizzare il proprio dolore o di dargli una voce duratura. Il dolore non concede saggezza, ma soltanto il bisogno di saggezza.

Non ci sarà alcuna consolazione per le nove sorelle, ma le loro storie devono essere conosciute comunque. Ci sono ragioni pratiche che elencherò e spiegherò, ma prima devo dire che, come primo effetto, la loro storia distrugge in noi la fiducia nel lieto fine. Raccontando la loro storia o sostenendo la riforma della legge possiamo solo soddisfare i nostri doveri morali. Questo certo ci conforta, ma le sorelle sono ben lontane dal raggiungere il conforto. Per loro, l’orrore è irreversibile. È fondamentale comprendere una cosa che riguarda tutte le vittime di atrocità – le conseguenze in cui sono condannate a vivere. Il genocidio culturale non sarà cancellato, nonostante lo stupefacente potere delle culture native di sostenersi. Nel 1975 il controllo della St. Paul’s School, come molti di questi istituti, fu trasferito dalla Chiesa alle tribù e divenne la Marty Indian School. Non è rimasto più nessuno da punire. I presunti stupratori sono morti da tempo: l’indifferenza li ha protetti. Dovrebbero esserci monumenti nelle strade del Dakota del sud per commemorare gli orrori che hanno avuto luogo lì. Gli studenti delle scuole superiori di tutto il paese dovrebbero conoscere la storia oscena di questi collegi. Ma anche se tutto questo accadesse, per un qualche miracolo sociale, ancora non sarebbe fatta giustizia.

E non abbiamo neanche il lusso di dire che raccontiamo queste storie per impedire che mali come questi si ripetano. La nostra ossessione culturale per l’utilità, il nostro impulso a rispondere sempre con misure pratiche ci ingannano. Accadrà di nuovo. Questi orrori si ripeteranno. Conosciamo troppo bene la natura umana per credere soltanto nella sua bontà e nell’efficacia delle lezioni della storia. L’essenza del genere umano contiene in sé il male. Ci saranno sempre persone malvagie, e molte di loro sfuggiranno alla giustizia e ci sarà sempre una maggioranza schiacciante di spettatori disinteressati, una massa di impassibili, che faciliterà questa distrazione.

In questa storia gli spettatori giocano un ruolo particolarmente inquietante. Dopo tutto, come si dice, la storia è complicata. Non tutti gli studenti sono stati brutalizzati. Molti si sono trovati bene nei collegi per nativi. Le presunte tragedie di alcuni sono abbastanza per eclissare la normalità degli altri? A molti nativi sopravvissuti che hanno la forza di cercare giustizia viene fatta questa domanda. Perché sporcare la reputazione di interi gruppi e di intere istituzioni rendendoli noti soltanto per i loro crimini? La domanda è fondamentalmente un invito a mentire o a guardare dall’altra parte. Nella lunga lotta con questi problemi in molte diocesi cattoliche in America, alla fine è stata scelta la via della verità. Se i bambini di Boston meritano verità e protezione, lo stesso vale per i bambini del Dakota del sud. Forse ci sentiamo a disagio nell’intrometterci nella privacy di un’altra comunità, ma ogni critica e ogni azione etica sono in qualche modo un’intrusione.

La maggior parte delle vittime non sarà salvata, dovrà convivere per sempre con le conseguenze, e coloro che avrebbero potuto salvarle, o migliorare le loro condizioni, ma non l’hanno fatto, non saranno assolti dalla loro complicità. Eppure dobbiamo stare attenti a non raccontare queste storie per assolvere noi stessi. L’atto di raccontare la storia non redime nessuno – né noi né le vittime. I racconti possono aumentare la sensibilità di chi li ascolta – o possono essere trattati solo come storie, un’interferenza passeggera nella nostra mente con un inizio e una fine, una struttura che ha l’effetto di neutralizzare lo choc.

Esiste un assioma pop-terapeutico secondo cui parlare del dolore o dell’ansia ne diminuisce il potere. Gli americani credono nel potere salvifico della parola. Un lungo discorso a cuore aperto e il mondo è già un posto migliore. Parliamone.

Certamente non è stato così per le sorelle Charbonneau. Riportare alla memoria l’infanzia per loro è stato straziante. Il silenzio è una reazione naturale e dignitosa all’esperienza dell’orrore. Le sorelle si sono ritirate nel silenzio come tanti altri all’interno della comunità dei nativi americani. I sopravvissuti ai collegi hanno detto ai loro figli di non andare a cercare indizi in quei posti. Spesso questo silenzio è espressione di vergogna. La vergogna rende un ricordo pesante ancora più pesante.

Alcuni dicono che è fatale. Le sorelle credono che Louise Charbonneau, morta improvvisamente nel 2020, non potesse più sopportare di raccontare ogni anno la sua storia. Durante la testimonianza per l’emendamento proposto, Geraldine ha detto ai legislatori: “Sento che il Signore l’ha portata a casa per non farla venire di nuovo qui, per non dover essere violentata di nuovo dal vostro ‘no’”. Quando mai è un dovere della vittima rivivere il proprio trauma?

Di fronte alle atrocità è fondamentale che gli spettatori, e non solo le vittime, sostengano il fardello del ricordo. Per oltre due secoli queste storie sono rimaste fuori dalla memoria collettiva nazionale. È un imperativo morale che questa amnesia volontaria venga curata – non solo tra le tribù. Queste atrocità meritano di essere iscritte nel passato condiviso del paese, per rispetto dell’umanità che è stata profanata e come ostacolo a future profanazioni. Dico ostacolo a ragion veduta. La memoria collettiva e anche la conoscenza storica non possono certo precludere il ripetersi dell’ingiustizia. Una delle affermazioni più tristi ed errate della sensibilità post Olocausto è la fiducia nel fatto che il ricordo del male passato impedirà il male futuro. I sopravvissuti e le vittime scommettono molto sul potere della memoria di dissuadere le persone dalle azioni violente. Ma ormai avremmo dovuto imparare la lezione. “Mai più” non ha impedito la Bosnia, il Ruanda o la Siria. La distruzione dei campi di concentramento costruiti per gli ebrei in Europa non ha impedito la costruzione dei campi di concentramento per gli uiguri nello Xinjiang di oggi.

I mali devono essere ricordati dalle persone alle quali non sono accaduti. Dobbiamo ricordare le storie degli altri. È ragionevole chiedersi se le persone possano ricordare cose che non hanno vissuto. Non è forse una sfida alla natura della memoria individuale? Eppure lo facciamo continuamente. Diamo a questo fenomeno onnipresente e misterioso il nome di memoria collettiva. I discendenti degli schiavi non hanno mai vissuto la schiavitù, eppure hanno ragione di dire che la ricordano. I figli dei sopravvissuti all’Olocausto non hanno mai vissuto l’Olocausto, eppure hanno ragione di dire che lo ricordano. È possibile sentire da molto vicino le esperienze degli altri.

Per ricordare ciò che non è successo a te, devi immergerti così completamente nella conoscenza del passato da raggiungere con esso un’intimità interiore, da farla diventare la sensazione di una conoscenza personale. Lo strumento di questa intimità, di questa conoscenza, è l’immaginazione non l’immaginazione della fantasia ma l’immaginazione della realtà. L’immaginazione è uno strumento etico. Deve essere tale: se i soli mali che si possono concepire, aborrire e combattere sono quelli vissuti in prima persona, allora le persone fortunate sarebbero inutili contro le ingiustizie. Cosa che, per questa ragione, spesso sono davvero.

Le donne di Olga, nel Dakota del nord, non assomigliano a nessuna delle persone che ho conosciuto. Le loro storie personali mi sono del tutto estranee. Siamo figlie di Americhe diverse, e non ho una comprensione innata, basata sulla mia biografia, di come queste donne Ojibwe abbiano vissuto e di cosa abbiano sofferto, anche se forse mi è più facile incorporare le loro storie nella mia memoria collettiva perché la mia tradizione mi ha fornito un corso di formazione sull’importanza di tale faticosa empatia (Ho pensato molte volte, mentre facevo ricerche, che l’enfasi della tradizione ebraica sulla memoria mi abbia dato una preparazione essenziale per questo lavoro). Nonostante le differenze tra noi, la distanza geografica e di ambiente, la diversità empatica, da quella notte di tre anni fa queste donne sono rimaste con me.

Lo dico con umiltà. Di nuovo, io non sono come loro, e non ho sofferto niente di simile a quello che hanno sofferto loro. Ma sarebbe sbagliato allontanarsi da loro per questo, invocare l’“alterità” e cercare di dimenticare ciò che ho imparato. La differenza non dovrebbe essere una scusa per l’indifferenza. Se si fa il lavoro di studio e di immaginazione, difficile e rispettoso, allora l’abisso può essere adeguatamente colmato – certamente abbastanza per imporre responsabilità morali, sociali e politiche. Stranamente, solennemente, in modi totalmente diversi dalle vittime e dalle loro comunità, io ricordo. Loro sono parte di me. Ora sono parte di voi.

 

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sulla rivista americana Liberties. Le illustrazioni sono di Celeste Marcus. La traduzione è di Livia Chiriatti

Celeste Marcus (Philadelphia,1995) è nata e cresciuta in una comunità ebraica ortodossa. È autrice e vicedirettrice della rivista Liberties, diretta dall’intellettuale americano Leon Wieseltier.