Tempo fa, in rete, su Twitter per la precisione, ho letto che faranno un documentario sugli Strokes e gli altri gruppi musicali della scena indie degli anni Duemila. Lcd Soundsystem, Yeah Yeah Yeahs, Interpol. Guardo il trailer, è molto bello – un montaggio perfetto di materiale d’archivio, video amatoriali e schitarrate – ma mentre lo vedo c’è qualcosa che non mi torna. O forse sarò io, non so. Le immagini dell’epoca (ricordiamolo, siamo nei primi duemila) mi sembrano tutte, come dire, seppiate, sgranate e a bassa definizione come se non risalissero al massimo a vent’anni fa, un tempo in cui le registrazioni anche domestiche erano già tutte in digitale, avevamo macchinette portatili e account mail, ma agli anni Settanta, o comunque a un’età lontanissima, sensuale e analogica come la gioventù di qualcun altro. Meet Me in the Bathroom, si intitola il documentario: adesso nel bagno mi ci incontri due volte a notte, ma è quello di casa e a un concerto non ci vado più da un lustro.
Ero già malinconico in quei giorni, ma vedere le immagini di un passato recentissimo eppure già museificato, glassato dietro un filtro Instagram e appeso in una teca, mi volge definitivamente al malmostoso. Accidenti, avrò ancora dei dvd da vedere comprati in quegli anni (oggi non ho più un lettore per farli girare, d’accordo, ma quei dvd me li sono portati dietro in due traslochi), dei libri lasciati a metà sul comodino con l’idea di finirli prima o poi, delle persone a cui ho detto “Tranquillo, ti chiamo io” e che devo sentire da dieci anni: non potete fare un documentario storico sull’altroieri! Dev’essere un complotto per farmi sentire vecchio.
“Non mi fido della nostalgia degli altri, solo della mia. La nostalgia è un prodotto dell’insoddisfazione e della rabbia. È un regolamento di conti tra il presente e il passato. Più è potente la nostalgia più ci si avvicina alla violenza”, dice Murray Jay Siskind, professore di “Icone viventi” al College-on-the-Hill, all’amico Jack, professore di Hitlerologia, viene forse in contatto con la sostanza tossica e cresce in lui la paura di morire. Ma quello che mi interessa adesso è ciò che allora non potevo vedere: perché io ero diverso, perché il mondo era diverso e collega Jack Gladney, professore di “Hitlerologia” nella medesima università, nonché protagonista di Rumore bianco di Don DeLillo. In quei giorni d’inverno, quando ho visto il trailer del film sugli Strokes, stavo anche rileggendo Rumore bianco: dovevo lavorare alla nuova traduzione di Federica Aceto che sarebbe uscita di lì a poco per Einaudi.
Adesso che ci penso, anche la prima volta che lessi Rumore bianco risale a più di vent’anni fa, a quando gli Strokes iniziavano a suonare e io facevo l’università, di sera andavo ai concerti e se dormivo comunque non mi svegliavo per andare in bagno.
Anatole France una volta scrisse che “l’unico sapere esatto che esista sui libri è il sapere circa l’anno e il formato”, cioè molto poco. Perché molto poco è quello che resta uguale non solo tra la mia lettura e la tua, ma anche tra due letture lontane nel tempo fatte dalla stessa persona. A volte non ricordiamo nemmeno di averlo letto, un certo libro (e finisce che lo compriamo due volte).
Rumore bianco ricordo molto bene di averlo letto: anche perché da allora, questo romanzo del 1985 eletto praticamente subito a campione del postmodernismo americano, divenne uno dei libri più importanti della mia vita. E leggendolo adesso ritrovo tutte le cose che mi colpirono la prima volta. Ritrovo la storia: Jack Gladney è appunto un professore di mezza età di Hitlerologia, una materia che si è inventato lui nonostante non sappia il tedesco (“in pratica io vivevo relegato ai margini di un paesaggio di sconfinata vergogna”), e abita dentro al campus con la moglie Babette e i vari figli loro e dei matrimoni precedenti. A un certo punto il deragliamento (la vita è quello che ti capita tra un deragliamento e l’altro) di un vagone cisterna carico di sostanze chimiche provoca un “evento tossico aereo”, una nube velenosa che costringe allo sgombero dei dintorni: durante l’evacuazione Jack viene forse in contatto con la sostanza tossica e da quel momento, come un virus che silenzioso è scivolato nel suo corpo, cresce in lui la paura di morire. Un montante, paralizzante terrore. Nel frattempo scopre che Babette sta assumendo di nascosto un farmaco sperimentale, il Dylar, che pare curare proprio la paura della morte.
E ritrovo l’ironia. La presa in giro di uno stile di vita, quello degli Stati Uniti degli anni Ottanta, che poi, bene o male, nei decenni successivi è diventato quello di tutti. L’analitico sarcasmo sul nostro rapporto con i media, i supermercati, gli oggetti che compriamo e desideriamo. A un certo punto, è una delle scene più belle e giustamente famose del libro, Jack si avvicina ai figli che stanno dormendo. Sente delle parole, qualcuno sta bisbigliando nel sonno. Si avvicina, tende l’orecchio: la bambina “ha pronunciato due parole chiaramente udibili, familiari ed elusive allo stesso tempo, parole che parevano avere un significato rituale, elementi di un incantesimo o di una salmodia estatica. Toyota Celica”. DeLillo ha questa capacità di rendere visibile il linguaggio in cui siamo immersi, di dargli sostanza trasformandolo da medium trasparente a materia solida, dotata di una sua energia, di un suo potere. Le parole, i gerghi, il linguaggio della tecnologia e delle emergenze, della pubblicità (all’inizio il romanzo doveva intitolarsi Panasonic), della radio, della televisione, del giornalismo scandalistico, il chiacchiericcio generalizzato che ci entra in testa incontrollabile come una scarica statica su un video. “Tutto quello di cui abbiamo bisogno, al di fuori del cibo e dell’amore, è qui, sugli espositori dei tabloid. Storie soprannaturali ed extraterrestri. Le vitamine miracolose, le cure per il cancro, i rimedi contro l’obesità. Il culto delle celebrità e dei morti”.
Allora, tutto questo me lo ricordavo: morte, consumismo (critica al), una certa diffusa, ironica figaggine. Quanto bastava per far schizzare Rumore bianco in cima alle preferenze di un ventenne avviato agli studi letterari che si credeva cool nonostante non avesse paura di usare espressioni come “feticismo della merce” pur di far parte di qualche tribù dipartimentale. Tutte cose, tra l’altro, oggetto dell’ironia proprio del romanzo. Ma lasciamo stare – sono passati tanti anni e la gioventù è un reato che cade in prescrizione. Quello che mi interessa ora sono tutte le cose che ci trovo adesso per la prima volta. Scoprire dentro Rumore bianco un altro libro, un libro sconosciuto, un romanzo che all’epoca non potevo leggere perché ero diverso io, era diverso il mondo. Che nessuno poteva leggere, perché parlava del futuro e Rumore bianco era già lì. Nel futuro.
La stessa mattina in cui scopro il documentario sugli Strokes e lavoro sulla traduzione di Rumore bianco, la Russia inizia la sua campagna di bombardamenti a tappeto sulle città ucraine come rappresaglia per l’attacco al ponte di Kerch in Crimea. Sono ossessionato dalla guerra in Ucraina: i timori di escalation, il senso di minaccia incombente, la percezione che la Storia abbia ricominciato a marciare, la rabbia per l’aggressione, il senso di impotenza, l’imbarazzo per la reazione ipocrita di molti intellettuali, mi fanno cercare le notizie e le analisi del conflitto con una frequenza e una partecipazione sospetta, ben al di là di un legittimo desiderio di informazione. Ho iniziato a seguire su Twitter diverse fonti ucraine, che postano in inglese. Finisce così che leggo da @UkraineFrontLines che fra tre ore è previsto l’arrivo di un’ondata di missili su Kiev. Poi tra due ore, poi tra un’ora. Un countdown terribile che mi appare sul monitor alternato ai tweet degli amici, alle battute di chi si crede divertente, a una sparata di Calenda, a una recensione del New York Times, all’indignazione generale per la sparata di Calenda, alle notizie sulla Juve, a una nicchia di savi che invita a non indignarsi per le sparate di Calenda, ma poi sono indignati anche loro, poi ancora notizie sulla Juve grazie al cielo. Mai come in questi anni ho capito perché tanta gente segue il calcio.
“Solo le catastrofi riescono ad attirare la nostra attenzione. Le bramiamo, ne abbiamo bisogno, ci contiamo. A patto però che avvengano da qualche altra parte”. Jack, Babette e i ragazzi si ritrovano la sera, mentre mangiano, a guardare rapiti le immagini dei disastri che esondano dalla televisione, dai film, dai notiziari, dalla radio. Ne sono attratti, incollati come fedeli intorno a un totem, un rito in cui dimenticano loro stessi, le loro paure, in cui entrano in contatto col mistero e il buio. Come in chiesa. E come in una chiesa è anche il momento in cui si salda una comunità, la famiglia, in cui si cementa l’unione e la fiducia in un gruppo di umani. La famiglia è una chiesa unita dai disastri, “a patto però che avvengano da qualche altra parte”. Poi però il vagone deraglia. L’evento tossico aereo. Il disastro chiede di entrare in casa, di accomodarsi al tavolo della cena con il resto della famiglia. Come un poltergeist, le immagini delle catastrofi escono dallo schermo ed entrano nella vita.
Nel frattempo anche noi abbiamo avuto il nostro evento tossico aereo. Qualcosa di potenzialmente mortale che si diffonde invisibile attraverso l’aria. Un disastro che non si svolgeva più in qualche parte sperduta del mondo, col suo carico di morte anonima, ma che è venuto a bussare alla nostra porta, anzi è venuto a chiuderci dentro casa, ci ha costretto a evacuare – non verso l’esterno, lontano, ma dentro, sempre più dentro casa, a emigrare dentro le nostre stesse vite. Come Jack all’inizio della pandemia provavamo a minimizzare (“‘Lo so che non succederà niente, e anche tu sai che non succederà niente. Ma a un qualche livello dovremmo pensarci comunque, perché non si sa mai’. ‘Certe cose capitano alle persone povere che vivono in zone a rischio’”), a far finta di nulla. Non capiterà a noi, ci dicevamo, almeno io me lo dicevo: non ci trasformeremo davvero da spettatori a comparse direttamente coinvolte in una catastrofe, un evento tossico aereo su scala globale. Il disastro ti arriva addosso e tu fai finta di nulla, almeno finché riesci a fingere. Poi la paura sale, aumenta come una febbre che il termometro non può non registrare. “Era davvero suggestionabile fino al punto di sviluppare tutti i sintomi che venivano annunciati?”: Rumore bianco è un grande, grandissimo romanzo sui sintomi. Sull’ascoltare il proprio corpo, ogni scricchiolio scambiato per annuncio del crollo, sulle nostre relazioni tossiche con i medici, sul non aprire le buste con i risultati delle analisi, lasciarle sulla mensola all’ingresso, sperando di dimenticare che esista. Su uno dei più insondabili misteri della modernità: far finta di essere sani. Come ci riusciamo?
“Per le persone nel mondo esistono soltanto due posti. Quello dove abitano e il loro apparecchio televisivo. Se una cosa succede in televisione, di qualunque cosa si tratti, noi abbiamo il sacrosanto diritto di restarne affascinati”. Se nel 1985 era la televisione, oggi la nostra fonte di disastri ce la portiamo direttamente in tasca. La mia droga si chiama doomscrolling, il movimento del dito sul touch che mi fa precipitare in una sequenza ininterrotta di fonti d’ansia. Guerre, cambiamento climatico, fascismo trionfante, pandemie, sparate di Calenda. Esisto soltanto in due posti, nel posto dove abito e nella timeline di twitter.
Qualche giorno fa sono andato a prendere una birra con un amico. Ci conosciamo dai tempi dell’università e fu proprio lui a regalarmi Rumore bianco. Sembra fatto apposta ma è un caso, davvero: forse ho pochi amici. Comunque. Col Cane (chiamiamolo così, qua) non ci vedevamo da molto, forse da subito dopo il primo lockdown. Nel frattempo io avevo cambiato casa, la bambina e il lavoro mi lasciavano sempre meno tempo e anche gli aggiornamenti col Cane via chat si erano diradati. “Quest’estate ho partecipato a un ritiro zen” mi dice a un certo punto. Come in Yoga di Carrère, gli faccio. “Non l’ho letto”. Comunque sì, esattamente come in Yoga: “Non si poteva parlare, con nessuno. Per dieci giorni, dieci, non ho parlato con nessuno. La sveglia era alle cinque, poi dalle sei alle sette un’ora di meditazione. Una colazione leggera e via, si continuava a meditare fino a sera, con dei brevi intervalli per fare un giro nel giardino e sgranchirsi le gambe. A parte queste mini passeggiate si restava seduti per terra, dritti, immobili”. Siamo sugli sgabelli al bancone, raddrizzo la schiena anche se inizia già a farmi male dopo dieci minuti. “E poi basta, nient’altro. Non si poteva leggere, scrivere, non potevi portarti né libri né quaderni”. Con un gesto automatico, la mia mano stava sbloccando lo smartphone per controllare le notifiche. “E naturalmente non si poteva usare il telefono, mai”. Poso l’apparecchio. E adesso? gli chiedo. Mi aspetto che gli si apra il terzo occhio in diretta, lì davanti alla birra. “E adesso, niente. Però sono più rilassato”.
Secondo molti studi i social hanno cambiato
la nostra percezione del tempo. In biologia l’entrainment è la tendenza di un essere vivente ad allineare la sua fisiologia a un ciclo. L’esempio più familiare è il ritmo circadiano, il ciclo di 24 ore in cui si alternano sonno e veglia. Il segnale che guida l’entrainment, in questo caso l’alternarsi di luce e buio, è chiamato zeitgeber, in tedesco “che dà il tempo”. (“C’è qualcosa nei nomi tedeschi, nella lingua tedesca, nelle cose tedesche. Non so esattamente cosa. Ma c’è”). I segnali che guidano i cicli della nostra fisiologia, e quindi della nostra percezione del tempo, sono molti di più, oltre la luce e il buio. L’artista taiwanese Tehching Hsieh negli anni Ottanta diede vita a una performance intitolata Time Clock Piece (One Year Performance 1980-1981) in cui si costrinse, per un anno, a timbrare un cartellino ogni ora. Alterando così radicalmente i suoi ritmi, il sonno (per un anno non ha dormito di seguito più di un’ora al giorno), la percezione del tempo. Ecco, qualcosa di simile all’entrainment, qualcosa che ha a che fare con la fisiologia, con la memoria primordiale delle cellule, sembra essere dietro anche al nostro rapporto con Twitter e gli altri social: “Il ritmo degli aggiornamenti e delle notifiche è uno zeitgeber potente, che può persino annullare il nostro ritmo circadiano, come sa chiunque si metta a scrollare la notte”, scrive Jenny Odell, autrice del libro Come non fare niente. Resistere all’economia dell’attenzione. Onde e radiazioni, direbbe DeLillo, parole che galleggiano nell’aria e ci entrano in testa, notifiche che ci richiamano a prendere posizione, a spaventarci, a arrabbiarci, a allarmarci ogni istante, a timbrare il cartellino della nostra esistenza online. E ogni volta si aggiunge un dettaglio all’immagine generale, una voce, un punto di vista, una notizia, finché il quadro generale non si vede più, tutto troppo complesso, c’è troppo disordine, il segnale si perde. Rumore bianco.
“Se un uomo dell’età della pietra ti chiedesse cos’è un nucleotide, tu saresti in grado di rispondergli? Come si fa la carta carbone? Che cos’è il vetro? Se domani ti risvegliassi nel Medioevo, nel bel mezzo di un’epidemia, potresti fare qualcosa per fermarla?”, sibila a Jack suo figlio. Se c’è una cosa che ci portiamo dietro da questi tre anni di pandemia, oltre al doomscrolling, oltre all’ansia, la paura e tutto il resto, è la consapevolezza di quanto sia difficile distinguere il segnale dal rumore. Di come un eccesso di informazione porti all’accecamento. A cominciare dagli algoritmi, a cui abbiamo affidato le nostre vite senza avere davvero idea di come funzionino, di chi li possegga, di chi li controlli e come controllino le nostre giornate. Pensiamo di avere il controllo di tutto, ma siamo circondati dal mistero.
Il giorno dopo la birra col Cane accompagno mia figlia alla scuola dell’infanzia. È nata pochi mesi prima dell’inizio della pandemia e ogni tanto mi chiedo se la mia vita è cambiata così tanto rispetto a qualche anno fa, se è così stravolta rispetto a prima, più per una pandemia globale o più per la nascita di Alba. Da qualche tempo vuole andare a scuola a piedi. Non è distante, ma di solito ci andavamo col passeggino.
Poi un mattino, a metà strada, ha detto: “Io sono grande, voglio andare a piedi” ed è saltata giù. Adesso ci mettiamo un po’ più di tempo, ovviamente va più piano del passeggino anche se mi assicura che: “Ho il passo lungo, io”. No, amore mio, non ce l’hai: ma va bene così perché quei venti minuti, mezz’oretta che camminiamo insieme sono la cosa più vicina a un ritiro zen che io riesca a fare. Senza notifiche e mail, senza spam e disastri. Una forma di meditazione.
“Guardare i bambini mentre dormono mi dà un senso di devozione, come se facessi parte di un sistema spirituale. È quanto di più vicino a Dio per me. Se esiste un equivalente laico dell’atto di stare in una grande cattedrale con le guglie e le colonne di marmo, illuminata dalla luce che entra mistica e obliqua attraverso finestre gotiche a doppia apertura, questo è senza dubbio guardare i bambini che dormono profondamente nella loro cameretta. Specialmente le femmine”: un’altra frase di Rumore bianco che vent’anni fa non avevo sottolineato. Lo so che in questo preciso istante sto abbracciando tutti i più triti e melensi cliché del padre rincoglionito. Lo so e l’accetto: mondo, fai di me ciò che vuoi. E in fondo il punto è tutto qui: questa nuova, enorme, incontrollabile vulnerabilità. In quei momenti, quando la guardo dormire, quando camminiamo insieme, mi chiedo com’è possibile che dopo aver passato la totalità della vita adulta a erigere muri abbastanza spessi per tenere fuori il mondo, per non farmene contagiare, dopo aver messo in piedi raffinatissime e complesse strategie di controllo dell’ansia, di minimizzazione della paura, ed esserci riuscito, ecco, com’è possibile che proprio a quel punto abbia deciso che tutte le mie fragilità, tutta la mia vulnerabilità, potessero andarsene in giro per il mondo per conto proprio in forma di bambina di tre anni e mezzo?
Dopo averla fatta entrare a scuola, mi lascio cadere nel bar sotto la redazione a prendere un caffè. Mentre aspetto, senza pensarci, metto la mano in tasca e tiro fuori lo smartphone alla ricerca dei miei disastri quotidiani. Leggo anche che è uscito il documentario sugli Strokes, mi segno di guardarlo. Meditazione finita.
“Com’è strano. Abbiamo queste paure insistenti, terribili, profonde riguardo a noi stessi e alle persone che amiamo. Eppure intanto andiamo in giro, parliamo con gli altri, mangiamo e beviamo. Riusciamo a funzionare. Le sensazioni che proviamo però sono profonde e reali. Non dovrebbero paralizzarci? Come facciamo a sopravvivere, anche se solo in via momentanea?”.